Ridurre conflitti di classe e di genere a conflitti generazionali è stato l’errore di Pasolini. Solo i malvagi al potere sono eterni, dentro il capitale.
“Arriva Hitler, e la Borghesia è felice”, scrive Pasolini in Teorema, libro e film usciti nel 1968, opera anfibia. Non solo la Borghesia è felice: ne è felice anche il Proletariato e persino il Sottoproletariato, tutto insorto accanto ai suoi governanti, quelli che lo calpestano ogni giorno e che però ne ricevono il plauso entusiasta. Nel 1968 Pasolini commise errori-cardine, di quelli che non danno energia ma che generano conformismi e banalizzazioni. Centrale quello della riduzione di un enorme conflitto tra il Potere, nelle sue articolazioni capitalistiche e pseudosocialiste, e individui/popoli stanchi della violenza imperante, a mero conflitto generazionale in cui figli viziati si stavano ribellando semplicemente per prendere il posto dei padri. “…La Borghesia è lucida, e adora la ragione: / eppure, a causa della propria nera coscienza, / manovra per punirsi e per distruggersi: delega / così a deputati alla propria Distruzione, / i suoi figli degeneri, appunto: i quali (…) / obbediscono a quell’oscuro mandato…”, nel brano ‘Sì, certo, cosa fanno i giovani…’. Ogni altro elemento dello scontro viene così eliminato: quello di classe (potente, con operai che premevano sul potere, per conquistarsi spazi di autonomia e di diritti come muri invalicabili), quello di genere (la forza delle donne allora si eresse consapevolmente e non lasciò mai più il centro della piazza), quello ideologico (la lotta contro poteri spaventosi, ieri come oggi – erano gli anni del Vietnam e del napalm statunitense, della Cecoslovacchia di Dubček e dei carri armati sovietici, delle lotte nel Terzo mondo). Tutto viene ridotto a una semplice sostituzione: da un padre che divora i suoi figli, a questi che divorano il padre, che lo uccidono (Edipo) oppure che lo sostengono nella lotta finale, sicuri di poterne prendere il posto (Telemaco, nome che può significare anche ‘battaglia, lotta finale, conclusiva’). Questa lotta di padri contro figli, e dei primi che quasi pregano di essere spazzati via dai secondi, viene poi complessificata da Pasolini da una spruzzata classista nel testo assai conosciuto “Il PCI ai giovani!! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una ‘Apologia’)” pubblicato in Nuovi argomenti dell’aprile-giugno 1968: testo sempre letto mozzo, per la pigrizia stolta dell’intellettualità italiana che ne ha estratto una parte, un gruzzolo di versi, e ignorarne il resto. Famosi, e con ottusità citati a destra e a manca, i versi “…Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti! / Perché i poliziotti sono figli di poveri…”: sempre ‘figli’, intendiamoci, ma ‘di poveri’, stavolta. L’insipienza politica di questi versi è chiara, oltre alla svalutazione di quei fatti (‘fare a botte’ sembra una questioncina di bande rivali): perché non giustificare in questo modo ogni repressione attuata dato che ad effettuarla sono ‘figli di poveri’? Figli di poveri le squadracce di Pinochet e gli zomo polacchi (gli occhiali scuri di Pinochet e di Jaruzelski erano occhiali a nascondere la stessa infamia), la polizia di Scelba e quella sandinista (che nei mesi appena passati ha causato più di duecento morti nel Nicaragua di Ortega, ometto corrotto che ha trascinato nel fango la rivoluzione del 1979), quella che doma i migranti aggrappati agli scogli di Ventimiglia o che uccide nelle carceri giovani che dovrebbero essere custoditi, e cioè protetti dall’istituzione (in Italia troppi casi di violenza sistematica e impunita); insomma, tutte le polizie del mondo, mal pagate ma non per questo giustificate nella loro violenza strutturale, manovrata, usata dal potere. Tutti figli di poveri o, in versione altra, del popolo: così gli sgherri turchi che hanno arrestato migliaia di oppositori nella Turchia re-islamizzata e iperliberista di Erdogan. Non si può stare dalla parte di nessuno di costoro.
FIGLI DEL POPOLO
Nei canti socialisti e anarchici gli unici figli che si conoscevano erano i figli dell’officina, forgiati dalla fabbrica o dalla terra, con coscienza di classe –reale o immaginaria-, come nel celebre canto omonimo. Invece i ‘figli’ di Pasolini sono presi in una delle tante infanzie di un capo di sartriana memoria1: rompere tutto, tutto provare, per finire nell’obbedienza al padre che si pensava di poter contestare e abbattere, come la statua di un eroe o di un dittatore in una delle tante rivoluzioni –reali o immaginarie- di cui siamo stati spettatori negli ultimi decenni. Il massimo della disobbedienza che finisce nel massimo dell’obbedienza: quei giovani che sfilavano per le vie di Parigi con cartelli come mon père est un con (mio padre è un coglione) sono in buona parte rientrati presto nel mondo che credevano di odiare. Molti hanno anche teorizzato questo passaggio, dopo il ’68, in varie forme: il cosiddetto entrismo (entrare nei partiti della sinistra istituzionale per modificarli dall’interno…), praticato soprattutto da gruppi trotzkisti, oppure l’accettazione apparente (pseudomarrana) delle regole del capitale per creare felicità comunitarie servendosi dei meccanismi dell’economia di mercato. Ottime rappresentazioni di questi fenomeni in La piccola apocalisse (1993), film di Costa-Gavras e nel bellissimo Q (1998), romanzo rutilante del collettivo di scrittura Luther Blissett (ora Wu Ming). Ma sempre amaro è il risveglio, dato che dall’interno nessuno cambia niente, e che piuttosto è l’istituzione a intaccare e travolgere ogni pur sincero sforzo: i corpi si adattano a forme nuove, a usi e costumi che attraggono e invischiano, fino alla resa.
Il testo di Pasolini “Il PCI ai giovani!”2 è uno dei primi tentativi di riassorbire/disinnescare il ’68, straordinario perché contemporaneo di quegli eventi, con la forza normalizzante di un istant-book. Ben altre normalizzazioni si sono poi succedute, fino a tutte quelle del cinquantesimo anniversario di cui è paradigmatico un articolo di Bruno Forte, “Lo slancio vitale del maggio”3 che sembrerebbe, sin dal titolo, un’apologia. Ne è invece una critica totale sotto forma di uso stravolto dei termini (forse un esempio di détournement –deviazione dal significato originario di un termine o di un’immagine e loro riuso- situazionista?) e di ribaltamento dei fatti, ispirato all’ideologia più retriva4. Primo détournement: il motivo ispiratore del ’68 sarebbe stata “la contestazione di ogni tipo di autorità, in nome di una totale liberalizzazione [la sottolineatura è nostra, qui e più sotto] dei costumi e contro le logiche dominanti della tradizione…”. Ora la differenza tra ‘liberalizzazione’ e ‘liberazione’ è chiara a tutti e, pensiamo, anche all’autore: con ‘liberalizzazione’ si intende ‘adeguamento ai princìpi economici del liberismo’ e solo in seconda istanza ‘eliminazione di vincoli posti in precedenza’. Il significato oggi predominante è il primo: così si parla di ‘liberalizzazione degli scambi, dei prezzi, etc.’ In questo senso, Forte propone un’interpretazione a suo modo limpida del ’68: non liberazione (dei corpi così come dei popoli) ma una loro liberalizzazione, cioè definitiva apparizione sui banchi del mercato-mondo; interpretazione che è diffusissima, ormai, e che fa di quell’evento capitale del Novecento la premessa dell’attuale trionfo del liberismo. Secondo détournement, stavolta non originale ma proprio del linguaggio quotidiano e anche accademico: “…C’è chi risponde tracciando [del ‘68] un bilancio solo negativo, perché vede in quella stagione l’inizio del processo che avrebbe fatto degenerare il valore della libertà in anarchia…”. L’uso banalizzante del termine ‘anarchia’, appartenente alla scienza politica, sia pure attribuito ad altri, è sintomo di un pensiero profondo e superficiale al tempo stesso: l’unica libertà è quella ‘nostra’, quella delle liberaldemocrazie occidentali che gli studenti e gli operai del ‘68 avrebbero rafforzato, pur cedendo a tratti all’orrore ‘anarchico’, dei senza governo/senza stato/senza potere (il terrorismo degli anni seguenti). Noi liberisti odiamo lo stato (“lo stato non è la soluzione dei problemi, lo stato è il problema”, disse Reagan), ma ce ne serviamo quando ci serve, e soprattutto mai ci confonderemo con chi proclama/reclama una libertà totale, radicale: libertà dallo stato e in favore di libere comunità. Dell’anarchia viene sempre e solo conservato il significato affine a quello di caos/disordine, e non a quello di costruzione di un ordine nuovo senza il potere. In tutti e due questi détournement lo scandalo ruota attorno alla parola ‘libertà’ di cui, con Canfora (sulla scorta di Antonino Pagliaro), ricordiamo la pesante etimologia: “…i termini indicanti il ‘libero’ in greco e in latino, risalgono ad una identica base indoeuropea leudho, notava Pagliaro, che significa ‘stirpe’. Del resto i liberi sono, in latino, i ‘nati nella stirpe’, cioè i ‘figli di pieno diritto’…”5
LIBERTÀ E CARITÀ
Sono questi ‘figli di pieno diritto’ i protagonisti reali di ogni infanzia di un capo, pronti più per motivi di classe che generazionali a soppiantare il padre, prolungandone la dinastia nel corso di decenni o di secoli fino all’estinzione per il prevalere di altri interessi e di altre forze giunte a maturazione. Quando usiamo il termine libertà, soprattutto se non corretto dall’uguaglianza, dobbiamo sapere di cosa stiamo parlando: del ricco inganno di parole che non liberano, ma che perpetuano poteri e saperi (oggi sono partiti della libertà i raggruppamenti più reazionari, in ogni parte del mondo). Ma nell’articolo di Forte c’è un terzo détournement che prosegue e rafforza queste bagarre di significati, quello che definisce il cristianesimo una “religione della libertà”: ora quanto tutto ciò manchi della minima prospettiva storica dovrebbe essere chiaro. Il cristianesimo, nelle sue varie forme, è stato storicamente una delle gabbie in cui incanalare le forze (anche le più generose) che albergano nel cuore e nelle membra degli esseri umani per metterle al servizio di una gerarchia nei secoli poderosa e misteriosa. Essa, lungi dall’esserne paladina, ha combattuto contro la libertà e tutte le libertà svegliatesi per l’impulso dei popoli, del cozzo delle forze economiche e del pensiero, le ha combattute accanitamente e poi, quando erano diventate insopprimibili, le ha assunte e sussunte, facendosene garante e alfiere: dopo secoli di repressioni e di infamie la libertà indicata appena ieri come diabolica, poteva diventare verità assoluta e incarnata nel/dal corpo ecclesiastico6. Ora per Forte questa chiesa, e la chiesa di papa Bergoglio in particolare (ultimo e definitivo détournement), “recepisce tante delle istanze del ’68 (…). Si potrebbe forse parlare di un nuovo ’68, all’insegna del Vangelo e del primato della carità.” Forte è uno dei tanti innamorati di papa Bergoglio, pontefice progressista, aperto, simpatico, rivoluzionario senza rivoluzione (cioè senza quel reale rovesciamento che ogni rivoluzione porta con sé), tanto da essere celebrato in prima pagina da Il Manifesto, quotidiano comunista. Ma quando porta degli attacchi taglienti (da capo di stato straniero…) a leggi italiane o a determinati modi di pensare, finisce a pagina 5 dello stesso giornale, in basso a destra
7. Un intero numero della rivista Micromega è stato meritoriamente dedicato a questa fase della chiesa cattolica: “Potere Vaticano. La finta rivoluzione di papa Bergoglio” 8. Agghiacciante. Agghiacciante l’articolo d’apertura di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 e mai più ritrovata. Scrive Orlandi: “…In sostanza so chi ha rapito Emanuela: è un sistema che lega Stato, Chiesa e criminalità e che ormai da 35 anni impedisce alla verità di emergere…” (pag. 18). In un (peraltro mediocre) film di Roberto Faenza, “La verità sta in cielo” (2017) si vedono immagini di repertorio in cui papa Bergoglio incontra Pietro Orlandi e gli dice “Emanuela sta in cielo”. Come si è permesso? Se sa qualcosa, parli, altrimenti taccia, e il silenzio sarà più nobile di un’omertosa verità appena mormorata da chi è considerato una delle più alte autorità spirituali del momento, in uno stile rivoltante. Agghiacciante. Come agghiacciante è l’articolo “Pedofilia: un’offesa a Dio o un crimine?”, di Federico Tulli: secondo alcuni il silenzio della chiesa cattolica sulla pedofilia (che vuol dire corpi di bimbi straziati, a migliaia, in uno scellerato e impunito crimine di massa) è puro e semplice negazionismo, tra i peggiori, tra i più squallidi. E la misoginia, gli affari dentro il sistema di mammona (altro che anticapitalismo del papa!), la pedopornografia, etc. Questo sarebbe il trionfo della carità, della chiesa degli ultimi, della chiesa dei poveri, vera erede del ’68? Dove sono Tesesa de Jésus e Juan de la Cruz con il loro grido di autonomia, di una chiesa interiore, di un colloquio diretto –per chi crede- con Dio, senza la furia dei buoni sentimenti, ma lottando, lottando, lottando? Dove sono Giovanni Franzoni e Adriana Zarri, e dove don Giovanni Olivieri, l’amatissimo Giovanni da Rieti? Tutto l’oblio di questo mondo è su di loro.
I VECCHI E I GIOVANI
Il conflitto generazionale intuito da Pasolini in Teorema ha portato alla miseria attuale ed è stato tradotto in ulteriori nodi, uno, in particolare: quello della non trasmissibilità dei saperi da una generazione all’altra, o meglio della non trasmissibilità di certi saperi, quelli delle classi oppresse. Pasolini, in realtà, si era posto con acutezza il problema pedagogico: esemplare è il suo rapporto con Ninetto Davoli (struggente il modo in cui il poeta spiegava gli affreschi di Piero della Francesca a Ninetto, allora militare ad Arezzo); straordinario il testo “Gennariello”, ora in Lettere luterane9: “Poiché tu sei il destinatario di questo mio trattatello pedagogico (…) è bene, prima di tutto, che io ti descriva come ti immagino. È molto importante, perché è sempre necessario che si parli e si agisca in concreto…”, e poi, più oltre: “Potrei dirti tante cose che è necessario che tu, Gennariello, sappia del tuo pedagogo…”. Definire non può essere separato dal definirsi: chi offre deve avere una consistenza, un corpo, una storia da offrire, così come chi riceve (troppi pedagoghi, invece, si offrono disincarnati e puri spiriti, vuoti rappresentanti di vuotissime istituzioni). Stabilito il rapporto pedagogico nella chiarezza dei ruoli, esso può cominciare ad articolarsi e a modificare entrambi. Ma oggi, questo non è più: l’acquisizione di competenze, nella scuola pubblica italiana (in tv/in rete), l’alternanza scuola-lavoro e il prevalere di spettrali –alla lettera- strutture di valutazione e di controllo (i test Invalsi, il registro elettronico) rendono superfluo il lavoro d’aula e il rapporto docente-discente, rispetto al quale ogni rigurgito d’esperto viene ritenuto infinitamente più valido. Tutta la formazione delle nuove generazioni si svolge ormai nella consapevolezza che uno è l’obiettivo da raggiungere: la frattura tra uno ieri passatista e paludoso, e un oggi scintillante, futurista, spettacolare; svolta preparata da decenni di lavorìo ai fianchi di un popolo strappato alla sua complessa natura costruita in secoli di mescolanze e di continuità. L’Elogio del tempo nuovo di Alberto Abruzzese è del 1994: non commenta un esito ma traccia una via. Nuovi sono stati tutti i politicanti da quell’anno in poi, destra e sinistra alleate nella rottamazione di ciò che era ancora solido eppure giustamente dubbioso di sé. Spietata la caccia ai conservatori, ai reazionari, ai laudatores temporis acti, caccia che si è conclusa in questi ultimi mesi, in Italia, con il trionfo dei cacciatori su prede smarrite, intontite, con prede-topo tra le zampe di un gatto che le lascia sopravvivere tramortite per giocare ancora un po’. Ma quello tra vecchi e giovani non è che uno dei falsi dualismi di cui è piena l’Italia. Quanto fosse decrepito quel tempo nuovo, e trogloditici gli esiti attuali, ormai lo sappiamo tutte e tutti: la splendida seconda parte di “Loro” (2018), film di Paolo Sorrentino, questo ci dice; è l’alito stantìo del Cavaliere che si mescola a quello dei suoi oppositori a creare il tanfo attuale. Però solo una ragazza, tra le tante invitate a una delle tante cene in villa, riesce a dirlo: “il suo fiato somiglia a quello di mio nonno”. Ma il nonno-caimano, contrariamente a quello che avrebbe fatto un qualunque anziano, non si offende: “io non mi offendo mai”, dice, ed è vero, ed è questa una delle chiavi dell’attuale trionfo del berlusconismo senza Berlusconi, la ‘capacità di non offendersi’, di non prendersela, perché il potere è in una fase di attacco frontale e spinge le sue forze ben dentro il campo nemico. È pura offesa che non può offendersi, pena un ritardo nella presa del potere. Così non contano nulla la peggiore delle accuse, né la testimonianza che inchioda e nemmeno il verdetto di terzo grado che rende definitiva una condanna. Il tempo nuovo, così, non può che trionfare, senza fare prigionieri. Cinquant’anni dopo il ’68 sono quei giovani, ora diventati vecchi maleodoranti, a perpetuare il potere di una classe eterna, di una granitica “comunella dei malvagi” (Michelstaedter): vecchi rinvigoriti in ciò che torna continuamente. Ecco perché la dialettica tra vecchi e giovani non ha senso: si tratta delle stesse identiche persone, alla guida delle macchine del capitale e dei suoi finti nemici.
Gianluca Paciucci
Foto di Gianluca Paciucci
1 Jean-Paul Sartre, “L’infanzia di un capo” nella raccolta di racconti Il muro (1939).
2 ma ricordiamo che il testo va letto per intero, e non come fa chi non ha tempo e voglia di leggerlo tutto. Si scoprirebbero versi forti, ben altrimenti taglienti: “…Spero che l’abbiate capito / che fare del puritanesimo / è un modo per impedirsi / un’azione rivoluzionaria vera. / Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire federazioni! / Andate e invadere Cellule! / Andate ad occupare gli uffici / del Comitato Centrale…”. Pur sempre rivolgendosi ai ‘figli’, e quindi persistendo nell’errore di lettura di tipo generazionale e monosessuato, Pasolini incitava a una presa del potere dentro quel mondo –quello dei partiti comunisti dell’epoca- che era l’unico, a suo parere, capace ancora di presentare reali alternative: non un entrismo ma un reale e letterale ribaltamento, dei tavoli, delle scrivanie, degli scaffali. Come quegli studenti rivoluzionari jugoslavi che dicevano contro il comunismo, per il comunismo, srotolando bandiere rosse sotto lo sguardo teppistico della polizia di Tito. Importante il libro di Guido Crainz Il Sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, Roma, Donzelli, 2018, pp. 196, con saggi di Kolář, Goldkorn, Janigro, Bravo.
3 uscito sul Sole 24 ore del 24.06 2018, giornale della Confindustria, organo della Borghesia (riprendiamo la maiuscola di Pasolini) attenta ai conti e alla spesa pubblica. Quanto siano attenti al risparmio questo giornale e la sua casa madre lo si può capire dal caso del suo ex direttore, Roberto Napoletano, sotto processo per false comunicazioni sociali e appropriazione indebita di 3 milioni di euro, e dalle note riportate nel sito http://www.gruppo24ore.ilsole24ore.com/media/3136/qa-mincuzzi.pdf Istruttivo, distruttivo: i moralisti della lotta di classe contro i poveri…
4 ovviamente l’ideologia, come il populismo, è sempre quello degli altri. In prima pagina dello stesso numero del Sole 24 ore sopra citato, un articolo dal titolo “L’Italia in Europa. La scelta tra ideologia e interesse nazionale” di Sergio Fabbrini: da tradurre come ‘la scelta è tra chi persegue i suoi fini ideologici (parziali e disonesti) e noi (che perseguiamo l’interesse nazionale)’. I primi sono, neanche troppo in fondo, dei traditori: i cosiddetti populisti ora al governo in Italia (in realtà i migliori alleati del liberismo), ma lo sarebbero stati anche governi di altro tipo (chavisti, anticapitalisti, etc.); invece noi del potere confindustriale difendiamo gli interessi di tutti. Con ricchi dividendi per pochissimi –ma questo non lo diciamo-. Fino a quando riuscirà questo gioco da truffatori di piazza?
5 pag. 39 in Manifesto della libertà, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 78.
6 sulle ambiguità di una chiesa –in questo caso cattolica- sempre infallibile e sempre peccatrice (ma le due cose evidentemente si escludono) rimandiamo a uno straordinario libro di Stefano Levi Della Torre, Errare e perseverare. Ambiguità di un Giubileo, Roma, Donzelli, 2000, pp. 151.
7 Luca Kocci, “Il papa pro life sembra il neo ministro: ‘Aborti selettivi, nazisti con i guanti’”, Il Manifesto, 17 giugno 2018. Quello di un papa progressista –ammesso che il progressismo sia un valore- è un altro gioco delle tre carte: fino a quando?
8 Micromega, “Potere Vaticano. La finta rivoluzione di papa Bergoglio”, 4/2018.
9 Torino, Einaudi, 1976.
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