In questo momento così difficile di isolamento necessario e forzato, di perdita di identità di gruppo, proviamo almeno virtualmente a mantenere insieme la nostra piccola comunità offrendo contenuti nuovi e significativi dal nostro grande archivio. Tutta la “famiglia” di Casa della poesia (poeti, operatori culturali, amici, lettori, appassionati e la redazione di Potlatch) si stringe in un abbraccio virtuale che trova nella poesia una forma di resistenza, di riflessione, di consolazione, d’amore, di aiuto, di lotta e di speranza. Dall’eremo di Casa della poesia, in questa rubrica “la poesia che ci salva”, pubblichiamo “Penultime parole a Luis Sepúlveda / Penúltimas palabras a Luis Sepúlveda” di Eloy Santos, dedicata a Luis e a Carmen, a un mese di distanza dall’addio al grande scrittore cileno. La poesia scritta e letta per l’occasione è tradotta dal poeta Giancarlo Sissa. Augurandoci di venir fuori presto da questo incubo, invitiamo come farebbe Izet Sarajlić a stare insieme, uniti e a passeggiare almeno in una poesia. Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
Eloy Santos
PENULTIME PAROLE A LUIS SEPÚLVEDA
a Carmen e Lucho, a tutti e due, sempre
Di tutti i paesaggi che formano
la vita di un uomo
uno ne basterebbe come bussola
all’ora di proseguire il viaggio attraverso
giorni, città e stelle:
il viso di coloro che amiamo.
Senza quella mappa non sapremmo riconoscere il mondo,
non vedremmo più
ciò che abbiamo davanti,
sia un lampione, un quartetto d’archi o un tovagliolo.
Si smarriscono i nomi e,
a tentoni, dietro i nomi,
finiamo per smarrirci anche noi.
Da lì lo stupore iniziale,
l’inaccettabile disordine
di sapere che eri grave,
che incomprensibilmente ti eri
inoltrato in un deserto
di febbre e assenza
con i suoi quaranta giorni sulle spine
e noi da lontano, alla cieca,
inciampando sul filo dei cellulari
e di quelle conversazioni in cui uno vorrebbe
saper dire di più di quello che dice e sa.
Quaranta giorni a scazzottarti
con uno sciame invisibile di aghi.
Se tu avessi avuto un’opportunità,
una sola,
di mirare al mento con il pugno
l’avresti steso con un solo colpo.
A quest’ora ce l’avresti raccontato
tu meglio di chiunque altro,
ed io, ignaro e distratto dentro un giorno qualsiasi,
non starei a scrivere nulla.
Di una cosa sono sicuro,
e con me tutti quelli che ti conoscono:
neanche una volta
durante i lenti lunghi giorni in un letto d’ospedale
avrai girato le spalle
alla bufera che cominciava a disfarti.
Non è retorica di circostanza.
Quando hanno visto che non ti sarebbe stato facile tornare,
i dottori dicevano a Carmen:
“C’è speranza: sogna.”
In quel modo hai issato
al vento della voce che ti auscultava
il motto permanente della tua vita,
quello che avrebbe campeggiato nel tuo scudo d’armi
se mai ne avessi avuto uno.
Si è aperto strada dal tuo cuore in veglia
fino alle bocche che pronunciano diagnosi
come se questa fosse
la cosa più naturale al mondo.
”C’è speranza. Sogna.”
Sognavi là dentro,
sullo sterrato di una trincea che ti eri fabbricato
con la barba e le palpebre e la capigliatura mapuche,
solo in prima linea
nella più impensabile delle tue battaglie.
Così, brandendo il sogno
come una lancia di stracci sulle braccia nude,
insabbiato su un lenzuolo,
ti sono sfuggiti tutti i giorni,
ed è arrivato infine quello
che ti ha reso
il corpo
inabitabile.
Per le vecchie scarpe tue da emigrante
era arrivata l’ora
d’impolverarsi di nuovo.
Il tempo di andarsene,
di mutare residenza al sogno
che da sempre ti abita.
Di riprendere
la bisaccia di potature e cicatrici,
e salire sull’ultimo vagone.
Esci dunque dalla scena.
E proprio ora che te ne vai
(e perché non posso evitarlo)
ti vedo entrare
come se ti avessi davanti,
come se tu fossi qui,
adesso.
D’improvviso sento di nuovo i mantici di gloria
delle cornamuse di Asturias, alla porta.
Ti scortano.
Ti rivedo entrare
nell’atrio dell’Antico Istituto,
uno di quei giorni del Salón,
misurando un passo dopo l’altro,
ritto nel punto esatto della solennità,
lento e feroce come un baleniere d’altri tempi
i cui occhi avessero ingoiato un fanale di notte.
Lasci una stela di bitume,
di tabacco,
di salnitri
nell’aria, la tua mano che affonda
nel pozzo della tasca,
accarezzando il pacchettino di carta cerata
che trovasti da bambino
nel baule di Billy Bones.
Mi ritrovo davanti quella ferocia leggendaria,
la più bizzarra varietà della tenerezza.
Mi ascolto perfino sciogliere con la saliva
un nodo in gola
di fronte all’occhio di condor che scruta
fino all’osso ognuno di noi, ed esige
risposta a una domanda che non fa,
una sorta d’indovinello muto che,
fin dove arrivo a capire,
mormora dentro qualcosa come:
“Ecco, tu, a cosa sai giocare senza mentire?”
Era il tuo modo di distinguere
i tuoi da quelli che no,
da quelli che mai.
Conosci i fondali di molti di noi
meglio di noi stessi.
E anche quello te lo sei portato di là.
E se in quell’impossibile di là che ormai conosci,
dall’altro lato del sipario,
(lo dico giusto per immaginare),
ti sei imbattuto in qualche signore delle soglie,
un guardiano di quelli che sospettava Kafka,
uno, ad esempio, con il viso da pugile o da tartaro
che hanno gli angeli di Piero della Francesca,
che t’impedisse il passaggio
e senza muovere le labbra ti chiedesse:
“Ecco, tu, a cosa sai giocare senza mentire?”,
allora sì, avrai inclinato la faccia dentro il bavero,
ma giusto il tempo di accenderti un avana
e l’intatto sorriso,
prima di alzare la testa e rispondere:
“Ancora non sapete niente, voi.
Ancora
non sapete
niente.”
Traduzione: Giancarlo Sissa
Eloy Santos
PENÚLTIMAS PALABRAS A LUIS SEPÚLVEDA
a Carmen y Lucho, a los dos, siempre
De todos los paisajes que conforman
la vida de un hombre
uno sólo nos bastaría como brújula
a la hora de proseguir el viaje
por días, ciudades y estrellas:
el rostro de los que amamos.
Sin ese mapa no sabríamos reconocer el mundo,
dejaríamos de ver
lo que tenemos delante,
sea una farola, un cuarteto de cuerda o una servilleta.
Se nos pierden los nombres,
y a tientas, detrás de los nombres
nos acabamos perdiendo nosotros.
De ahí el estupor inicial,
el inaceptable desorden
de saber que estabas grave,
que incomprensiblemente te habías
adentrado en un desierto
de fiebre y ausencia
con sus cuarenta días en vilo,
y con nosotros a ciegas, de lejos,
tropezando por el hilo de los celulares
y de esas conversaciones en que uno quisiera
saber decir mucho más de lo que dice y sabe.
Cuarenta días de agarrarte a trompadas
contra un enjambre invisible de agujas.
Si hubieras tenido una oportunidad,
una sola,
de alcanzarle el mentón con el puño
lo habrías tumbado de un golpe.
A estas alturas nos lo habrías contado
tú mejor que nadie,
y yo,
ajeno y distraído dentro de un día cualquiera,
no estaría escribiendo nada.
De una cosa estoy seguro,
y conmigo todos los que te conocen:
en ningún momento
durante los lentos largos días en una cama de hospital
le habrás hurtado la cara
al vendaval que empezaba a deshacerte.
No es retórica de circunstancias.
Cuando vieron que no te iba a ser fácil volver,
los doctores le decían a Carmen:
“Hay esperanza: sueña.”
De tal manera pusiste a ondear,
hasta en el viento de la voz que te auscultaba,
el lema permanente de tu vida,
el que campearía en tu escudo de armas
si alguna vez hubieras tenido uno.
Se abrió camino desde tu corazón en vela
hasta las bocas que pronuncian diagnósticos,
como si fuera esta la cosa
más natural del mundo.
”Hay esperanza. Sueña”
Soñabas allá adentro,
en el suelo de una trinchera que te habías fabricado
con tu barba y tus párpados y tu cabellera mapuche,
solo en la primera línea
de la más impensada de tus batallas.
Así, blandiendo el sueño
como una lanza de harapos en los brazos desnudos,
varado en una sábana,
se te fueron pasando todos los días,
y llegó aquel
en que el cuerpo
se te hizo
inhabitable.
A tus viejos zapatos de emigrante
les había llegado la hora
de ponerse el polvo encima,
otra vez.
El tiempo de irse,
de mudarle residencia al sueño
que desde siempre te habita.
De volver a asir
el zurrón de podas y cicatrices
y saltar al último vagón.
Así que sales de la escena.
Y justo cuando te vas
(y porque no puedo evitarlo),
te veo entrar,
como si te tuviera ahí delante,
como si fuera aquí,
ahora.
Vuelvo de pronto a oír los fuelles de gloria
de los gaiteros de Asturias, a la puerta.
Te escoltan.
Te vuelvo a ver entrando
en el atrio del Antiguo Instituto,
uno de los días aquellos del Salón,
midiendo un paso detrás de otro,
erguido en el punto exacto de la solemnidad,
lento y feroz como un ballenero de tiempos remotos
cuyos ojos se hubieran tragado un fanal anoche.
Vas dejando una estela de alquitrán,
de tabaco,
de salitres
en el aire, llevas una mano hundida
en las profundidades del bolsillo,
acariciando el envoltorio de hule
que de niño encontraste
en el baúl de Billy Bones.
Vuelvo a tener ante mí aquella ferocidad legendaria,
la más bizarra variedad de la ternura.
Hasta me escucho deshacer con la saliva un nudo en la garganta
frente al ojo de cóndor que escruta
el hueso de cada uno, exigiendo
respuesta a una pregunta que no hace,
una especie de acertijo mudo que,
hasta donde alcanzo a entender,
dice dentro algo así como:
“A ver, tú, ¿a qué sabes jugar sin mentir?”
Era tu manera de discriminar
a los tuyos entre los que no,
entre los que nunca.
Conoces el fondo submarino de muchos de nosotros
mejor que nosotros mismos.
Eso también te lo has llevado allá.
Y si en ese imposible allá que ahora conoces,
del otro lado del telón,
(lo digo solo por imaginar)
te has topado con algún señor de los umbrales,
un guardián de aquellos que sospechaba Kafka,
alguien, por ejemplo, con el rostro de púgil o de tártaro
de los ángeles de Piero della Francesca,
que te impidiera el paso
y sin mover los labios te preguntara:
“A ver, tú, ¿a qué sabes jugar sin mentir?”
entonces sí, habrás metido la cara en la solapa,
pero solo el tiempo de alumbrar un habano
y la sonrisa inimitable
antes de levantar la cabeza y responder:
“Aún no sabéis nada.
Aún
no sabéis
nada.”
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