Ho avuto la fortuna di accompagnare e presentare Ada Salas in un paio di appuntamenti del breve tour che la poetessa spagnola ha effettuato in Campania nell’estate del 2016, occasione che mi ha consentito di apprendere dalla viva voce dell’autrice alcuni aspetti del suo lavoro, che mi erano ignoti o a cui non avevo dato il giusto rilievo, determinando modifiche ed integrazioni agli appunti che avevo preso in precedenza; propongo dunque l’esito di questo lavoro, poiché credo che il senso di questa rubrica sia anche condividere con il lettore quanto l’occasionale vicinanza a questi “poeti lontani” mi ha donato.
Nomina sunt omina, recita un famoso adagio latino. Ada Salas, doppio palindromo, allitterante, con assonanza delle a nel nome e nel cognome, e consonanza delle s in quest’ultimo: come si può sfuggire ad un simile destino di poeta?
E poeta la Salas lo è di prima grandezza, nonostante la ancor giovane età, basta infatti scorrere la bio-bibliografia per constatare che Ada ha ben sette raccolte di poesia al suo attivo, a cui vanno ad aggiungersi due libri di riflessioni e saggi sulla scrittura poetica “Alguien aquí” [Qualcuno qui, 2005], ed “El margen. El error. La tachadura (de la metáfora y otros asuntos más o menos poéticos)” [Il margine. L’errore. La cancellatura (della metafora ed altri temi più o meno poetici), 2010], e numerosi importanti riconoscimenti (premio “Juan Manuel Rozas” , Premio Ricardo Molina-Ciudad di Cordova, Premio Fernando T. Pérez González, ecc.). Tuttavia troveremo la vera conferma del suo valore nei versi che ci donano l’eco della sua voce originalissima.
Nella prefazione all’antologia di sue liriche recentemente pubblicata in italiano con testo a fronte (Ada Salas “Poesie”, a cura di Raffaella Marzano, Multimedia, Salerno 2015), José Luis Rozas fa riferimento ad alcuni nomi molto significativi: Mallarmé, i nostri Ungaretti, Montale, oltre ai grandissimi spagnoli quali Garcilaso, Gòngora, Quevedo, ecc. fino a giungere a José Angel Valente, che molti critici, soprattutto ai suoi esordi, hanno indicato come il maestro di Ada Salas, collocandola in quella corrente che è stata definita “poesia del silenzio”. Ma, a completare questo vasto panorama letterario di riferimento, troviamo anche, nei testi antologizzati, una citazione di Camillo Sbarbaro (che è tra i preferiti da Ada, al punto che ne sta curando una traduzione in spagnolo), Marina Cvetaieva, a cui è dedicata un’intera poesia, ancora citazioni da Sophia de Melho Breyner, Lope de Vega, Blanca Varela, Luis de Camões. Un pantheon di tutto rispetto, che ci consente una prima sommaria contestualizzazione letteraria della sua opera.
Ma veniamo alla sopra citata antologia, che comprende poesie tratte da cinque dei libri pubblicati tra il 1997 e il 2011 (La sed, Lugar della derrota, Esto no es el silencio, Limbo y otros poemas, Ashes to ashes, con l’aggiunta di sei poesie inedite del 2015), quasi tutte senza titolo, e questo sembra già un primo segnale, quasi come se la poesia dovesse restare tutta racchiusa nel suo guscio, senza eccessive concessioni all’esterno, all’extratesto.
Premetto che considero la statistica una scienza inesatta che affronta, attraverso i numeri, fenomeni all’ingrosso (tutti conosciamo il paradosso del pollo di Trilussa, contenuto nella salace poesia intitolata appunto “La statistica”). La poesia invece è la scienza della precisione, del dettaglio (in cui qualcuno vede Dio, qualche altro il diavolo, forse a seconda delle preferenze). Mi scuso dunque se ho dovuto utilizzare la statistica per avvicinarmi alla poesia di Ada, verificando quelle che vengono denominate “occorrenze”, ossia quante volte una parola ricorre all’interno di un libro, di un testo. Ancor più impreciso il lavoro risulta se si considera che questo libro, come detto, è un’antologia (benché la scelta dei testi, sicuramente, sia stata suggerita proprio dall’autrice o quantomeno concordata con la curatrice). Tuttavia ritengo che l’uso frequente di certe specifiche parole rappresenti, a maggior ragione nel caso di una poesia colta ed elaborata come questa, nella quale ogni singola parola è scelta con estrema cura, questa ricorrenza rappresenti, dicevo, una spia importante, un segnale incontrovertibile, che merita tutta la nostra attenzione.
Ecco che, tra le parole dotate di senso autonomo, incontriamo: 10 volte cuerpo; yo; noche; borrar (ma questo ultimo è un caso particolare in quanto ricorre, se non sbaglio, in un’unica poesia); 9 volte ojos; me; herida; perro; escribir; agua; 8 volte palabras; mundo; tierra; 7 volte amor, e, incredibilmente (per quanto detto in precedenza) “solo” 6 volte silencio insieme a miedo e dolor (e mira, lugar, piedra, sombra, luz, cielo).
Rispetto al cuerpo (corpo), va specificato che viene presentato quasi come una vittima sacrificale, un’eucaristia (“Può darsi che le bestie facciano scempio del tuo corpo” pag. 59; “Mangiatelo come carne/ o come acqua./ Mangiate/ fino a che io sparisca”. pag. 19; “[hanno fatto] Del mio corpo/ il loro pane”, pag. 31 (peraltro ritroviamo questa sorta di invito al cannibalismo in “Parole in un quadro”: “Esporre/ questa carne/ alla fame del vivente.” – pag. 85); “Come si brucia un corpo/ mentre cade”. pag. 21, ecc.), sia che si tratti del corpo dell’autrice, o di quello di un tu suo probabile alter ego. Arriva ad essere sentito come estraneo, altro da sé (“questo corpo che fugge non è il mio”, pag. 33). E ancora la magnifica citazione dalla poetessa peruviana Blanca Varela “Pienso en la flor que se abre en mi cuerpo.” [Penso al fiore che si apre nel mio corpo] in “Chanson du désir” (pag. 92) in cui incontriamo questi magnifici versi:
Ahora desaprendes la trampa
del lenguaje.
Lo que dice
tu cuerpo no tiene
boca.
[Ora disimpari la trappola/ del linguaggio./ Quello che dice/ il tuo corpo non ha/ bocca. p. 94- I numeri di pagina tra parentesi si riferiscono, salvo diversa indicazione alla traduzione italiana di Raffaella Marzano nel citato“Poesie”].
Affermazione contraddittoria, che sembra privilegiare il linguaggio del corpo, tuttavia utilizzando le parole, quindi non sfuggendo alla “trappola del linguaggio”. Sintomo di una scissione in atto o di una dialettica del desiderio di cui corpo e psiche sono attori spesso in conflitto tra loro, più spesso alleati pronti a mettere in crisi l’ordine razionale? (Come sembra confermare la successiva sezione III, che si apre appunto con “Il disordine” e poi, appena qualche verso dopo, prosegue con “Il desiderio è il muto./ Nel muto fermenta ciò che/ massacra un cervello.” – pag. 97)
In un altro caso ancora, il corpo serve a rendere fisicamente ciò che è astratto (il dolore “ha corpo”, pag. 15). Più avanti, tra gli inediti, troviamo questi bei versi: “Ascoltando nell’acqua quel che nel corpo/ è acqua. Partorendosi/ nell’acqua.” (pag. 107). Versi che mi danno l’occasione di sottolineare che l’importanza del corpo in queste poesie non è data solo dalla specifica parola o dalle parti anatomiche che spesso incontriamo (abbiamo già trovato “occhi”, “bocca”, “cervello”, ma si incontrano anche “lingua”, “piedi”, “pelle”, “gola”, “braccio”, “carne”, “sangue”, ecc.), bensì anche dalle azioni legate ai sensi, come ascoltare, udire, vedere, respirare, ecc. E più avanti vedremo come rivesta un rilievo notevolissimo la parola “ferita” che, sebbene abbia un’evidente valenza figurata, è innegabilmente nel suo aspetto materiale legata al corpo.
E se altri elementi sembrano (sottolineo sembrano, perché in effetti ogni poeta ha una sua maniera singolarissima di declinarli) consueti nel linguaggio poetico (notte, occhi, scrivere, ecc.) suscita curiosità la presenza insistita(9 volte) del perro (cane) – cui fa pallida eco un generico animal (4 volte)), un altrettanto generico pàjaros (2 volte) e bestia/s (2 volte); completano il bestiario i rari buitre (2 volte), alimañas, bicho, escarabajo, araña, ciervos (1 volta). Va subito precisato che questo termine ricorre ben 6 volte nella stessa poesia (“Un uomo corre/ dietro al suo cane”, pag. 79) in maniera quasi ossessiva, martellante. Poesia alla quale la stessa Ada attribuisce un significato che va al di là del pur particolare episodio descritto, significato forse contenuto nella domanda “da cosa fugge quell’uomo” o nella ripetizione anaforica dei quattro por qué (perché) impiegati nei versi finali, nella divaricazione tra desiderio e impotenza che lascia un gusto amaro, tant’è che l’ultima, definitiva parola è muerte.
Ma giungiamo alle sezioni conclusive (IV e V, pp. 86-87) di “Parole in un quadro”, che porta il significativo sottotitolo “(Mira Schendel)”, nome di una famosa artista svizzero-brasiliana che appunto inseriva lettere, parole o intere poesie nei suoi quadri:
IV
Es ésta una labor de desescombro.
Lo importante es el perro
sus patas
escarbando.
Y oímos esas formas tan raras
de cordura
la espuma
de su hocico
su jadeo
el vaivén de su cola
sus círculos y círculos y círculos.
Tu ladrido incansable es ya sólo afonía.
Pero tú ladras
perro.
[Questo è un lavoro di sgombero./ L’importante è il cane/ che fruga/ con le zampe./ E sentiamo queste forme tanto rare/ di buon senso/ la schiuma/ del suo muso/ il suo affanno/ il viavai della coda/ i suoi cerchi e cerchi e cerchi.// Il tuo abbaiare instancabile è ormai solo afonia./ Ma tu abbai// cane. ]
V
Lo que quiero decir
està ahì. Animal
que los ojos no ven
pero mueve las ramas.
[Quel che voglio dire/ è qui. Animale/ che gli occhi non vedono/ ma muove i rami.]
Rimarcherei in prima istanza alcuni aspetti grammaticali: l’uso, nella sezione IV, della prima persona plurale sottintesa dal verbo (“oímos”), il passaggio, in relazione all’oggetto, dalla terza alla seconda persona (“el perro”, “sus patas”, ecc. – “Tu ladrido”, “tú ladras”), cui fa riscontro nella V un, a mio avviso molto significativo, passaggio del soggetto alla prima persona, anche qui sottintesa (“Lo que quiero decir”). Direi, considerando le sezioni precedenti (la I impersonale, la II in prima persona plurale, la III in prima persona plurale che nel finale diventa in rapida successione prima singolare yo e seconda singolare tú), che questo aspetto comporta una forte dinamizzazione del componimento, variando con notevole frequenza il punto di vista ed il soggetto dell’azione.
Passando al campo semantico, non saprei se l’animale indefinito che chiude la poesia sia un cane, ma di sicuro a mio avviso questa è una figura splendida, una delle tante illuminazioni suggestive che la poesia di Ada Salas ci dona. Abbiamo la descrizione di qualcosa di reale, che magari anche a noi è capitato di vedere, ma allo stesso tempo si prefigura una presenza invisibile, forse metafisica o forse semplicemente l’affermazione che anche l’immaginario, l’astratto fanno parte a pieno titolo della realtà, anche se non possiamo vederli con i nostri occhi.
Restando nell’ambito di quello che ho definito il bestiario di Ada Salas, vorrei proporre la lettura di questa poesia, – da notare l’insolita presenza del titolo, messo tra parentesi, che preconizza un futuro alquanto inquietante – in cui assistiamo ad un singolare rovesciamento del valore simbolico dell’insetto protagonista:
(Premonición primera)
Es esto lo sagrado: el lomo
curvo y duro
–de un negro casi azul–
de un bicho seco. El de un escarabajo
perfecto en su cadáver.
Un muerto tan ligero que pesa hacia la altura.
Nacer
para vivir
unas horas
tan sólo
y dejar esta herencia: una mancha
que cruje
bajo el paso de un niño: el rastro fulgurante
de lo que fuera asombro
aplastado y deshecho.
[ (Prima premonizione)// È questo il sacro: il dorso/ curvo e duro/ –di un nero quasi azzurro– / di un insetto secco. Quello di uno scarabeo/ perfetto nel suo cadavere./ Un morto così leggero che pesa verso l’alto./ Nascere/ per vivere/ qualche ora/ soltanto/ e lasciare questa eredità: una macchia/ che scricchiola/ sotto il passo di un bimbo: la traccia folgorante/ di quanto fu stupore/ calpestato e disfatto. (p. 63) ]
È infatti noto che presso gli antichi egizi, e successivamente presso altri popoli mediterranei, lo scarabeo era simbolo della resurrezione; in questo caso, al contrario, esso diventa il simbolo della caducità, della transitorietà della condizione del vivente. Il linguaggio a tratti crudo e spigoloso di questa premonizione, spinto al limite dell’onomatopea, rende efficacissima la sequenza di immagini che alterna, in maniera quasi ossimorica, il sacro, la leggerezza, la nascita e lo stupore al cadavere, allo scricchiolare, all’essere calpestato e disfatto.
E veniamo alla parola che, a mio modesto avviso, riveste un’importanza capitale nel libro: herida, ferita. Infatti va sottolineato, tra l’altro, che ferita è l’ultima parola del libro, ritornando ben due volte nei cinque versi della poesia che lo chiude. Non mi avventurerò in improvvisate interpretazioni psicoanalitiche, né men che meno in risibili letture biografiche. Proverò a restare aderente al testo, interrogandolo nella speranza di ottenere una risposta almeno in parte soddisfacente:
También llega el olvido.
Sabe que a toda plenitud
sigue su ruina
y a pesar del cansancio
llega
y abre una herida limpia
para que entre la muerte.
[Giunge anche l’oblio./ Sappi che ad ogni culmine/ segue la sua rovina/ e malgrado la stanchezza/ arriva/ e apre una ferita pulita/ affinché entri la morte.(p. 35) ]
Y para qué esta herida
esta abertura umbilical
por donde entra y sale
la claridad del mundo
si no me quedan nombres
ya
de tanta transparencia.
[E perché questa ferita// questa apertura ombelicale/ attraverso la quale entra ed esce/ il chiarore del mondo// se non mi restano nomi/ ormai// da tanta trasparenza (p. 41) ]
Con su lengua
curaba
la herida supurante
de la alucinación
Así que era
la lucha. Dos cuerpos
abrazados
dos
los dos
sobre la tierra. No habrá reparación no habrá
sutura
para la misma herida
–la herida es
una
una solamente debe entenderse bien
este matiz–
y larga como un río
que une esos dos cuerpos
caídos sobre
tierra.
(Albada)
Dispusimos el cuello como quien mira
pájaros. Un filo descendió
justo
hacia
la amapola de amor que habíamos
tragado. No cerramos
los ojos
tú
rozaste
mi herida hasta la aurora.
(Questo testo è dichiaratamente plasmato sul modello dell’Albada genere letterario risalente al medioevo che narra il momento in cui gli amanti sono costretti a lasciarsi per non essere scoperti a causa dell’arrivo del giorno)
El desorden trabaja como crece una herida
hacia
adentro y hacia
afuera.
Anterior al dolor
estaba allì
la herida. Después vino
caer.
Caer sobre la herida.
Aggiungerei che perfino in “Stellare” (pp. 88-89), un poema che apparentemente ci parla di costellazioni, troviamo “Perseo affonda la sua falce nel costato azzurro/ di Cassiopea”, così che pochi versi dopo “C’è una cicatrice che attraversa/ il cielo.” ed è evidente che una cicatrice è il segno di una ferita rimarginata; e che a questo già cospicuo elenco si può aggiungere la citazione della Cvetaeva in “Quel che dice Marina” (pag. 83): “che io non sono più di un animale ferito al ventre.”.
Le parole sono gocce di sangue che stillano da una ferita sempre aperta, rarefatte testimonianze nel bianco dell’imperscrutabile silenzio, tracce dense di un qui ed ora e allo stesso tempo di un altrove, indefinibile e tuttavia essenziale. Erotismo, dolore, sacro, sembrano inseguirsi e sostituirsi scambievolmente, generando una vertigine in cui (finalmente) il significato fa un passo indietro in favore del senso, di quello che non si può dire e che pure viene detto continuamente attraverso l’assenza, il bianco del foglio, il silenzio.
Sembra che tutta l’esperienza del mondo passi soltanto attraverso il corpo del poeta (testimoniata dalla presenza tanto insistita di yo e me), il grande bianco nel quale si apre la breve e profonda ferita della scrittura. Un io – come nota giustamente Ávila-Martínez nel suo saggio sul libro della Salas “Variaciones en blanco”, non antologizzato in italiano – “(…) fragmentado, a imagen y semejanza de sus poemas, un «yo» que reanuda en su multiplicidad de rostros vacíos con la «personalidad múltiple» que era el funcionamiento del coro en el lirismo griego.” [(…) frammentato, a immagine e somiglianza delle sue poesie, un «io» che si riannoda nella sua molteplicità di volti vuoti con la «personalità multipla» che era la funzione del coro nel lirismo greco.] (J. Ávila-Martínez “Ada Salas: un lirismo en harapos” in L’Âge d’or, 6, 2013, p. 77). E questo è un tratto tipicamente contemporaneo, come, non ultimo, rileva Mengaldo a proposito di Sereni: “da S. Agostino allo stesso Proust l’idea o sentimento del tempo come continuità soggettiva, interiorizzata, presuppone insomma una idea dell’io come unità: troppi sono invece gli indizi che ciò in Sereni […] non è più possibile, che l’io è ora sentito come discontinuo e frantumato”, (P.V. Mengalgo, Per Vittorio Sereni, Torino 2013 pp. 40-41).
Ancora Ávila-Martínez (op. cit. p. 76) dice: “(…) herir para dejar lo más profundo de la carne a flor de piel” [(…) ferire per portare la parte più profonda della carne a fior di pelle.]. E più avanti: “El dolor corroe en todos los sentidos y como agente corruptor se le pide que continúe y prolongue la reacción en el cuerpo asimilado a una «espada», confiriéndole una tremenda sensualidad al poema.” [Il dolore corrode in tutti i sensi e come agente corruttore gli è chiesto che continui e prolunghi la reazione nel corpo assimilato ad una «spada», conferendo una tremenda sensualità al poema.]. Ma in questa poesia che diventa sensuale restando tuttavia ellittica, il lettore è chiamato alla “compassione” in senso etimologico, ad essere parte attiva in questo confronto costante tra presenza e assenza, tra parola e silenzio. Sposerei quindi la tesi dello scrittore iberico che dice: “Palabra desgarrada que solicita al lector en la creación de sentido, que hace de él a fortiori su hermeneuta y su intérprete, en cuanto el poema parece convertirse en una partitura por descifrar, con ritmos y sus pausas.” [Parola lacerata che richiede al lettore la creazione di senso, che fa di questi a fortiori il suo ermeneuta e il suo interprete, in quanto il poema sembra convertirsi in una partitura da decifrare, con i suoi ritmi e le sue pause.] (J. Ávila-Martínez, op. cit., p. 65).
Mi sembra di poter aggiungere che quasi sempre la ferita è legata ad un’azione o alla sua impossibilità (apre una ferita; entra ed esce il chiarore; curare la ferita; non ci sarà rimedio non ci sarà sutura; sfiorasti la mia ferita; come cresce una ferita; cadere sopra la ferita). È altresì interessante questa visione della ferita come una soglia attraverso la quale si verifica un duplice movimento dall’esterno verso l’interno e viceversa, testimoniato dalle voci verbali entra e sale e dagli avverbi adentro e afuera.
Torniamo all’eccezione cui facevo cenno nella parte iniziale di questo intervento, contenuta nell’unica poesia tratta dalla raccolta “Ashes to ashes”, pubblicata insieme al pittore Jesús Placencia nel 2010, un’originale rivisitazione a quattro mani e in due diversi linguaggi (poesia e disegno) dei celeberrimi “Quattro quartetti” di T. S. Eliot. Aver voluto inserire questo testo, “(Time: técnica)”, che si discosta in maniera sensibile dagli altri, gli attribuisce una valenza particolare, rimarchevole. In effetti è forse l’unico, qui, in cui, in maniera diretta, si riflette sul proprio lavoro di scrittura (opzione critica a cui, come sappiamo, Ada non si sottrae): azzarderei per questa poesia un paragone con la tela di Penelope, visto che ad ogni escribir (scrivere) segue immediatamente un borrar (cancellare), che addirittura nell’ultimo alternarsi viene ripetuto tre volte, mimando un gesto quasi nevrotico, compulsivo. Ma attenzione: i due verbi sono legati dalla congiunzione y quasi a volerne sottolineare l’indissolubile compresenza. E c’è un finale allo stesso tempo misterioso e rivelatore, después// difuminar/ se (poi// sfumar/ si), che sembra recuperare in maniera drammatica il rapporto tra la scrittura e la (propria) vita.
Per sua stessa ammissione Ada è, nella contrapposizione tra poeta lineare e poeta circolare, un’ appartenente a quest’ultima categoria, che sembra sempre riproporre “diversas imitaciones de un mismo tema” [diverse imitazioni dello stesso tema] (Ávila-Martínez cit. p. 66); a supporto di tale affermazione rilevo che nei suoi versi prevale largamente un tempo presente che non esiterei a definire atemporale o acronico, spesso affiancato dall’infinito, anch’esso notoriamente estraneo alla consueta dinamica temporale di prima, durante e dopo.
Molti altri sarebbero gli aspetti di questa densa scrittura da prendere in considerazione, come il rapporto luce/oscurità, l’insistere sull’azione del pulire, ecc., ma sarebbe in ogni caso una vana pretesa quella di esaurire il discorso di interpretazione: lascio quindi al lettore il piacevole compito di individuare nuovi nuclei, magari dissentendo da quanto da me enucleato.
Tuttavia, e mi avvio alla conclusione, concordo pienamente con quanto di lei dice Álvaro Valverde (“Intorno alla poesia di Ada Salas” in http://mayora.blogspot.it/2013/10/en-torno-la-poesia-de-ada-salas.html – la traduzione in italiano è mia): “I suoi versi, a volte di una sola parola, magri, frammentari, scissi, si appoggiano tra spazi bianchi, (più silenzio), e misurano la sua eloquenza più per quello che tacciono che per quello che dicono. Sì, tutto è misurato qui. Può essere che manchino parole, ma mai nessuna è in eccesso.”
Forse è proprio questo il segreto ed il dono della poesia che, in questo tempo eccessivo, ridondante, bulimico, resiste conservando la sua essenzialità, lasciando al lettore il compito (vogliate perdonare la parafrasi leopardiana, che potrà apparire abusata, ma che mi consente di ricordare che anche di questo nostro grandissimo autore Ada è “innamorata”) di immaginare spazi infiniti oltre la fragile siepe delle parole.
Giancarlo Cavallo
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