Ho avvertito la necessità di tornare a riflettere sui Monologhi (Monologi, in Barbara Korun, Voglio parlare di te notte. Monologhi, traduzione di Jolka Milič, Multimedia, Baronissi 2013, pp. 106-137) perché nel precedente scritto (Sulla poesia di Barbara Korun, in https://www.potlatch.it/verso-casa-poeti-lontani-visti-da-vicino/giancarlo-cavallo-sulla-poesia-di-barbara-korun/) ero stato, anche per limiti di spazio, alquanto sommario, ingiustamente, vista la densità di questa “sezione” del libro pubblicato in Italia; infatti, come rileva Loredana Umek nella illuminante prefazione al libro “Lo sguardo agli avvenimenti esterni nel ciclo Monologhi apre orizzonti nuovi e provoca una maggiore asprezza critica nei confronti della realtà mimetizzante.” (p. 15).
Vorrei premettere alcune affermazioni che l’autrice ha fatto in una recente intervista, in relazione alla presenza della drammaturgia nella sua poesia: “(…) cercare di creare un vortice nel linguaggio e, attraverso di esso, uno spostamento nella mente del lettore. Per quanto questo processo possa essere difficile e duro per me come persona, può essere positivo per la scrittura: io cerco di afferrare l’attenzione del lettore e accompagnarlo attraverso il testo.” (Intervista a cura di Anna Belozorovitch, pubblicata in “Versante ripido” n. 5, maggio 2016, http://www.versanteripido.it/intervista-a-korun/). Questo ci rende immediatamente edotti sulla centralità del rapporto col lettore/ascoltatore (in un successivo passaggio della stessa intervista la scrittrice slovena in relazione alla lettura in pubblico, dice: “Ho l’impressione come se io e gli ascoltatori “leggessimo” la poesia insieme e che il pubblico è in qualche modo coinvolto nella lettura, come parte di uno stesso “spazio” o paesaggio.”).
Questa premessa, di cui è bene tener conto nei passaggi successivi, potrà essere in qualche modo illuminante al momento di tirare le conclusioni e, dunque, chiedo al lettore di seguirmi in questo invito alla lettura dei Monologhi di Barbara Korun.
Un primo sguardo che si limitasse esclusivamente all’aspetto esteriore coglierebbe immediatamente la lapidarietà del titolo generale (tuttavia subito accompagnato da una nota a pie’ di pagina che specifica “Monologhi su eventi storici e vicende di attualità.”) che contrasta con la insolita lunghezza dei titoli (e, per questo motivo, nel prosieguo ne citerò, in alcuni casi, solo la parte iniziale) delle singole poesie. Ma a questo già facevo cenno nel precedente scritto (a cui rimando il lettore, anche in relazione alla particolarità della lingua slovena); vorrei quindi addentrarmi nei testi, proponendo subito una domanda e una constatazione: 1) Chi è il soggetto che parla in ognuno di questi monologhi?; 2) Mi sembra che anche in questo caso Barbara focalizzi la sua attenzione sul momento del passaggio, del mutamento, come già rilevavo per alcune poesie di “Voglio parlare di te notte”.
Entrambe, domanda e constatazione, naturalmente vanno verificate all’interno dei testi, quindi procediamo nella lettura di alcune delle 13 poesie che compongono questa parte del libro.
Posso ipotizzare, sin dalla prima, che il lungo titolo (“Una donna senza nome, la moglie di Noè dopo il diluvio universale”, pp. 108-109), qui come in seguito, abbia la funzione di didascalia (rispondendo ad alcune o a tutte le canoniche domande: Chi, cosa, come, dove, quando), suggerendo in tal modo un’analogia con le opere teatrali.
Si può anche già provare a dare una prima risposta: in questo caso, apparentemente, a dire “io” è la moglie di Noè, il personaggio individuato dal titolo; personaggio senza nome, quasi anche lei femmina di una delle specie animali che il marito ha salvato dal diluvio. Ma vorrei altresì far notare che il climax converge verso il finale, verso l’attimo in cui Noè “aprirà la porta” e gli animali si precipiteranno verso di lui, “Per prima – io.”(p. 109). Noterei ancora come il ventre dell’arca possa essere paragonato ad un utero (“scuro”, “umido”) e si preconizzi un “venire alla luce” che è tema già fortemente presente in alcune poesie delle sezioni precedenti.
Anche nella seconda, così come nelle successive, a parlare è il personaggio individuato, ogni volta, nel titolo. In verità, per essere più precisi, è l’autore che fa parlare in prima persona il personaggio; procedimento che in un caso provoca un singolare effetto di raddoppio, in quanto il personaggio, come vedremo, è Barbara Korun.
Altra cosa rimarchevole è la straordinaria capacità di Barbara di cambiare registro, passando dall’ironico al tragico, dall’elegiaco al prosaico. Nel caso specifico di questa seconda poesia (pp. 110-111) ci troviamo messi di fronte ad una situazione paradossale: ad un operaio di colore (Henry Masson) viene cucita , al posto di quella amputata in un incidente, la mano di uno studente tedesco, bianca. Balza agli occhi la presenza insistita della parola “Dio” (“Boga” in sloveno, con varie declinazioni): potrei dire che la riflessione sulla trascendenza, ancora una volta affrontata con registri diversi (qui paradossale, serio e partecipato in “Madre Teresa (…)”, ferocemente satirico in “Il signor Ratzinger (…)”, ecc.) sia uno dei temi coi quali la Korun si confronta attraverso i personaggi dei vari monologhi, senza tuttavia rinunciare alle forti connotazioni fisiche, corporali, ed al linguaggio esplicito che caratterizzava le precedenti poesie.
Dicevo del momento del passaggio, cruciale nel finale della poesia Voglio parlare di te notte (“quando è sul punto di proprio sul punto”, p. 35): lo abbiamo visto in “La moglie di Noè (…)” (simboleggiato da una porta, che ritroveremo anche in seguito), in maniera sintomatica ritorna in “Madre Teresa (…)”– come vedremo tra poco – e sin dal titolo in “Seamus Cody (…) sta diventando cieco (…)” (pp. 114-115), nonché nella “Regina Elisabetta I (…)” che si sta trasfigurando in leggenda ed è colta nell’attimo in cui sta prendendo la crudele decisione di mandare a morte il suo giovane amante sospettato di infedeltà (pp. 116-117), così come il padre di “Sunny Wright (…)” ha subito un’improvvisa metamorfosi (“ora sei una misteriosa ombra nell’ombra,/ ondeggiante in tutte le direzioni.” p. 129). Sempre, mi sembra di poter affermare, nei monologhi non si fotografa una situazione cristallizzata, ma si coglie una dinamica in atto, un processo in cui il dubbio e il suo superamento ancora si fronteggiano.
Leggiamo adesso questo che si può considerare un, per nulla scontato, omaggio (pp. 112-113):
Mati Tereza nuni novinki
Kalkuta, konec 2. tisočletja
Še en Kristus je potrkal na vrata.
Ta nima nog. Verjetno so mu jih
odsekali starši, da bi laže beračil
zanje. Obraz je ena sama rana.
Nima več moči, da bi se poganjal
na svojem lesenem vozičku.
Še en Kristus čaka pred vrati. Nate.
Pohiti, da ga ne pomendra drhal,
ki beži pred policijo. Ali da ga ne
požro lačni, podivjani psi.
Pohiti. Ve, da bo umrl. Zato
je potrkal na tvoja vrata.
Ne veš, ali je to res pravi Kristus?
Kratke ure, namenjene spanju,
ti minejo v preveč budnem strahu:
Ali Bog sploh je? Skoz priprta vrata
lije svetloba v tvojo izbo:
Ni Boga. Zapuščen je svet. Ubožen.
Kristus te čaka pred vrati.
Bele sence tečejo čez temni vrt.
Njegovo telo boš držala v naročju,
breztežno. Njegov pogled v tvojem,
zadnji in prvi. Takrat boš vedela:
Tvoj otrok je.
Pojdi.
[Madre Teresa ad una suora novizia/ Calcutta, fine del 2° millennio
Un altro Cristo ha bussato alla porta. Non/ ha gambe. Probabilmente gliele hanno/ troncate i genitori perché possa elemosinare/ per loro più facilmente. La sua faccia è una/ sola piaga. Non ha più forza di spingersi/ sul suo carrettino di legno.// Un altro Cristo aspetta te davanti alla porta./ Affrèttati, affinché non venga travolto dalla/ marmaglia che scappa davanti alla polizia./ O perché non lo divorino i cani affamati e/ inferociti. Su, muoviti. Sa di dover morire./ Perciò ha bussato alla tua porta.// Ignori se si tratta veramente di Cristo?/ Le brevi ore destinate al sonno/ le trascorri desta in preda alla paura./ Ma Dio esiste davvero? Attraverso la porta/ socchiusa la luce inonda la tua cella:/ Non c’è Dio. Il mondo è squallido. Misero.// Cristo ti attende davanti alla porta./ Bianche ombre pervadono l’oscuro giardino./ Terrai nel grembo il suo corpo, privo di/ gravità. Il suo sguardo nel tuo, l’ultimo/ e il primo. Allora saprai:/ È tuo figlio.// Su, va’.]
Alle prime due strofe, crudamente realistiche, assimilate dall’identico incipit (“Un altro Cristo”), ne succede una terza in cui le due interrogative si risolvono nelle tre categoriche, laconiche, inattese, asserzioni: “Non c’è Dio. Il mondo è squallido. Misero.”. La quarta strofa capovolge la prospettiva indicando la divinità in ciò che è terreno, il corpo martoriato di un Cristo miserabile. E, con veloci ed efficaci tratti, ci propone una nuova versione della Pietà in cui la novizia, destinataria del monologo, si trasforma nella madre del povero Cristo. L’ultima brevissima strofa scioglie la tensione statuaria della precedente nella rapida esortazione di un’unica parola in sloveno “Pojdi” (reso in italiano con “Su, va’.”).
Aggiungo solo l’osservazione che la parola “Kristus” (Cristo) è sempre presente nel primo verso delle quattro strofe, a sottolineare la centralità di questo essere che nella seconda strofa “aspetta te” e nella quarta “ti attende”, ancora una volta cogliendo l’attimo in cui sta avvenendo la trasformazione decisiva. Anche qui rileviamo la presenza, fortemente simbolica, di una porta, messa ancora una volta in relazione con la luce.
È davvero difficile scegliere su quali di questi Monologhi soffermarsi, dato che ognuno a suo modo risulta peculiare ed originalissimo. Ma sono obbligato a farlo ed allora – dopo aver rilevato, en passant, che l’incipit della straordinaria “Regina Elisabetta I (…)” è “Sto invecchiando.” (p. 117) e che “Sunny Wright (…)” inizia con “Come sono terribili le cose/ su cui si sta raggelando la tua presenza.” (p. 127), a rafforzare la constatazione relativa alla focalizzazione sul momento della mutazione; che due Monologhi hanno come protagonisti “Il sorcetto Terry (…)” (pp. 122-123) e “Il primo germe dell’elleboro (…)” (pp.124-125), dunque un rappresentante del regno animale e uno di quello vegetale, ed in proposito la Umek, nella prefazione al volume, osserva: “La solidarietà verso tutto ciò che vive nel mondo e in generale verso tutte le forze pervasive dalla vita fa sì che la poetessa dia voce agli animali e alle piante.” (p. 15); e che, non ultimo, c’è un’evidente prevalenza di personaggi femminili (anche se dai profili psicologici estremamente variegati in un arco che va da Madre Teresa, alla Regina Elisabetta I, fino a Monica Lewinsky) che marca una continuità con tematiche affrontate nelle raccolte precedenti – analizzerei quello intitolato “Barbara Korun, poeta, nella relazione al DSP Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, maggio 2007” (pp. 130-131):
Barbara Korun, pesnica, v poročilu DSP
Sarajevo, BiH, maj 2007
Kent je človek z rumenimi lasmi in brado,
oblečen v črno srajco in rjave hlače.
Predstavljala sem si ga drugače.
Kaj je s pesnikovo odgovornostjo, sem ga vprašala.
To je čudovito vprašanje, je rekel Kent in potem
ga je zvilo. Nisem zadovoljen s tem, kar je povedal
gospod Kent, je dejal zaripli Poljak Kislinsky,
pesnik ima odgovornost do jezika in do naroda!
Nima je, nima, odgovarjam, a vendar nosiš posledice
vsega, kar si napisal(a), posledice, ki so nedoumljive
in nedoločljive kot poezija sama.
Hotela sem reči, da poezija odgovarja vsemu svetu
in da je pesnik odgovoren samemu sebi.
Kaj je s politično pesmijo Ane Ahmatove danes,
se je spraševal Grk Haris in povedal,
da priznava Makedonijo.
Ne morem prevzeti odgovornosti za ves narod,
je rekel.
Taguči piše fantazijske pesmi,
Kent piše o vojni v Iraku, in oba sta
angažirana, oba sta politična,
mogoče Taguči še bolj.
»Naloga umetnosti je, da širi prostor zavesti,«
je rekel Taguči, »čez meje predstavljivega.«
Kent ga je vprašal, ali se mu zdi fantazijsko
poigravanje v jeziku luksuz.
»Ne,« je rekel Taguči,
»nekateri pišejo realistično in angažirano,
jaz sem zavestno in podzavedno, telesno,
izbral fantazijsko pot, ki je prav tako
angažirana in etična.«
[Barbara Korun, poeta, nella relazione al DSP*/Sarajevo, Bosnia ed Erzegovina, maggio 2007
Kent è un uomo dalla barba e dai capelli gialli,/ indossa una camicia nera e pantaloni marrone/ Me lo immaginavo diverso. Che ne pensa/ della responsabilità dei poeti, gli chiesi.// È una stupenda domanda, disse Kent e dopo si/ confuse. Non mi soddisfa ciò che ha detto il signor/ Kent, replicò il polacco Kislinsky, acceso in volto,/ il poeta è responsabile di fronte alla lingua e al popolo!// No, non lo è, rispondo io, comunque porti le conseguenze/ di tutto quello che hai scritto, conseguenze che sono/ incomprensibili e indefinibili come lo è la poesia stessa./ Volevo dire che la poesia risponde al mondo intero/ e che il poeta è responsabile solo verso se stesso.// Che ne è oggi della poesia politica di Anna Achmatova,/ si stava chiedendo il greco Haris aggiungendo/ di riconoscere la Macedonia./ Non posso assumere la responsabilità per tutto il popolo,/ disse.// Taguchi scrive poesie fantasiose,/ Kent scrive sulla guerra in Iraq e tutti e due sono/ impegnati, tutti e due politici,/ Taguchi forse ancora di più./ «Il compito dell’arte è di allargare lo spazio della coscienza,»/ disse Taguchi, «oltre i limiti dell’immaginabile.»/ Kent gli domandò se gli sembrano i giochetti fantasiosi/ nella lingua un lusso./ «No,» disse Taguchi,/ «taluni scrivono realisticamente e fanno letteratura/ impegnata, io ho scelto fisicamente, coscientemente/ e subcoscientemente il cammino del fantastico che/ è altrettanto impegnato ed etico.»
*DSP (Društvo slovenskih pisateljev) = Associazione degli scrittori sloveni]
Come vediamo si mette in atto una particolare combinazione in cui si verifica una sorta di raddoppio al quadrato: in una poesia che parla della poesia, Barbara Korun autrice fa parlare Barbara Korun personaggio. Eccellente, direi!
Forse questo appena riportato è, tra i Monologhi, il più anomalo, e non solo per la particolarità sopra evidenziata della coincidenza tra l’autore ed il personaggio/io narrante, ma anche perché più che un monologo è un dialogo a più voci, ben cinque: oltre a Barbara, i poeti Kent, Kislinsky, Haris e Taguchi; mentre in tutti gli altri troviamo tutt’al più un destinatario in presenza o assenza.
Dunque, questo testo è particolarmente rilevante, non solo perché evidenzia il contesto internazionale in cui l’autrice è a pieno titolo inserita, ma soprattutto perché si tratta di uno di quei luoghi in cui la Korun parla esplicitamente della sua concezione della poesia. Come vediamo, si confrontano sul tema della “responsabilità dei poeti” opinioni differenti, addirittura diametralmente opposte. Barbara, mi sembra di poter dire, oltre ad esprimere la propria opinione attraverso “Barbara” (nell’intera terza strofa), propende per la visione espressa nel finale dal giapponese Taguchi, ovvero che “il cammino del fantastico” è “impegnato ed etico”; lo si evince da quel breve commento (“Taguchi forse ancora di più”) che rivendica un contenuto politico per la letteratura fantastica. Ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, la nostra autrice afferma la propria esigenza di assoluta libertà ed indipendenza, anche dai limiti del realismo, nell’intento di “allargare lo spazio della coscienza”.
Prima di avviarmi a trarre le conclusioni di questo secondo breve viaggio nella poesia di Barbara Korun, vorrei ancora proporre al lettore un monologo, quello che conclude la sezione e l’intero libro e, per ciò stesso, assume un ruolo particolarmente significativo.
Hannah Arendt poroča o sojenju Eichmannu
Jeruzalem, Izrael, maj 1962
Za to poezija ne zadostuje.
Več tisoč strani poročil.
Vsaka beseda ima pred sabo ime.
Vsako ime je človek: telo in duh.
Vsakdo naj odgovarja za to,
kar je rekel, kar je storil.
Ne pred Bogom, pred ljudmi.
Pred sodniki.
Tu ni prostora za poezijo.
Vrstijo se paragrafi, pravila, člen
za členom. Zakoni, ustave,
resolucije, amandmaji.
Obupen poskus – edini, ki šteje –
zagledati zlo, ga povezati z imenom,
ime z osebo, osebo postaviti pred sodišče.
Potrpežljivo slediti vsaki vijugi črk,
ne da bi izgubili smisel izpred oči.
Pozabiti na lastno bolečino.
Omejiti zlo. Samo to.
Ne, poezija ne zadostuje.
A prav ona je vir luči,
ki zmore zlo napraviti vidno.
Le zaradi njene natančnosti
zmorem ločiti sloje
osebne in obče resničnosti,
slediti neznanski navidezni
povezanosti vzrokov in posledic.
Razpadli so mi vsi sistemi pravičnosti.
Razpadel mi je jezik.
Sestavljam ga nazaj,
potrpežljivo, natančno,
stran za stranjo, stran za stranjo.
Tudi brez jezika
znam biti pri sebi.
Brazgotina v jeziku
mi služi,
pričuje čuječno.
Ves čas, ko pišem,
mi prišepetava
nasprotno, uničujoče nesmisle,
razbrzdane igre besed
in usod, vse vrste nemožnosti;
z divjo, nezaustavljivo močjo
mi trga resnico iz rok
in mi jo vrača isto, a spremenjeno:
s senco, neizmerljivo, globoko
in trepetajočo,
ki stvarem šele daje obliko,
dejanjem pomen.
[Hannah Arendt riferisce sul processo di Eichmann/ Gerusalemme, Israele, maggio 1962Per parlarne la poesia non basta./ Parecchie migliaia di pagine di rapporti./ Ogni parola ha davanti un nome./ Ogni nome è un uomo: corpo e spirito./ Ognuno deve essere responsabile di ciò/ che ha detto, di ciò che ha fatto./ Non davanti a Dio, davanti agli uomini./ Davanti ai giudici.// Qui non c’è posto per la poesia./ Si susseguono i paragrafi, le norme,/ un articolo dopo l’altro. Leggi,/ costituzioni, mozioni, emendamenti./ Un disperato tentativo – l’unico che conta –/ di scorgere il male, collegarlo con un nome,/ il nome con una persona e trascinare la persona/ in tribunale. Seguire pazientemente ogni segno/ alfabetico senza perdere d’occhio il suo senso./ Dimenticare la propria sofferenza./ Limitare il male. Nient’altro.// No, la poesia non basta./ Ma proprio lei è la sorgente della luce/ che riesce a rendere il male visibile./ Solo grazie alla sua esattezza/ riesco a separare gli strati della/ realtà personale da quella comune,/ seguire l’inconcepibile apparente/ rapporto tra cause e effetti.// Per me sono crollati tutti i sistemi di giustizia./ Mi si è disgregata la lingua,/ cerco di ricomporla,/ con pazienza e precisione,/ pagina per pagina, pagina per pagina. / Anche senza la lingua/ so mantenere la presenza di spirito./ La cicatrice nella lingua/ mi serve,/ testimonia l’attenzione.// Mentre scrivo, tutto il tempo/ mi suggerisce/ il contrario, distruttive assurdità,/ sfrenati giochi di parole e di destini,/ ogni sorta di cose impossibili;/ con forza selvaggia, irrefrenabile/ mi strappa la verità dalle mani/ e me la rende uguale, ma trasformata:/ con un’ombra, smisurata, profonda/ e palpitante/ che alle cose dà la forma,/ alle azioni il significato. – pp.134-137]
Mi perdonerà il lettore se mi prendo la libertà di esprimere questa mia opinione personale, forse non troppo scientifica: molti possono scrivere una bella poesia, ma è davvero dono di pochi, pochissimi, scriverne una così bella e, al tempo stesso, importante, pregna di significato, come questa!
Leggendo gli incipit delle prime tre strofe, sembrerebbe di assistere al fallimento della poesia, quasi un’eco della nota affermazione di Adorno per cui dopo Auschwitz non è più possibile la poesia (“scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”). Però i successivi versi della terza strofa ribaltano completamente questo giudizio, attribuendo alla poesia un ruolo fondamentale, nonostante la sua conclamata insufficienza (“Ma proprio lei è la sorgente della luce/ che riesce a rendere il male visibile.”, p. 135). Le si attribuisce una dote, l’esattezza, che molti ritengono, erroneamente, appannaggio esclusivo delle discipline scientifiche. E nella strofa finale abbiamo un altro esempio di questa esattezza (e, a mio avviso, della capacita di immedesimazione drammatica della scrittrice Barbara Korun nel personaggio Hannah Arendt – la Umek, nella citata prefazione parla di “empatia”, p. 15 ): una serie di aggettivi (distruttive, sfrenati, impossibili, selvaggia, irrefrenabile) quasi iperbolici che ci conducono in quello stesso vortice che trascina la filosofa ebreo-tedesca, autrice de La banalità del male, verso la verità finale in cui ancora una triade di aggettivi -smisurata, profonda e palpitante – riferiti a “un’ombra” ne rendono la decisiva dimensione esistenziale, insieme alle due, conclusive, proposizioni relative (“che alle cose dà la forma,/ alle azioni il significato.”).
Ecco che in qualche modo queste ultime considerazioni riannodano il filo del discorso iniziato con le dichiarazioni della stessa Barbara in merito alla drammaturgia nella sua poesia. Quell’operazione, si badi bene definita difficile e dura, di coinvolgere il lettore trascinandolo nello stesso vortice della scrittura è, a parer mio, pienamente riuscita. Questo ciclo dei Monologhi rappresenta – come evidenziato dalla Umek e confermato dalla stessa Korun – effettivamente un’ulteriore maturazione della poesia dell’autrice slovena in direzione di una maggiore attenzione rivolta al mondo esterno: temi fondamentali come la trascendenza, la responsabilità, il rapporto con la lingua, sono diventati poesia, non senza avere attinto a tutte le sfumature della vicenda umana che vanno dal comico (ironia, sarcasmo) fino alla tragedia. Inoltre, la Korun riesce a mantenere la propria poesia continuamente in tensione, focalizzando sempre sul movimento, sul passaggio, sulla trasformazione, sullo stare per; assumendo costantemente una posizione dialettica e mai rigidamente assertiva. Questa maturazione avviene senza rinunciare ad alcune delle caratteristiche salienti delle poesie precedenti, come la forte impronta femminile, la fisicità, l’uso di un linguaggio esplicito e mai reticente, e quel singolare rapporto tra luce e oscurità (con i vari sinonimi) vissuto sempre come compresenza, quasi a simboleggiare l’inestricabile e naturale connubio di vita e morte.
Tenendo dunque presente quanto la scrittrice afferma – nella più volte citata intervista – in merito alla lettura delle sue poesie, non posso che invitare il lettore che ne abbia l’occasione a praticare entrambe le forme messe a confronto: la lettura solitaria del libro, che lascia spazio alla propria autonoma immaginazione, e l’ascolto, in uno dei reading pubblici, dalla viva voce, suadente e penetrante, dell’autrice. Con un doveroso ringraziamento, da parte del lettore italiano, all’infaticabile Jolka Milič per aver trasposto nella nostra lingua anche queste notevolissime poesie.
Giancarlo Cavallo
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