Nell’aprile del 1998 il Corriere dell’UNESCO presenta come “invitato del mese” Izet Sarajlic, considerato come il più grande poeta bosniaco vivente, le cui due ultime opere (Il libro degli addii, Raccolta di guerra a Sarajevo), scritte a Sarajevo durante la guerra, erano state di recente tradotte e pubblicate in Francia. La lunga ed interessante intervista realizzata da Jasmina Sopova affronta le tematiche più rilevanti dell’esistenza e dell’opera dello scrittore bosniaco: la poesia, l’amore, l’assedio della sua città, il degrado della morale e della politica, la tolleranza religiosa.
Izet Sarajlic (1930-2002) è stato il grande cantore della Sarajevo città dell’incontro e dell’amore e poi il tragico cantore della Sarajevo città martire. Presidente onorario di Casa della poesia, riconosciuto come uno dei più grandi poeti del secondo Novecento, è il poeta slavo più tradotto e pubblicato nel mondo.
La poesia è dalla parte dell’amore
Jasmina Sopova – Dopo cinquanta anni di « vita comune » con la poesia, come la vede oggi ?
Izet Sarajlic: Ho il rammarico di constatare che la poesia sta perdendo il posto che avrebbe dovuto conservare nella vita delle persone. I poeti vi sono in qualche modo, certo. Ma è anche lo spirito della nostra epoca. Quando ero giovane, gli scrittori avevano per nome Neruda, Sartre, Malraux, Camus, Tuwim, Frost, Ungaretti… Vivere in questo mondo non era soltanto un piacere, ma anche una responsabilità: bisognava superarsi. Immaginate, in una rivista, i vostri versi a fianco di quelli di un Neruda! Non si aveva il diritto di essere mediocri. Oggi, le “autorità” letterarie sono tali che non è difficile farsi passare per un poeta. In breve, la “specie poetica” è in via di estinzione. Temo che le persone finiranno per non leggerci più.
Sopova: È pessimista anche per quanto concerne la prosa?
I.S.: Sì, perché ho l’impressione che il romanziere moderno si burli totalmente di questa cosa essenziale che è l’amore. Non mi ricordo più dell’ultima eroina di cui mi sono innamorato. Il tempo di Anna Karenina non tornerà più. I romanzieri creano in una sorta di violenza, guidati dalla volontà di scioccare. C’è nel romanzo contemporaneo, una specie di nonchalance, una sorta di disarticolazione, di cui non riesco ad indovinare l’origine. Può essere il risultato delle civetterie che gli scrittori fanno a quelli che chiamo i “proprietari” delle rubriche culturali e che, ogni cinque anni, ci annunciano una “nuova sensibilità”?
In seguito alla tragedia di Sarajevo, ho avuto l’occasione di fare qualche viaggio per il mondo. Sono rimasto stupefatto nel vedere tanti illustri sconosciuti, pubblicati in così belle edizioni, pavoneggiarsi nelle vetrine delle librerie! Quanto successo, per autori così poco grandi. L’età della grande arte è passata. Si direbbe che abbiamo perduto la gioia di creare.
Sopova: Un poeta russo ha detto che nella sua poesia, perfino la tristezza è gioiosa. Oggi, leggendo le sue recenti poesie di guerra, si direbbe piuttosto il contrario…
I.S.: Il fatto è che tutti i valori sono ormai capovolti. Non solo per me, ma per tutti. Non ci sono più punti di riferimento. Fra poco, l’immoralità prenderà il posto dei valori morali; la menzogna quello della verità. Questo capovolgimento di situazione è avvenuto in un brevissimo lasso di tempo. Se il mondo si fosse evoluto più lentamente in questo senso (che è un non-senso), l’uomo forse avrebbe avuto il tempo di prepararsi psicologicamente. Ma, al ritmo in cui vanno le cose, è smarrito.
Ho l’impressione che da una trentina d’anni, la civilizzazione ha preso una cattiva strada. Come se il manovratore del mondo gli avesse indicato una direzione in cui non vedo alcun avvenire. Questa confusione totale, accettata come uno statuto normale dall’umanità, mi indigna profondamente, mi deprime.
Sopova: La guerra ha trasformato il suo sguardo sul mondo?
I.S.: Per alcune cose, certamente. Ho sempre saputo che l’umanità aveva bisogno di uomini politici responsabili e che questi ultimi si facevano sempre più rari. Non è un caso se questa guerra che ha distrutto la mia ex-patria è sopravvenuta precisamente in un momento della storia in cui non c’erano più uomini capaci di incidere positivamente sul corso politico delle cose, d’introdurre questo povero mondo, così ricco di cose futili e così povero di cose essenziali, nel 21° secolo.
Agli stranieri che venivano a Sarajevo durante la guerra e che mi domandavano il mio parere sull’atteggiamento dell’Occidente verso la Bosnia, ho spesso detto: “Tito era capace di dire no all’onnipotente Stalin. Oggi, nessuno, dagli Stati Uniti a Parigi, passando per Bonn, è capace di dire no ad un bandito locale.”
A quello che già sapevo, la guerra ha aggiunto un nuovo dato: il comportamento delle teste pensanti di questo mondo non è solo irresponsabile, ma immorale. Come lo era, del resto, quello di certi generali sulla piazza, in Bosnia-Erzegovina. Tra di essi, io penso ad uno in particolare, conosciuto per gli stupri di ragazzine mussulmane che gli si sottomettevano nei bordelli. Tutti lo sapevano. Tutti chiudevano gli occhi.
D’altro canto, la guerra mi ha fatto scoprire il senso della solidarietà. Abbiamo ricevuto un grande sostegno, senza il quale non saremmo sopravvissuti, da parte di semplici cittadini, francesi, italiani e svizzeri, soprattutto. C’è stato un tempo in cui credevo che gli Svizzeri fossero persone riservate. Ebbene, questi Svizzeri hanno manifestato nei nostri confronti più tenerezza di chiunque altro.
Sopova: C’era, a Sarajevo, una vita culturale relativamente dinamica durante la guerra: pubblicazioni, musica teatro…
I.S.: L’adagio latino che dice che tutto il resto tace quando parlano le armi è falso. Durante la guerra a Sarajevo sono state create opere di una grande qualità. Sarebbe una buona cosa se le persone all’estero potessero leggere una parte di quel che noi abbiamo scritto. Per comprendere che la guerra civile è una peste, che è contagiosa, che potrebbe manifestarsi altrove nel mondo, in una variante ancora più terribile.
Sopova: In Diario di guerra di Sarajevo, lei scrive: “Se sono sopravvissuto a tutto ciò, è grazie alla poesia e a una decina, o una quindicina di persone, gente ordinaria, santi di Sarajevo che conoscevo appena prima della guerra.”
I.S.: I miei due libri di guerra, li ho scritti in cantina, mentre fischiavano le granate. Non potevo, come Eluard, scrivere la parola “libertà” sui muri di Sarajevo, perché non ce n’era più uno in piedi. Allora, dissi a mia moglie: “Guardami, alla fine del 20° secolo, come John Milton, scrivo un Paradiso perduto alla luce di una candela.”
Ma non scrivevo con l’idea di fare della poesia. Me ne fregavo della poesia. D’altronde, non mi interessa più, da molto tempo. Alla vigilia della guerra, scrivevo già che i peggiori luoghi della poesia erano certamente quelli dove c’era della poesia.
Se ho detto che sono sopravvissuto grazie a lei, è che questi anni di grande disgrazia furono forse i più felici della mia vita di poeta. Ero motivato, avevo i mie lettori, o piuttosto, i miei ascoltatori. Non c’era carta per stampare ed io non ero nell’agenda di alcuni editori che ne disponevano. In ogni modo, poiché essi si erano specializzati in opere pseudo-religiose o di propaganda, non avevo affatto voglia di essere pubblicato da loro. I miei versi pervenivano comunque al pubblico. Ciò mi rendeva profondamente felice. Durante questa guerra, il mio status letterario e morale sembrava avere importanza per i miei concittadini. Mi sono accorto che volevano aiutarmi, in una maniera o nell’altra. Mi cedevano il loro turno quando si andava a prendere dell’acqua – io non ne ho mai approfittato, ovviamente – mi offrivano una mela per mio nipote, una sigaretta per me.
Sopova: In tali condizioni, la poesia diventa un’altra cosa.
I.S.: Quando un uomo ha una giacca da camera, quando mangia se ha fame, quando può uscire sul balcone, mangiare ciliegie o bere il suo caffè mentre fuma la sua sigaretta e non quella che ha mendicato, allora si può occupare di estetica e di estetismi. Ma quando la sventura è tutt’intorno a lui, quando si installa in lui, quando lui stesso si ritrova totalmente isolato e degradato, si domanda: “Ma dove sono le parole semplici, normali? Hanno disertato l’arte?”
Io ho, da molto tempo, nella mia camera, un ritratto di uno dei miei poeti preferiti, Boris Pasternak. Era per me una reliquia. C’è ancora, malgrado i tre milioni di granate che, secondo certe statistiche, ci sono cadute addosso. Un giorno, allorché ebbi la fortuna d’essere nella mia camera e non in cantina, l’ho guardato e, improvvisamente, mi sono detto che anche lui, questo meraviglioso Pasternak, non rappresentava più per me quello che un tempo aveva rappresentato. Tante belle parole, un’armonia così perfetta, e niente sulla mia sofferenza, niente sulla sofferenza dell’uomo.
Sopova: La guerra ha cambiato la sua poesia?
I.S.: Non penso che ci sia una differenza fondamentale tra quel che ho scritto prima e quel che ho scritto durante la guerra. Forse, qui o là, sul piano della forma…Sotto la minaccia delle granate, bisogna terminare al più presto. Stando così le cose, non si presta troppa attenzione alla forma. In ogni modo, quando si ha qualche cosa da dire, la migliore forma si impone da sé. Non sono di quelli che cercano la propria poesia. Non compete al poeta cercare la poesia, ma alla poesia cercare il proprio poeta e trovarlo.
Io non sono cambiato e non ho sentito il bisogno di cambiare. Sono entrato nella poesia dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel 1942, i fascisti italiani hanno fucilato mio fratello maggiore. In tutto ciò che ho fatto poi, ho cercato di non tradire la memoria di questo giovane, di cui io sono adesso maggiore di più di cinquanta anni. È a lui che devo rendere i miei conti.
In questa epoca iper-ideologica che rinnega tutte le ideologie precedenti, non ho altro campo da scegliere che quello che ho scelto alla fine di quella che noi chiamiamo ora “l’altra” guerra, quella del 39-45. In quel momento, noi credevamo tutti alla riabilitazione dell’amore. Noi pensavamo che bisognava scrivere come si pianta una betulla nel parco municipale, come si mette un campanello sulla propria porta. Ci siamo tutti schierati dalla parte dell’amore. E gli siamo restati fedeli, ad eccezione di alcuni che l’hanno tradito nel corso di questa ultima guerra.
Sopova: Crede che un simile idealismo sia ancora possibile oggi?
I.S.: Non lo so. Non posso più riflettere come nella mia giovinezza. Non sono più capace di tanta generosità. I pensieri “universali” sono lontani da me. La soglia della mia casa demarca ormai il mio universo. Io sono preoccupato per la salute di mia moglie, per il lavoro di mia figlia, per l’avvenire di mio nipote. Io sono impaziente di restaurare il mio appartamento, di rimettere a posto la mia camera… Se in tutto questo scrivo ancora una poesia o due, tanto meglio, se no, tanto peggio. Forse ho scritto troppo?
Sopova: In una trasmissione della televisione francese, dedicata a Sarajevo ed alla sua famiglia, si è potuto vedere che una parte del suo appartamento è stata seriamente danneggiata.
I.S.: Un giorno i Cetnici hanno bombardato tre volte di seguito il mio appartamento. Credendo di avermi finito, si sono fermati e sono andati via. Ho avuto un colpo in testa e mi sono accasciato. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in una situazione bizzarra: un quadro era caduto su di me e mi sono risvegliato con la testa nel quadro, come un’opera di Rembrandt!
Sopova: La conosco dalla mia infanzia e mai mi sono interrogata sulla sua religione…
I.S.: Sono mussulmano. E allora? Che cosa cambia? Io non mai vissuto, come tutti i miei compatrioti del resto, in una atmosfera di preminenza religiosa. Sono incapace di vedere le persone come ortodosse, o mussulmane, o non so cos’altro. La religione può avere qualche importanza per alcuni, ma resta un affare personale.
Ero a Strasburgo, non molto tempo fa, e non ho capito perché tutti insistevano sul fatto che io ero mussulmano. Mi hanno spiegato che era importante dirlo. Io, non ci vedevo alcuna importanza. Nello stesso spirito, i giornalisti stranieri che venivano a Sarajevo mi domandavano spesso se tutti questi popoli potessero vivere insieme. Per tutta risposta, presentavo loro la mia famiglia: “Mia moglie è cattolica, la sua famiglia è venuta dall’Austria, e nostra figlia ha sposato un ortodosso. Spero che, fra una quindicina di anni, quando arriverà per lui il tempo dei dolori del giovane Werther, mio nipote Vladimir posi la sua mano su una spalla giudea – così, saremo al completo.”
Sopova: Crede che nello stato attuale delle cose sia possibile un avvenire per la Bosnia?
I.S.: Non lo credo affatto. Come molti tra noi, sostengo gli accordi di Dayton – a torto o a ragione. Ma so che non è quella la soluzione. Gli uomini che decidono della sorte della Bosnia non hanno compreso l’anima del paese, allora possono parlare, con stupefacente facilità, di tali corridoi, di tale repubblica, di tale federazione…
C’è una cosa che l’Occidente non comprende, o non vuole comprendere. In Spagna, noi abbiamo assistito alla prova generale del fascismo d’Occidente, in Bosnia abbiamo assistito a quella del fascismo dell’Europa dell’Est. La prima prova, in Spagna, è disgraziatamente riuscita; la seconda, la nostra, non è riuscita, per fortuna. Ma niente prova che sia fallita. Ora, tutti gli scenari sono possibili.
(Le Courier de l’UNESCO – aprile 1998)
Le foto sono di Mario Boccia
Traduzione di Giancarlo Cavallo
Lascia un commento