Dall’hotel, nuovo, si vedeva la città, il suo fiume, le montagne circostanti. Restavo dietro il lungo e vasto vetro della camera, non potevo lasciare quel che si offriva allo sguardo e che era così bello. La notte arrivava, con lei le luci lungo l’acqua, sui vicini pendii della montagna, nei fabbricati e per le strade. Il fiume in linea retta davanti a me come se venisse dai piedi della collina dove si ergeva l’hotel e avanzasse verso l’orizzonte, il mio orizzonte, ed i quartieri della città lungo la riva destra, tutto questo nella notte e le luci, proprio quello che ci mancava, mi dicevo, niente di chiassoso, luci quasi naturali per illuminare i riflessi di velluto nero del fiume – a dire il vero faceva pensare alla parola ruscello questo fiume, un ruscello dalle dimensioni di un fiume – e le strade della città – strade e città non sembravano andare più bene per nominare quel che riposava lungo il fiume, una città che sembrava cogliersi tutta con lo sguardo attraverso il vetro sovrastante, installato presso il fiume, quartiere dopo quartiere, poco estesa in borgate periferiche sui fianchi delle montagne. Mi sentivo molto emozionata davanti alla bellezza di una città in cui niente sembrava superfluo.
Solo dopo un certo tempo lo sguardo era attirato in basso sulla destra, appena all’ingresso della città, presso il primo ponte, da un fabbricato più vasto, più misteriosamente illuminato, che immaginavo molto bello ma come di una bellezza interiore – questo perché senza dubbio non l’avevo distaccato dal resto della visione, benché qualche cosa in esso facesse segno allo sguardo sensibile al quale, impercettibilmente, mi iniziava la visione dal vetro.
Mi addormentavo nella grande camera nuova, mi sentivo felice, ma non si sarebbe potuto, non del tutto, dire la parola felici per far sapere ciò che provavo. Non sapevo, ma ero calma, pensavo addormentandomi a ciò che vegliava dietro il vetro. Che avrebbe potuto essere un sogno. Faceva male allo stesso tempo chiudere gli occhi, un po’ come quando si dorme all’aperto, d’estate, sulla terra, e non ci si può risolvere ad abbassare le palpebre sullo splendore stellare. No, non mi sentivo felice, non sapevo quel che sentivo, qualche cosa di simile alla dolcezza, ma una dolcezza del dopo. Fugacemente, nel momento in cui malgrado tutto lo spirito ed il corpo si assorbivano nel sonno, mi domandavo se avessi il diritto di vedere quel che era offerto nel vasto vetro.
Di giorno, il fianco avanzato della vicina collina era disseminato di stele bianche. Il cimitero aveva l’aria d’essere nuovo perché il bianco sembrava appena fatto. Dietro, i pendii delle montagne erano coperti del fogliame luminoso dell’autunno. Il fiume, la città, tutto viveva nella profonda e morbida luce d’oro dell’autunno.
Ero sorpresa, uscendo dall’hotel, dal fatto che qualche minuto di cammino soltanto mi conducesse alla città – era sufficiente discendere il fianco da cui la sovrastavo.
Mi avvicinavo all’acqua del fiume, mi arrestavo alla terrazza in legno di un gran caffè deserto, non ero ancora al livello dell’acqua, la vedevo fluttuare dolcemente al di sotto, bevevo un caffè, ero sospesa, sospesa nella pace. Forse la pace prendeva una consistenza là, in questo insieme formato dalle montagne di vegetazione luminosa, dal fiume che seguiva il suo cammino verso l’orizzonte e dai quartieri della città che vivono lungo di esso. Non avrei tuttavia per nulla al mondo osato pensare alla parola pace. D’altronde non pensavo niente, ero sospesa.
Arrivata alle sponde del fiume, lo spazio della città si apriva, seguivo il viale parallelo al cammino dell’acqua ed è allora che mi ritrovavo davanti all’alto fabbricato singolarmente illuminato la sera precedente; al posto delle porte d’entrata, dei pannelli di metallo erano serrati, pensavo che fosse impossibile penetrarvi e proprio in quell’istante un ragazzo e una ragazza, portando un’attrezzatura, forse una cinepresa, schiudevano una porta nel metallo e, rapidamente, senza riflettere, mi infilavo dietro di loro.
Mi ritrovavo con l’anima prostrata – nell’aria scura, ancora spessa, davanti e allo stesso tempo al centro di alte mura, pilastri anneriti, che delimitavano il vasto spazio circolare che si apriva sulle sue stanze laterali, alle quali, per accedere, lo si sapeva a causa di un’alta scala provvisoria di legno bianco e povero, c’erano state, tutto intorno, delle alte scale di pietra che raggiungevano le lunghe scaffalature di legno lucente, guardavo i cumuli di macerie, levavo gli occhi verso la cupola di plastica trasparente, verso il buco del cielo. Si vedeva immediatamente il disastro nel ventre del quale ero appena penetrata, e questo ventre squarciato, annerito e potente come una cattedrale, no, come la sua cripta risorta verso il cielo, accoglieva senza disprezzo la nostra ignoranza, apriva alla conoscenza del peggio.
Il ragazzo e la ragazza, silenziosi, installavano la loro attrezzatura. Percorrevo lo spazio, tacevo, qualche cosa tremava, comprendevo bene come, lanciate dalle vicine montagne, le bombe, fracassando la cupola, avevano, senza distruggere le mura, senza radere al suolo l’edificio poiché si trattava di annientare lo spazio più intimo della città, il meno armato e il più invisibile, come le bombe avevano incendiato i milioni di libri che vivevano là da secoli – non attraverso una eviscerazione sanguinosa ma attraverso una distruzione dell’intimità all’interno delle sue pareti di pietra.
Senza sapere che così si scolpiva la grotta – sacra: non c’era che quella parola che veniva (si è così poveri in lingua divina) con la prostrazione dell’anima. La grotta annerita e luminosa dell’Intimo, non l’intimo familiare rinchiuso in ciascuno, quello, lo straniero, il pozzo straniero che, esso, ci conosce. Non ci riunisce – della distruzione sussistevano i cumuli di macerie – ma ci intima quando, come qui tra le alte mura annerite, compare per effetto di bombe precise e ignoranti del loro ultimo intento.
(Questo sarebbe un intimo comune, comune alla specie, non lo so, un intimo che non conosce né l’io né il noi, più neutro e più reale di qualunque pronome, di cui i libri sarebbero un segno, un segnale come il lampeggiamento che rende visibile ai nostri occhi le stelle fuori della portata del nostro tempo e dei nostri spazi. Non lo sapevo.)
È dopo che lo pensavo, e che lo dimenticavo, camminando nelle strade del quartiere delle moschee dove tutto, di nuovo, era così semplice e bello, i visi dolci, la luce tenera, i visi regolari delle donne, dei visi che un momento pensavo tristi, ma no, visi soltanto senza ornamenti nella giornata luminosa. Stavo di nuovo irresistibilmente bene, felice di camminare, di andare incontro ai cortili delle moschee disseminati di alberi, ai caffè dai balconi sospesi sui loro cortili interni, di camminare con gli abitanti della città, i suoi bambini, numerosi, li guardavo, non avevano vissuto più di dieci anni, guardavo la loro verità di viventi nati dopo la guerra.
Li guardavo con attenzione.
Poi arrivavo davanti a degli immobili rosa e verdi, una cattedrale, una piazza dove le terrazze dei caffè, nella luce del pomeriggio, erano affollate. Mi ero abituata ai visi senza ornamenti, non lo trovavo più triste, al contrario ero colpita dalla vivacità. Mi stupivo di avere senza transizione né rottura cambiato colore, architettura, spazi, come se fossi in altri tempi e altri luoghi della storia, e sempre tuttavia mi sapevo unita alla stessa città distesa, quartiere dopo quartiere, tempo dopo tempo, sul bordo del fiume.
L’enigma brillava dolcemente, dall’altro lato, immaginavo le ombre bianche delle stele funerarie sulla collina più vicina, finivo per chiudere gli occhi sul fiume, sui suoi ponti leggeri, sulle luci tenere dei fabbricati e il piumaggio di velluto nero dell’acqua.
Il giorno successivo facevo visita al centro culturale André Malraux. Cioè: salivo la stretta scala di un fabbricato in una lunga strada viva – non lontano da un giardino municipale attraversato dai passanti, disseminato di alberi e di tombe – , entravo in una stanza alquanto stretta in cui c’era dietro una scrivania in disordine un uomo al lavoro, assorto, disturbato, così scostante che immaginavo di ridiscendere senza attendere, con un po’ di vergogna, la piccola scala di quello che non rassomigliava a nessun Centro Culturale, e per nulla al vasto André Malraux. Ma nel disordine della scrivania si distingueva di colpo la cassetta video di un film. “Esiste in cassetta?” domandavo. “No, è la sola – noi l’abbiamo co-prodotta”. Restavo là, in piedi, incerta. Quello alzava la testa per la prima volta: “Volete vederla?” Mi domandavo come sarebbe stato possibile prima di lasciare la città. “Ora?” L’uomo si alzava, apriva una porta, si entrava in una seconda stanza, infilava la cassetta nell’alloggio di un videoregistratore, mostrava una sedia, “arrivederci”, e richiudeva la porta.
Seduta, immobile sulla sedia, qualche cosa iniziava: il film che Jean-Luc Godard aveva girato nella città, e nell’altra città dove era stato distrutto il ponte antico quanto i libri delle Biblioteca. (I libri e i ponti: quello che la guerra deve distruggere). Iniziava il film, in cui si vedeva quel che mi attendeva, fuori, di nuovo lo spazio intimo annerito della Biblioteca bombardata, ci stava un uomo dietro una piccola tavola in prossimità delle macerie, un Indiano d’America veniva a parlarci, alla fine, un ragazzo e una ragazza (pensavo a quelli che avevo visto installare la loro cinepresa), oltrepassati i reticolati di una frontiera rappresentata da un soldato, si ricongiungevano sotto le foglie al bordo dell’acqua, onde venivano a colpire la loro riva, la mia riva, incollata immobile sulla sedia davanti a questo film che non potrò mai raccontare, perché non c’erano storie nel film, era la nostra, nostra musica, sapevo che non si poteva dirne niente, al termine del film, non osavo più uscire dalla stanza, raggiungere colui che mi aveva dato la cassetta, non osavo più perché il montare dei singhiozzi si faceva incontenibile, ne attendevo l’esaurimento, che non arrivava.
Eravamo nati dopo la guerra. Eravamo il bambino dell’al di là del terrore, dell’indigenza, della fame e del freddo, dei resti dei corpi e delle città accatastati. Le cose s’erano trovate così: né il padre, ritornato da cinque anni in campo di prigionia, né la madre che aveva partorito sola il loro primo figlio il giorno in cui l’esercito nemico era entrato nella capitale, né questo ragazzino di cinque anni dal viso pallido scavato, nessuno di loro aveva desiderato di vedere nascere il nuovo bambino. Ma il bambino nuovo, poiché era là, doveva essere quello che non avrebbe visto quel che non bisogna vedere. Che avevano visto. E il bambino nuovo avrà qualcosa di prezioso: sarà un individuo, si distinguerà dal gregge – il gregge degli esodi, dei campi e dei corpi.
E avevano soddisfatto questo dolce obbligo, noi, il bambino nuovo. Non si era mai visto quel che non si doveva vedere. Anche, e soprattutto, il giorno in cui – avevamo quindici anni, era quindici anni dopo la guerra – era stato proiettato davanti a tutti gli alunni in assemblea il film che Alain Resnais aveva girato sui campi di concentramento nazisti. L’avevamo guardato questo film, che attestava la testimonianza dei compagni che erano stati interpellati molto più tardi (“io non avevo potuto mangiare per due giorni”, si ricordava uno), sì l’avevamo guardato come tutti, ma non ci si ricordava di un film in cui non si vedeva che l’esterno delle baracche vuote e qualche recinzione di filo spinato. Non un’anima viva (ancor meno chi muore sotto il peso di altri cadaveri) in questo film senza dubbio assai noioso.
Si poteva credere questo: avevamo guardato senza chiudere gli occhi quel che ci si dava da vedere, e non avevamo visto niente. Bisognava crederlo, tutto lo attestava: le testimonianze, e l’insondabile buco che si sentiva in noi scavato in nero da questa verità.
Né notte né nebbia per il bambino nuovo, del dopo guerra. Notte, nebbia, soltanto per proteggerlo, mani dolci intorno al suo sonno.
Sarebbero occorsi molti anni, molti, per avvicinare il buco scavato in nero, bastone del cieco sul quale si appoggiano certi bambini dell’anteguerra condannati, poiché è impossibile l’oblio, all’ignoranza della guerra.
È dopo che pensavo questo, molto dopo essere ridiscesa dalla stretta stanza del centro André Malraux, dopo aver attraversato la sottile strada viva per raggiungere, di fronte, il mercato aperto dei legumi e della frutta che si percorre, asciugate le lacrime, infilandosi tra i banchi, i loro odori e i loro splendori, fino alla parete, in fondo, in cui si iscriveva un mosaico di nomi di uomini, donne e bambini morti il 5 febbraio 1994 sotto le bombe che avevano scelto là il loro bersaglio. Li leggevo, poi mi avvicinavo ad un bel banco in cui compravo qualche frutto indicato col dito.
L’ultima sera, dall’altro lato del grande vetro, brillava più dolcemente che mai, nella sua dolcezza del dopo, l’enigma così bello che si faticava a chiudere gli occhi.
Ripartendo verso l’aeroporto, con il piccolo macinapepe in ferro dorato comprato al bazar, avevo Sarajevo nel cuore, Sarajevo nostro amore, sapendo di non aver visto niente a Sarajevo, ma sapendolo.
…
Camminando, a passo lento, attraversando un alto colle del Valais, rocce piatte, così vasta spoglia blu, così fini e incisive genziane blu ai piedi, con dei compagni, sparsi, davanti o dietro di sé, ognuno si sentiva come amato dagli altri, nel silenzio e nell’altitudine, in quel momento seppi, benché nata dopo la guerra, che avrei raggiunto il gregge al momento opportuno, che non l’avevo mai lasciato il gregge dei corpi e delle rovine.
Lo seppi, poi lo dimenticai.
Sarajevo, 2006
Traduzione: Giancarlo Cavallo
Christiane Veschambre è nata a Parigi, dove vive, nel 1946. È certamente una delle scrittrici più interessanti della sua generazione, autrice di opere intense di grande qualità. Ha collaborato in numerose riviste e lavorato con pittori (ha partecipato a “Pinocchio nel paese degli artisti”, edizioni Mazzotta, Milano) , e con il compositore Bernard Cavanna. Ha diretto la rivista “Land” e fondato, nel 1995, la rivista di poesia “Petite”. Collabora a numerose riviste di poesia, letteratura, scienze umane, alla rivista CCP del Centre International de Poésie de Marseille, ha pubblicato critiche letterarie e cinematografiche (nelle riviste Europe e Cahiers jungiens de psychanalyse). In Italia è stata tradotta nella rivista di psicologia analitica e nell’Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore).