Pubblichiamo alcuni testi di Jean Sénac, poeta franco-algerino nato nel 1926 a Béni-Saf (Algeria francese) e morto il 30 agosto 1973 in un’Algeri capitale di un Paese indipendente dal 5 luglio 1962. Sua madre Jeanne Comma, di origini spagnole, vittima di uno stupro, diede clandestinamente alla luce Jean dopo essersi allontanata da Orano, dove viveva. Del padre biologico non saprà pressoché nulla, ma scriverà in un romanzo di ricerca sui suoi primi anni, Ebauche du père (Ritratto incompiuto del padre), di cui riuscì a completare solo la prima parte, nel 1962, dal titolo Pour en finir avec l’enfance (Per farla finita con l’infanzia)1. Il cognome Sénac gli viene dal secondo marito di Jeanne Comma, Edmond. Anche la morte dello scrittore fu segnata dalla violenza: egli venne ucciso ad Algeri. Frettolose indagini portarono all’arresto di un sospetto, liberato dopo tre mesi, nella massima discrezione. Questo di Sénac è uno dei delitti di cui sono stati vittime alcuni dei più grandi poeti del XX secolo: buona parte dei poeti sovietici uccisi negli anni Venti e Trenta, Lorca, Pasolini, Ken Saro-Wiwa… Ma la lista è lunga, per la ferocia del secolo passato, e di quello nuovo. Egli fu poeta in lingua francese, estremamente legato all’Algeria tanto da chiederne la cittadinanza (mai ottenuta) e da domandare di essere lì sepolto (in un cimitero musulmano, ma anche questo non gli fu concesso). Spostandosi tra Algeria e Francia egli visse le vicende di questi due Paesi nel secondo dopoguerra: gli ultimi furenti bagliori del colonialismo; l’insurrezione anti-francese del 1° novembre 1954 iniziata su impulso del FLN (Front de Libération National) e poi una guerra senza risparmio di colpi; la nascita dell’Algeria indipendente (luglio 1962); il colpo di Stato militare (19 giugno 1965) guidato dal colonnello Houari Boumédiène contro Ahmed Ben Bella, primo presidente dell’Algeria (da qui inizierà l’involuzione verso il partito unico, verso l’affermazione di una nomenklatura rigida, settaria e incompetente – se non nel proteggere i propri privilegi- e verso una sempre maggiore centralità del nazionalismo arabo). Di questa involuzione Sénac, entusiasta cantore della rivoluzione algerina, è una delle vittime designate. Un poeta omosessuale, francofono, progressista non poteva essere più accettato in un Paese che, dietro lo schermo dell’internazionalismo, stava imponendo la via esclusiva dell’algerianità. Alcuni dei suoi stessi compagni di lotta gli voltano le spalle: “Tu non sei algerino perché non sei arabo”, gli dice Malek Haddad; e “l’Algeria non ha bisogno di checche”, scrive nel suo diario Kateb Yacine, altro poeta rivoluzionario…
Sul finire degli anni Sessanta Sénac, che aveva combattuto con grande forza per contribuire alla rinascita culturale della neonata Algeria, deve mettersi da parte: mal tollerato dal potere golpista che gli rimprovera le sue simpatie per Ben Bella e, a poco a poco emarginato dalla vita letteraria, si riduce a vivere in una cave-vigie, come la chiama lui stesso, cioè in uno scantinato-gabbia, in un basso insalubre d’Algeri, pur continuando una potentissima azione poetica, ma sempre più isolato e con forti difficoltà economiche. Fino a quando busseranno alla sua porta gli assassini. Parabola e paradigma d’ogni rivoluzione, dall’entusiasmante presa del potere fino all’involuzione totalitaria? E, nel caso specifico, fino alla guerra civile degli anni Novanta (150.000 morti, migliaia di dispersi nello scontro tra il fondamentalismo islamico e quello cosiddetto “laico” dei militari), di cui per legge non si può nemmeno parlare, oggi, nell’Algeria “riconciliata”, in realtà sotto il tallone di ferro di un regime violento.2
I versi di Sénac che proponiamo sono tratti da una lunga poesia del 1962, “Poema-programma”, in cui egli esalta un giovane popolo capace di “rivendicazioni poetiche”; e poi pubblichiamo due testi posteriori, compreso l’ultimo da lui scritto, in cui urla la sua delusione.
1Vedi, in traduzione italiana, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, Oltre edizioni, Sestri Levante, 2017, pp. 240, traduzione e cura di Ilaria Guidantoni, con un saggio, sempre della curatrice, dal titolo “Jean Sénac, poeta bastardo alla ricerca del padre”. Per le stesse edizioni Oltre e con la stessa curatrice, nel 2019 è uscita un’antologia di versi di Sénac, Per una terra possibile, pp. 515 (testi francesi a fronte). Nel 2013 è uscita in Francia un’ottima biografia del poeta scritta da Bernard Mazo, Jean Sénac, poète et martyr, Éditions du Seuil.
2Della guerra civile parla il romanzo di Kamel Daoud Houris (Gallimard, 2024), le uri del paradiso musulmano, fresco vincitore del Premio Goncourt. Nel 2022 è invece uscito il romanzo di Mathieu Belezi, Attaquer la terre et le soleil (Le Tripode éd.), pubblicato in italiano nel 2024 (Attaccare la terra e il sole, Gramma/Feltrinelli): esso narra dei violentissimi inizi della colonizzazione francese in Algeria e permette di avere un quadro più completo dell’intera vicenda. Sostiene Belezi in un’intervista (“L’eredità coloniale, minaccia presente”, Il Manifesto, 6 luglio 2024) che “non è possibile parlare costantemente della guerra d’Algeria (1954-1962) (…) senza sapere nulla della conquista di quel Paese da parte dell’esercito francese nel 1830 e del modo in cui i coloni hanno amministrato queste cosiddette terre barbare durante 132 anni terribili…”
POEMA-PROGRAMMA1
Noi
siamo
stati
fatti fuori,
licenziati,
li-
qui-
dati
in un mondo dove la poesia non ha senso,
il mondo del denaro, delle comodità e del disprezzo dell’uomo.
Fatti a pezzi,
respinti,
ro-
vi-
nati,
poveri perché stavamo con i poveri.
Noi siamo stati fatti fuori.
Nel più grande stadio di Mosca
Voznesenskij2
legge le sue poesie davanti a dodicimila persone.
A Costantina
i cantastorie cantano le loro poesie sulle pubbliche piazze.
A Parigi
noi mormoriamo le nostre poesie
a trenta intellettuali
nella sala posteriore d’un caffè.
A che punto siamo, compagni?
A che punto siamo, miei fratelli?
Marchiati da quale cancrena,
da quale piccolezza del cuore,
da quale ossido turbolento?
Qui,
in Algeria,
perché noi scriviamo per un popolo
di dodici milioni di abitanti,
qui
noi romperemo con il vecchio mondo egoista,
scuoteremo le nostre suole,
intingeremo i nostri cuori alla fontana
e canteremo.
Per un popolo intero
che ci riconoscerà
negli stadi,
in fabbrica,
nei cinema,
nei villaggi.
Seguendo così la nostra fonte,
l’esempio del narratore
e la folla riconciliata.
Qui, il nostro sogno è azione (…)
Fratelli del popolo,
per questa nuova lotta di liberazione dell’uomo,
contro
la
notte,
incorruttibile,
il poeta al vostro fianco
diventa di nuovo terrorista
e lancia la bomba
delle
Rivendicazioni Poetiche del Popolo.
1 Testo pubblicato in forma di dépliant ad Algeri, nel giugno del 1963, per il Fondo nazionale di solidarietà. Qui ne riportiamo una lunga sezione iniziale e gli ultimi versi.
2Andrej Andreevič Voznesenskij (1933-2010), poeta modernista sovietico.
CITTADINI DI BRUTTEZZA1
Maledetto tradito braccato
Io sono l’immondizia di questo popolo
La checca lo straniero il povero
Fermento di discordia e di sovversione,
Scacciato da ogni luogo da ogni pagina
Dove si trova la vostra bella nazione
Io sono sulle vostre labbra la spina
E il tumore alle vostre calcagna.
Non dormo più mi trascino raccolgo quel che riesco
Un sole di pazienza Qui
Visse un popolo là muoiono
Coraggio e coscienza. Definirlo
Palazzo di stucchi Giovinezza e Bellezza come vogliono
I complessi turistici. Scriverlo
Denunciare il bluff Affinché nasca
Da tanti topi in fuga un uomo
Rischiare la poesia e la morte.
Reclus, domenica 6 agosto 1972
1Un testo di Sénac del 1963 si intitolava “Cittadini di bellezza”: questo “Cittadini di bruttezza” ne è una chiara abiura, quasi pasoliniana (l’ “Abiura della Trilogia della vita” è del 15 giugno 1975-, alle prese con delusioni e violenze analoghe, ma non identiche – e una morte violenta che li unisce, vittime di crimini mai del tutto chiariti). In “Cittadini di bellezza” si trovano passaggi che gli verranno poi rimproverati (“…Tu sei forte come un comitato di gestione. Come una cooperativa agricola…”), che però sono frutto del desiderio di spendersi per il suo popolo, per la sua Algeria, e dell’entusiasmo per la Rivoluzione in atto, come – in altro contesto – alcuni testi simili di Majakovskij.
SU TIGZIRT OPPURE…?
Bachir, a piacergli è anche il mare.
Non ci sono rovine se non autorizzate. A piacergli
Sono le girelle, le alghe
– “L’insalata” dice Fifi. Quattordici
Ore sulla terrazza. La vita è abbagliamento.
Il mare tra le nostre ossa mormora. Io
Comincio ogni secondo. Io
Rianimo la leggenda. Insieme
Noi inventiamo. Noi
Siamo i cittadini delle rivoluzioni agrarie. Il
Corpo frusciante di piacere. Il poema
Abbagliato dalle storie future. Quale
Scegliere? Tutte. E Bachir
Beve il suo rosé come il mare beve noi.
Tutto è grazia, dicevano. Tutto
È coscienza del mondo. Tutto è
Grazia del corpo nella libertà del
Sole. Nathalie, noi
Ti abbracciamo. L’uomo del caucciù canta
Noi
È grazia.
Sulla tua pelle, questa pagina
Sia come il mare!
Tigzirt, lunedì 20 agosto 1973,
Sul terrazzo della spiaggia, alle 14.30
P.S. Penso: Sottolineare con un oleandro
Bachir d’un tratto mi dice: hai dimenticato l’oleandro
Un segno. Tutto è grazia e coscienza dell’amore
Noi t’amiamo.
1 Forse questa è l’ultima poesia di Jean Sénac, scritta il 20 agosto del 1973. Egli sarà ucciso nella notte tra il 29 e il 30 agosto dello stesso anno. L’originale appartiene a Nathalie Garrigue-Jossé, citata nel testo. Tigzirt è una località balneare a 260 km a est di Algeri. Era la romana Iomnium.
Le “girelle” del 3° verso sono dei pesciolini dai colori vivi e brillanti, molto comuni nel Mediterraneo; vengono chiamati anche “donzelle”.
“Tutto è grazia” è citazione da Thérèse de Lisieux (e Bernanos); frase in qualche modo modificata, ma non negata, dal “Tutto / È coscienza del mondo” e “Tutto è / Grazia del corpo” fino al post scriptum in cui “Tutto è grazia e coscienza dell’amore” che fonde le precedenti immagini.
* Foto di Senac di Denis-Martinez
* Questo articolo sarà pubblicato in O-44 (numero di gennaio 2025), quadrimestrale dell’ANPI (TS).
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