Ho conosciuto Carmen Yáñez alla Casa della poesia di Baronissi in occasione degli incontri internazionali di poesia “Lo spirito dei luoghi” nel 2000. Era da poco apparsa in Italia la sua raccolta Paesaggio di luna fredda (Carmen Yáñez , Paesaggio di luna fredda, traduzione di Roberta Bovaia, Guanda, Parma 1998 – in seguito per brevità Paesaggio) e la sua lettura ci rivelò una grande poesia. Impressione confermata più volte nelle successive occasioni, l’ultima credo nel 2011 agli Incontri internazionali di poesia di Sarajevo.
Quello di Carmen è uno di quei casi in cui la biografia del poeta rischia di sopraffare il valore reale della sua poesia. L’attenzione del pubblico, infatti, viene focalizzata su quegli elementi che possono sembrare più vendibili (eh sì, l’essere scampata ai torturatori di Pinochet può fare audience, che tempi! – ovviamente lungi da me l’idea che non si debba esecrare in ogni occasione possibile gli orrori del fascismo e del nazismo, in qualunque paese e latitudine!), fino al paradosso di titoli di giornale che la presentano come “La moglie di Luis Sepúlveda” (cosa effettivamente vera, ma voi immaginereste il contrario “Il marito di Carmen Yáñez”?). Sarebbe un grave errore, oltre che una mancanza di rispetto per un lavoro che ha visto nel tempo venire alla luce tante sillogi pubblicate sia in spagnolo che in varie traduzioni. Questo mio intervento proverà a suggerire a coloro che amano la poesia qualche elemento per esaltare il vero valore letterario dell’autrice cilena, che, per fortuna del lettore italiano, si può riscontrare nelle numerose raccolte pubblicate in Italia dall’editore Guanda (oltre alla citata Paesaggio, Abitata dalla memoria 2001, Terra di mele 2006, Latitudine dei sogni 2013, Cardellini della pioggia 2015 e Migrazioni 2018).
Per le ragioni sopra evidenziate, molto si può leggere sulla biografia della Yáñez (soprattutto in rete, risorsa a cui rimando i lettori che vogliano approfondire questo aspetto non irrilevante, considerando che questa donna minuta e appassionata ha subito, per le sue convinzioni politiche, la tortura, la clandestinità e l’esilio – in rete è possibile trovare anche letture di poesie dell’autrice, tra le quali la magnifica, emozionante Prodigio, https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/carmen-yanez-prodigio/), ma ben pochi sono i contributi di critica letteraria: da questi ultimi vorrei iniziare il mio percorso di avvicinamento alla poesia della scrittrice cilena.
Il poeta Giuseppe Conte, nella bandella di Paesaggio, individua alcune tematiche della scrittrice: “un eros panico e concreto”, “La potenza creatrice, della donna, della natura, della poesia”, “il senso di compenetrazione con la natura e il desiderio di rinascita”. Ma rileva anche in questi versi “splendore delle metafore”, “continuum delle metamorfosi”, “energia vitale”.
Luis Sepúlveda ha sottolineato, nella prefazione a Paesaggio, “(…) la pazienza da orafo che le ha permesso di ripulire ogni parola, ripetendola intimamente, mentre lo stolto mondo maschile che la circondava la supponeva una Donna senza voce (…)” (L. Sepúlveda. Discorso dell’elefante…, in Paesaggio, cit. pp. 5-6). Osservazione che trova conferma in questo giudizio di Virginia Vidal : “Palabra exacta para expresar toda exaltación del espíritu, verbo preciso para nombrar la acción, busca incansable y disciplinado rigor son la brújula en el oficio de esta mujer que con su poesía da una lección de vida: con amor, belleza y dignidad se puede caer hasta en el pantano, pero conservar siempre la almendra pura, el cristal incólume, la luna del espejo refulgente.” (Parola esatta per esprimere ogni esaltazione dello spirito, verbo preciso per nominare l’azione, ricerca instancabile e disciplinato rigore sono la bussola nel mestiere di questa donna che dà una lezione di vita con la sua poesia: con amore, bellezza e dignità si può cadere perfino nel pantano, ma conservare sempre la mandorla pura, il vetro incolume, la luna dello specchio rifulgente. -V. Vidal, “Carmen Yáñez: Poesía del Oxímoron.” Anaquel Austral. Ed. Virginia Vidal. Santiago : Editorial Poetas Antiimperialistas de América. 2005. http://virginia-vidal.com/cgi-bin/revista/exec/view.cgi/1/33 – le traduzioni dallo spagnolo, salvo diversa indicazione, sono mie).
Ascoltiamo un’altra voce, questa volta proveniente da Cuba: “Una poesía de madurez, de domino del lenguaje y las formas poéticas, alejada de los lugares comunes del coloquialismo; salpicada por las experiencias vitales, la presencia de los años del horror fascista, el exilio, lo cotidiano, el amor, la amistad, todo aderezado por un tono íntimo, siempre optimista, alejado del panfleto, que la poeta caracterizó –junto a su público- como “dulce venganza”, al reconocer la función catártica de la literatura y su alto valor para vencer la adversidad.” (Una poesia della maturità, del dominio del linguaggio e delle forme poetiche, lontana dai luoghi comuni del colloquialismo; costellata da esperienze di vita, dalla presenza degli anni dell’orrore fascista, dall’esilio, dalla vita quotidiana, dall’amore, dall’amicizia, il tutto condito da un tono intimo, sempre ottimista, lontano dal pamphlet, che la poeta ha caratterizzato – insieme al suo pubblico – come “dolce vendetta”, riconoscendo la funzione catartica della letteratura e il suo alto valore nel superare le avversità. – Ernesto Sierra, Carmen Yáñez: entre un país y dos reinos, Cubaliteraria, 06 marzo 2008 – http://www.cubaliteraria.com/articuloc.php?idarticulo=8374&idcolumna=27).
Nell’intervista di Elia Cossu pubblicata ne L’Indice (E. Cossu, Una poesia in cammino, L’Indice, n. 5, Torino, maggio 1999, p. 18) la Yáñez, a proposito di influenze letterarie, afferma: “Io però non voglio essere influenzata; di Neruda, per esempio, ho cercato di non leggere la poesia, non direttamente, anche se non posso negare la sua generale influenza sulla poesia cilena”. E più avanti: “Mi riconosco nei paradigmi generali di questa poesia [latino-americana], ma soprattutto nell’opera dei poeti che hanno provato come me l’esperienza dell’esilio, perché indubbiamente è parte di me, la sento come mia”. Dichiara quindi di preferire “L’opera dell’argentino Juan Gelman, che è poi il poeta che sento più vicino”. Affermazioni parzialmente smentite in un’intervista rilasciata molti anni dopo: “Mi imbarazza essere messa a confronto con il grande maestro Pablo Neruda che è stato ed è il mio riferimento morale, politico e letterario.” (intervista di Simona Maggiorelli in Left del 5 maggio 2016 – https://left.it/2016/05/05/la-poesia-di-carmen-yanez-e-la-memoria-di-neruda-nel-recital-con-sepulveda/). E integrate da quanto affermato nel corso di un’intervista rilasciata il 6 giugno 2013 alla Television en Asturias, nella quale individua come sue ispiratrici due donne: Gioconda Belli, poeta e scrittrice del Nicaragua, e Winétt de Rokha, poeta cilena deceduta nel 1951. (Carmen Yáñez in “MUJER, ARTE Y LA SOCIEDAD en SEÑALADOS”, https://www.youtube.com/watch?v=Hc2AVUaKEMM).
Tornando alla citata intervista di Cossu, la scrittrice cilena ci dice: “La mia è una poesia intimista, parto da me, dal mio interno, verso l’esterno, verso il mondo; non posso descrivere niente che io non senta, che non senta vicino. E tra ciò che sento vicino vi è soprattutto quella che è la sofferenza di un popolo. E per questo che descrivo a partire da me stessa questo sentimento collettivo di giustizia”. E poi ancora: “Io voglio scrivere degli odori, dei sapori, della natura e di tutto ciò che apprezzo e amo”.
Affermazioni che vengono sostanzialmente ribadite a distanza di oltre quindici anni dalla Yáñez: “Ciò che posso dire riguardo la mia poesia è che se scrivo è per il mio bisogno di cercare parole ai sentimenti che sveglia in me la vita e la sua quotidianità, lo stupore che scopro nelle leggi della natura e dell’essere umano. Niente di ciò che scrivo è senza il motore dei miei sentimenti”. (intervista di Simona Maggiorelli in Left del 5 maggio 2016, cit.).
Intitolare la propria dichiarazione di poetica “Una verdad de un metro cincuenta y cuatro” (Una verità di un metro e cinquantaquattro – C. Yáñez, poética, in kaleidoscopia, Literarias. Asociación de Escritores de Asturias, Oviedo, settembre 2011, pp. 9-11 https://es.scribd.com/document/219144798/Kaleidoscopia-1-pdf) rivela, oltre ad una notevole dose di autoironia, la capacità di accostare sempre le cose concrete a quelle astratte (in questo caso la verità e la propria statura fisica), quasi a voler ancorare saldamente le grandi cose a quelle piccole e quotidiane (“«nelle piccole cose si nascondono le grandi», dice il poeta leonino Antonio Gamoneda”, citato dalla Yáñez in poética, p.10).
Proviamo quindi a riscontrare le affermazioni e le note critiche sin qui riportate in alcuni testi di Carmen Yáñez, arricchendole magari di ulteriori dettagli che i versi potranno far emergere, iniziando dalla prima raccolta pubblicata in Italia.
Cominciamo da questa Albedrio (Arbitrio, in Paesaggio, cit. pp. 86-87):
Como una guitarra feliz
emerges
del baño mineral.
Con las provincias de tus senos
al aire
mujer sin ataduras
rumbo al paisaje de los sueños.
La verdad
es el contacto
de la hierba húmeda
con tus pies
desnudos
[Come una chitarra felice / emergi /dal bagno minerale. / Con le province dei tuoi seni / al vento / donna senza legami / in rotta per il paesaggio dei sogni. // La verità / è il contatto / dell’erba umida / sui tuoi piedi / nudi – traduzione di R. Bovaia]
Troviamo nei versi finali immediatamente conferma di quanto asserito proprio in relazione alla “verità”: l’astratto si associa al concreto, per restare, appunto, con i piedi per terra. Abbiamo anche una prima prova di quel senso di compenetrazione con la natura e della forte presenza dell’eros evidenziati da Conte. Ma in questi versi liberi – come sempre nella scrittrice cilena – rileviamo anche altri topoi: il viaggio, il sogno e la personificazione degli oggetti (guitarra feliz). Il tutto in due strofe asimmetriche di soli dodici versi (7 + 5): un esempio della densità di scrittura immaginifica eppure saldamente legata al quotidiano che caratterizza l’intera opera della Yáñez.
Un erotismo esplicito e ricco di immagini è quello che incontriamo in più liriche (Frente a frente pp. 46-47, Desde la cascada pp. 48-49, Ventana al amor pp. 52-53, Es eso pp. 54-55, Mire, señor pp. 60-63, ad es.), nelle quali assistiamo ad un continuo slittamento da un piano concreto, fisico (boca, pezones, cuerpos, saliva), ad un altro metaforico (miel, vino, l’immancabile, classicissimo, rosa, ecc.).
Quanto finora detto (personificazione degli oggetti, dimensione onirica, slittamento dal fisico al metaforico) ci conduce facilmente, inevitabilmente direi, alle metamorfosi di cui parlava Conte. Ad esempio leggerei questa bellissima El agua y el fuego (L’acqua e il fuoco, Paesaggio, pp. 42-43):
Soy agua.
Voy por abismos y arterias
por las que mis hijos corren
hasta alcanzarme en las fuentes.
Invado playas, pieles
que no se corresponden
con mis cauces y mis ansias.
Fuego de bosques, resina seca
hobueras desafiantes me llaman.
Soy agua
en el pelo de una bruja
que proteje su carne.
Los brazos del fuego
no dejan huellas
sólo cenizas
sobre la tierra incendiada.
Cambio entonces
en el momento del juicio.
Ahora soy agua que arde:
roja lava roja
que ordena actuar
a los volcanes.
[Sono acqua. / Scorro per abissi e arterie / che percorrono i miei figli / fino a raggiungermi alle fonti. / Inondo spiagge, pelli / che non si adattano / ai miei alvei e alle mie ansie. / Fuoco di boschi, resina secca / falò minacciosi mi chiamano. // Sono acqua / nei capelli di una strega / che protegge la sua carne. / Le braccia del fuoco / non lasciano tracce / solo ceneri / sulla terra incendiata. // Cambio quindi / nel momento del giudizio. / Adesso sono acqua che arde: / rossa lava rossa / che ordina di agire / ai vulcani. – traduzione di R. Bovaia]
Tre strofe asimmetriche (9, 7, 6 versi rispettivamente), anche stavolta di versi liberi; le prime due iniziano con lo stesso verso (Soy agua), ma va notato che nel primo caso il verso si chiude perentoriamente con il punto, mentre nel secondo dà luogo ad un enjambent, quindi l’affermazione viene ribadita, ma si trasforma in qualcosa di più complesso e articolato. Inoltre, a conferma della congiunzione del titolo, in tutte e tre le strofe coesistono l’acqua e il fuoco, che addirittura nella terza si fondono (soy agua que arde). L’immedesimazione tra la donna e l’elemento naturale è talmente piena che è difficile dire a chi davvero appartenga l’io che si presenta in maniera così decisa e potente. Troviamo altresì, nella seconda strofa, una strega, figura ricorrente nelle poesie della Yáñez, che spesso vi si immedesima. Il “Cambio” che annuncia la trasformazione all’inizio della terza strofa non arriva improvviso, inaspettato, ma compie una metamorfosi che era già iniziata gradualmente nelle strofe precedenti in cui il fuoco passa dai due versi finali della prima strofa ai quattro della seconda, invertendo la proporzione tra i due elementi. Il terzultimo verso (roja lava roja) è caratterizzato da una epanadiplosi (il verso inizia e finisce con la stessa parola) che sembra voler sottolineare l’importanza di questo elemento di sintesi – la lava – incandescente, mobile, rosso, scaturito dalle viscere della terra, femminile e in grado addirittura di imporre la propria volontà ai vulcani (è appena il caso di rammentare che il Cile è una terra estremamente vulcanica).
“Sorprende la poesía de Carmen Yánez con tanto sufrimiento, tanta vida vivida e inagotable esperanza. Estos versos destilan dulzura feroz, ternura salvaje, amor sin compuertas, suavidad y sutileza. La discreción no le ahoga la agudeza ni la capacidad de observar y penetrar hondo. Cala sin herir. Su delicadeza es fuerza sin asomo de debilidad.” (Sorprende la poesia di Carmen Yánez con tanta sofferenza, tanta vita vissuta ed inesauribile speranza. Questi versi distillano dolcezza feroce, tenerezza selvaggia, amore senza ostacoli, soavità e sottigliezza. La discrezione non soffoca l’acutezza né la capacità di osservare e penetrare in profondità. Permea senza ferire. La sua delicatezza è forza senza segno di debolezza.), dice Virginia Vidal nel citato Carmen Yáñez: Poesía del Oxímoron. Mi permetto di dissentire dal titolo, non di ossimoro si tratta, non è lo stridore del contrasto, il virtuosismo del limite che si ricerca, ma una compenetrazione, un trascorrere, un continuo trasformarsi attraverso sequenze che contemplano la possibilità di essere acqua e fuoco, natura e cultura, sogno e realtà, parola e silenzio.
Insomma, a mio avviso, la Yáñez sfrutta al massimo il potere evocativo della parola in poesia, ma, a differenza di tanti altri, non lo fa isolando le parole, ma mettendole in relazione, potenziandole reciprocamente.
Gli esempi utilizzati finora erano tratti da Paesaggio, passiamo ora, facendo un balzo di circa 15 anni, ad una raccolta successiva Latitud de sueños (Latitudine dei sogni, traduzione di Roberta Bovaia, Guanda, Parma 2013). Leggiamo la poesia che dà il titolo alla raccolta Latitud de sueños (pp. 6-9):
Una está tranquila
en un hotelito de Saint-Maló
la costa esmeralda de antiguos corsarios
frente al mar, es decir, expuesta.
El agua azul
y de pronto golpea el Pacífico espléndido
la brisa alimentada de eucaliptos
a la orilla de un recuerdo indeleble
donde moró la pequeña felicidad
que sostiene vértebras de vida.
¿Dónde tiene uno el mar que le pertenece para siempre?
¿En que órgano se oculta después de tantos viajes?
¿En qué víscera aúlla el animal de los recuerdos?
La infancia que brota entre las olas
desde la ventana de un exilio que nunca para de envolvernos
con sus pequeñas manos ahora.
Piedritas que juntaba y todo lo que fue posible
en los bolsillos rotos.
Una está tranquila
caminando sobre la arena,
pero los zapatos se retrasan por su peso,
¡Tanta vida caminada!
Aunque los pies quieran despegar del suelo
confundirse con el azul.
Y en el fondo uno sabe
que todo es engaño
el aquí y allá en el cuerpo.
La única verdad es el dolor,
la incisión molesta
que ha hecho el filo de un guijarro en el zapato izquierdo
el talón herido que impide a veces avanzar
que va y viene
como la ola que muerde
a pesar de su belleza implacable.
[Latitudine dei sogni – Una se ne sta tranquilla / in un alberghetto di Saint-Malò / la costa smeraldo di antichi corsari / davanti al mare, insomma, esposta. / E di colpo batte il Pacifico splendido / la brezza alimentata di eucalipti / sulla riva di un ricordo indelebile / dove albergò la piccola felicità / che regge le vertebre della vita. / Dove si conserva il mare che ci apparterrà per sempre? / In quale organo si occulta dopo tanti viaggi? / In quale viscera ulula la bestia dei ricordi? / L’infanzia che sgorga tra le onde / dalla finestra di un esilio che incessantemente ci avvolge / con le sue piccole mani ora. / Sassolini che raccoglievo con tutto quello che trovavo / nelle piccole tasche rotte. / Una se ne sta tranquilla / a camminare sulla sabbia, / ma le scarpe rallentano col loro peso. / Tanta vita camminata! / Anche se i piedi vogliono staccarsi da terra / confondersi con il blu. / E in fondo uno sa / che tutto è illusione / il qui e il là nel corpo. / L’unica verità è il dolore, / il taglio fastidioso / che ha fatto il filo di un ciottolo nella scarpa sinistra, / il tallone ferito che impedisce talora di avanzare / che va e viene / come l’onda che morde / malgrado la sua bellezza implacabile. – traduzione di R. Bovaia]
Un’epifania che sposta repentinamente (de pronto) nello spazio e nel tempo, dall’Atlantico bretone dell’attualità al Pacifico cileno dell’infanzia, la protagonista, che però non è “io” ma “una”, pronome indefinito, che sembra voler rendere universale l’esperienza individuale. Il primo verso (Una está tranquila) viene replicato al verso 19, dividendo in due metà quasi precise (18 e 16 versi rispettivamente) questa poesia che non contempla strofe, sottolineando la diversità e complementarietà delle due parti: nella prima la prevalenza della nostalgia, del ricordo indelebile, nella seconda il prevalere di un sentimento di disillusione (La única verdad es el dolor). Ma, ancora una volta, questa combinazione di temi che potrebbe ridursi a stereotipo letterario, viene invece declinata in forma del tutto personale: l’aggettivo piccola (pequeña felicidad v. 9 – che, detto per inciso, risulta simmetrico alle pequeñas tristezas di Abitata di memoria che apriva Paesaggio – pequeñas manos v. 16) e i diminutivi (hotelito v. 2; Piedritas v. 17; bolsillos v. 18) danno un colore più specifico a La infancia, protagonista indiscussa, insieme al mar (vv. 4 e 11) e ai suoi attributi (costa esmeralda v. 3; agua azul v. 5; olas v. 14), della prima metà del componimento. Ma attenzione, con la sua abile attitudine al trascorrere senza fratture, l’autrice, attraverso tre magnifici versi (La infancia que brota entre las olas / desde la ventana de un exilio que nunca para de envolvernos / con sus pequeñas manos ahora.) incastona la dolorosa esperienza personale dell’esilio in quella, singolare e al tempo stesso di tutti, dell’infanzia, in modo che del tutto naturalmente le piccole mani diventano (sottintese eppure presentissime) quelle che raccoglievano i sassolini sulla sabbia (anch’essa sottintesa e pronta ad apparire solo due versi dopo). Anche la seconda parte non lascia spazio ad un dolore astratto, ma lo rende concreto attraverso oggetti (scarpe, piedi, corpo, il filo di un ciottolo, scarpa sinistra, tallone ferito) ben definiti, icasticamente descritti. La similitudine del dolore “che va e viene come l’onda che morde”, offre la possibilità di una conclusione memorabile “a pesar de su belleza implacable.” (malgrado la sua bellezza implacabile.), che ci trafigge, ma inspiegabilmente – miracolo della grande poesia! – ci fa sentire più vivi, più felicemente umani in questo universo bello e terribile.
Vorrei anche rimarcare la funzione che viene attribuita al mare come elemento che unisce luoghi e persone distanti, che ritroviamo spesso nella poesia della scrittrice cilena, come in maniera esplicita nella prosa che apre Paesaggio (Soy como una pequeña isla comprometida con todas las aguas. También con las que unen tus pies a una orilla y los míos a la otra lejana. – Sono come una piccola isola legata a tutte le acque. Persino a quelle che uniscono i tuoi piedi a una sponda e i miei a un’altra lontana – Forastera del sur, traduzione di R. Bovaia, pp. 10-11).
Passiamo alla raccolta successiva Pájaros de la lluvia. 2007-2014 (Cardellini della pioggia, traduzione di Roberta Bovaia, Guanda, Parma 2015 – in seguito per brevità Cardellini) e leggiamo questa Rio Teno (Fiume Teno, Cardellini, pp. 20-21):
¿He dicho que alguna vez en mi infancia tuve un río?
Era el abrazo de la nieve en las arrugas de la tierra,
era el canto de las alturas para acercarse al valle,
era una de las formas del agua para poseer los maizales y las vides,
era mi costado al despertar de los veranos.
Eso era un tiempo largo que yo recuerdo.
Hace cuarenta años que ya no está más y mis veranos son otros,
algún símil ronroneo, debajo de mi almohada.
La tela frágil de la nostalgia se estremece.
Alguna aparición fugaz.
Un fantasma de agua en las riberas de mis sueños me despierta
y es el mismo río ingenuo que juega en la vertiente
con mi falda y mis sandalias.
[Ho mai detto che da bambina avevo un fiume ? / Era l’abbraccio della neve nelle pieghe della terra, / era il canto delle alture che degradavano a valle, / era uno dei modi in cui l’acqua penetrava i campi di mais e le viti, / era il mio fianco al risveglio dell’estate. / Era, quello, un tempo lungo che ricordo. / Sono già quarant’anni che non c’è più e le mie estati sono altre, / quasi un gorgoglìo, sotto il cuscino. / La stoffa fragile della nostalgia trema. / Un’apparizione fugace, / un fantasma d’acqua sulle rive dei miei sogni mi sveglia / ed è lo stesso fiume ingenuo che gioca sul pendio / con la mia gonna e i miei sandali. – traduzione di R. Bovaia]
Anche questa volta la composizione non si articola in strofe, ma si presenta come un’unica sequenza di tredici versi liberi, per la maggior parte molto lunghi. All’interrogativa del verso iniziale (domanda evidentemente retorica, quasi incipit di un racconto, di una favola. – La forma interrogativa, peraltro, ricorre spesso in questa raccolta, ma rivolta a se stessa, espressione di dubbio), fa seguito una sequenza anaforica di quattro versi che iniziano tutti con era, voce verbale del passato (Pretérito imperfecto, per la precisione) che viene ribadita anche nel verso successivo preceduta dal deittico Eso. A questo punto, con il sesto verso che si conclude non casualmente con la parola recuerdo, finisce la prima parte della poesia ed avviene un repentino cambio di tempo: dal passato del ricordo al presente della nostalgia, tenuti tuttavia insieme dalla ripetizione della parola veranos (estati – quinto e settimo verso), ma soprattutto da rio (fiume – primo e dodicesimo verso, oltre che nel titolo), che da elemento naturale si trasforma in Un fantasma de agua, l’ennesima personificazione di un oggetto, che gioca con mi falda y mis sandalias. Ancora oggetti quotidiani (gonna, sandali) che attraverso il possessivo ci fanno ritrovare la donna/bambina che parla in prima persona nel verso iniziale. E nel suo stile che unisce sempre astratto e concreto, Carmen ci regala questo verso memorabile: La tela frágil de la nostalgia se estremece. (La stoffa fragile della nostalgia trema.). Magnifico!
Sentiamo cosa dice a proposito della nostalgia – che si è più volte proposta come una delle chiavi della sua poesia – l’autrice in un’intervista del 7 marzo 2018: “La melancolía es el estado del alma del artista”, algo como esto dijo Lampedusa. Algo así sucede en el proceso de la nostalgia, que no es tristeza; es nostalgia. Un modo de ver la vida, un modo de rescatar la poesía, de sacarla de donde no existe, pero lo principal es que la poesía es mi modo de retratar el sentimiento. (“La malinconia è lo stato dell’anima dell’artista”, disse una cosa del genere Lampedusa. Qualcosa di simile accade nel processo della nostalgia, che non è tristezza; è nostalgia. Un modo di vedere la vita, un modo per salvare la poesia, per tirarla fuori da dove non esiste, ma la cosa principale è che la poesia è il mio modo di ritrarre il sentimento. – Carmen Yáñez: “Me gustaría ser esa voz que interprete el mundo de la mujer” intervista a cura di Eloy Rubio Carro, http://astorgaredaccion.com/not/17871/carmen-yanez-me-gustaria-ser-esa-voz-que-interprete-el-mundo-de-la-mujer-)
Va ancora sottolineato che il fantasma/spettro è un’altra delle figure che (con gli specchi, il cervo/a – simbolo di rinascita – la strega, il filo e tante altre) ritorna con frequenza nell’intera opera della scrittrice cilena.
Mi sembra a questo punto di poter affermare che nella poesia della Yáñez le figure di significato (similitudine, metafora, ecc.) prevalgano decisamente rispetto a quelle di suono (iterazione, rima, assonanza, ecc.), senza tuttavia cadere nell’ermetismo, conservando una leggibilità immediata che non è priva di profondità, tutt’altro. Come dice molto bene Roberto Deider, “(…) Paesaggio di luna fredda è un contenitore visivo nel quale – durante il quale – si accendono metafore dense e le immagini si susseguono come in un reportage allusivo, simbolico.” (R. Deider, Paesaggio di luna fredda in Poesia ’98: annuario, a cura di Giorgio Manacorda, Castelvecchi, Roma 1999, pag. 226). Una costante, dunque, che resta invariata da Paesaggio a Cardellini lungo l’arco di quasi venti anni, a testimoniare che questa poesia era già matura alla sua prima pubblicazione, avvenuta, come ribadito dall’autrice stessa (“La propia Carmen confiesa haber comenzado a publicar tarde, pasados sus cuarenta.” in Ernesto Sierra, Carmen Yáñez: entre un país y dos reinos, cit.), in età abbastanza avanzata, passati i quaranta.
Leggiamo ora queste parole di Gianni Minà (contenute in un articolo pubblicato non a caso l’11 settembre 2002, anniversario del colpo di stato in Cile): “Carmen Yanez ha fatto il cammino inverso: dall’impegno politico è approdata alla poesia alta riuscendo a inventarsi nelle due raccolte pubblicate anche in Italia (Paesaggio di luna fredda e Abitata dalla memoria edizioni Guanda) una lingua in versi limpida e straordinariamente flessibile, capace di rappresentare – come ha segnalato la motivazione del premio Guillen – “tutti gli aspetti della realtà: sia il dolore cosmico legato alla condizione umana che la violenza fisica subita dai prigionieri politici, sia “la pequenas tristezas” che il contorcersi del desiderio. In questo ribellandosi al dogma simbolista ed ermetico dell’oscurità o della purezza che ha condizionato gran parte della lirica del ‘900”. No, la poesia della Yanez è bella proprio perché impura.” (G. Minà, La poesia libera di Carmen Yanez, Il Manifesto 11/09/02 -http://www.giannimina.it/index.php?option=com_content&task=view&id=98&Itemid=70)
Donna intrepida, Carmen ha affrontato la morte uscendone viva, ma non illesa: ha perduto patria ed affetti, giungendo a costruirsi una seconda vita in un altro continente. Tuttavia, sconfitta ma non vinta, ha continuato a rischiare mettendo in gioco le sue passioni, camminando sul bordo dell’abisso con l’energia che le ha consentito di ritrovare il suo amore, ricostruire la sua famiglia, donando a noi ancora tanti magnifici versi.
Ed ecco che il suo libro più recente, Migraciones (Migrazioni, Guanda, Milano 2018) completa il lungo cammino che ha portato la scrittrice cilena a rendere universale l’esperienza particolare, a farci partecipi – in quest’epoca terribile in cui la pietà, la compassione, sembrano essere denigrate e bandite – delle sofferenze di un’umanità che è l’umanità vera, attuale, vittima di un sistema che schiaccia tutti in nome di un profitto dietro il quale non si riesce più a vedere nemmeno il volto feroce ma pur sempre umano di un padrone, ma solo anonime sigle finanziarie che sembrano non avere né luogo né consistenza fisica. La sua poesia riesce, ancora una volta, a ridare concretezza a quanto (fame, dolore, sofferenza, ma anche gioia, amore) rischia di trasformarsi in un’astrazione, in un mondo totalmente perduto nella realtà virtuale.
Il libro è suddiviso in due sezioni: la prima intitolata, appunto, Migrazioni (pp. 7-69), con una serie di poesie che, sin dal titolo (Emigranti, Iconografia dell’esilio, Carta d’imbarco, ecc.), denunciano la condizione tragica dell’emigrazione e dell’esilio; la seconda dall’evocativo titolo I fili delle cose (pp. 71-127), che si conclude, non a caso, con ¿La verdad? (La verità?) i cui versi finali sembrano cucire insieme alcuni degli elementi che abbiamo già incontrato (“Ma io la vedo, / Arriva a piedi dal passato / con i capelli al vento e i sandali. / Entra lenta nel mio sogno e posa / la sua ferita ai piedi della mia verità.”), ribadendo, ancora una volta, come l’astratta verità – volutamente con iniziale minuscola – sia riportata concretamente, attraverso oggetti e connotati fisici, alla verità dell’autrice, che non può e non vuole dimenticare la sua ferita e quella del suo popolo.
Leggiamo ora questa El hambre (La fame, Migrazioni, pp.10-13):
El miedo de la boca.
El piojo que se prende
al pelaje del acecho
ese lamento sostenido de la pobreza,
la frecuencia de la herida
que el desdén no ve.
Y nada, nada,
ese fallo injurioso es el origen y el fin,
una circular desesperanza
de la tierra infértil
donde ninguna semilla explosionó a la luz,
la garganta seca del deseo,
el naufragio eminente de la pertenencia.
El resplandor del aleteo acostumbrado al viento.
Maldita la hora álgida de embarcar.
Maldita la partida, y el corte mortal de la raíz.
Maldito dejar el otoño, el sol insustituible de la madre,
porque ha caído la última hoja
desde la rama de la desolación.
Maldita la hora triste de contemplar
con los ojos acuosos esa falda pobre del monte,
el conocido lecho donde se entregan confiados los sueños.
El hambre, el hambre,
ese viaje a las cavernas desconocidas de la tierra.
[La fame – La paura della bocca. / Il pidocchio che si attacca / alla pelle dell’agguato / al lamento sostenuto della povertà, / la frequenza della ferita / che il disprezzo non vede. / E niente, niente, / quel difetto ingiurioso è il principio e la fine, / una disperazione circolare / della terra sterile / dove nessun seme si spaccò alla luce, / la gola secca del desiderio, / il naufragio eminente / dell’ appartenenza. / Il bagliore dell’aleggiare abituato al vento. / Maledetta l’ora algida dell’imbarco. / Maledetta la partenza, e il taglio mortale della radice. / Guai ad abbandonare l’autunno, il sole insostituibile della madre, / perché è caduta l’ultima foglia / dal ramo della desolazione. / Guai a guardare nell’ora triste / con occhi acquosi la falda povera del monte, / il letto conosciuto dove si abbandonano fiduciosi i sogni. / La fame, la fame, / quel viaggio nelle grotte sconosciute della terra. – traduzione di R. Bovaia]
Sottolineerei immediatamente come, anche stavolta, in questa sequenza continua di ventiquattro versi, non ci troviamo di fronte a dichiarazioni generiche di solidarietà, ma la “fame” acquista una presenza concreta sin dagli inizi, in cui la bocca, il pidocchio, la pelle, la ferita, ci rendono vivi e prossimi questi migranti. La ripetizione (Y nada, nada, verso 7; El hambre, el hambre, verso 23), l’anafora (più potente nell’originale spagnolo con la sequenza di Maldita, Maldita, Maldito dei versi 15-17, rinforzata dal Maldita del 20) danno un tono quasi di laica disperata preghiera. Mi permetto di avanzare un dubbio circa la traduzione di ese (vv. 4 – 8 – 24) che l’ottima Bovaia rende con al e quel, ma che potrebbe essere altrettanto legittimamente questo, rendendoci molto più vicini il lamento, il difetto ingiurioso ed il viaggio. In ogni caso, balzano evidenti le ragioni della disperazione che spingono alla “maledetta” partenza, ragioni che solo il disprezzo si rifiuta di vedere.
La poesia che chiude la prima sezione, Resiliencia (Resilienza, pp. 68-69), ci mostra chiaramente il meccanismo costruttivo, fatto di continui slittamenti dal fisico al metaforico, così frequentemente utilizzato in tutta l’opera poetica; leggiamola:
Quebrada la testa,
impuesto el silencio,
solo la memoria buscó los pedazos a oscuras,
moviéndose entre llamas.
Mil veces quebrada,
greda vulnerable, tiesto,
contenedor de agua y vida.
Recicló su herida callando
y con dignidad pegó uno a uno sus dolores.
Indeleblemente.
[Rotta la testa, / imposto il silenzio, / solo la memoria cercò i pezzi al buio, / muovendosi tra le fiamme. / Mille volte rotta, / creta vulnerabile, coccio, / contenitore di acqua e vita. / Riciclò la sua ferita tacendo / e con dignità incollò uno sull’altro i suoi dolori. / Indelebilmente. – traduzione di R. Bovaia]
Ancora una volta non ci sono strofe, ma i punti dividono la poesia in quattro parti, la cui lunghezza si riduce progressivamente (vv. 1-4, 5-7, 8-9, 10). Dunque la testa che appare nella prima parte Quebrada/Rotta, diventa metaforicamente, grazie anche all’unica ripetizione (quebrada, v.5) contenitore di creta, che contiene acqua, ma anche vita (parole in strettissimo collegamento tra loro, quasi sinonimi). Nella terza parte herida (che, come abbiamo visto, è un topos nella Yáñez) richiama i due quebrada, così come callando/tacendo rimanda al silencio del secondo verso, mentre il verso successivo ci spiazza sostituendo la parola finale, annunciata da pegó/incollò, la parola che noi logicamente attendevamo, – che poteva essere pedazos/pezzi del verso 3 o tiestos/ cocci del verso 6 o un loro sinonimo, – con dolores/dolori, riuscendo così a riunire la testa e il contenitore di creta; così da avere non solo i due elementi, ma anche la relazione tra loro e con tutti gli altri ad essi correlati. Una poesia semplice, dunque, ma quante stratificazioni di senso si offrono al lettore attento! Ad esempio: ancora una volta presentissimi gli elementi basilari: fuoco (v. 4 llamas/fiamme), terra (v. 6 greda/creta, tiesto/coccio), acqua (v. 7 agua); e non è quasi il caso di sottolineare l’uso di alcune parole care all’ecologia, come Resiliencia (la Resilienza del titolo), Recicló (Riciclò, v. 8) e il conclusivo Indeleblemente (Indelebilmente, v. 10).
La seconda sezione richiederebbe una lettura ed un approfondimento che non trovano spazio in questa sede, come è purtroppo già successo per alcune raccolte meno recenti; me ne scuso con il lettore, ripromettendomi di tornarci su in occasioni future. Mi limiterò ad un ultimo argomento e ad una sola poesia tratta da I fili delle cose.
Veniamo quindi ad una domanda fondamentale: che funzione può avere la poesia? Carmen ha emblematicamente intitolato una sua vecchia poesia La poesia no sirve para nada (La poesia non serve a niente) concludendola con questo significativo distico: La poesia al menos sirve / para regarle las plantitas al futuro. (La poesia almeno serve / per innaffiare le piantine per il futuro). Nella citata dichiarazione di poetica dice: “En efecto; la poesía y la literatura en general no tiene respuestas y en eso reside la inutilidad de la poesía en un mundo delirante, estremecido por pasiones de poder, guerra y miserias, aturdido por la desinformación global, trivial e interesada de los dueños de la Tierra. Inútil sí, en el prisma miope.” (In effetti; la poesia e la letteratura in genere non hanno risposte e in ciò sta l’inutilità della poesia in un mondo delirante, scosso da brame di potere, guerra e miseria, stordito dalla disinformazione globale, triviale e interessata dei padroni della Terra. Inutile sì, nel prisma miope. – Poética, in kaleidoscopia cit., p. 10). Come non condividere queste parole lucide e appassionate, questa accusa senza scampo ai padroni della terra, ai signori della guerra?
Sintetizzando: la poesia ha una funzione catartica (“dolce vendetta”), innaffia le piantine per il futuro, si oppone al mondo delirante. Non male per una cosa inutile!
Ma concludiamo con quella che possiamo considerare la traduzione in poesia, attualizzata, della sua Poética (Poetica, Migrazioni, pp.112-113)
Puede observar las cosas invisibles,
aquellas que los otros no registran en sus prisa.
Como un gato se asoma a los tejados
y capta en las alturas
el latido de su calle.
Ronda desde ángulos sombríos los miedos parroquianos
y sus palabras abren a los otros las hebras de las cosas.
Camina lento bajo un cielo encapotado.
[Può osservare le cose invisibili, / quelle che gli altri non registrano per fretta. / Come un gatto si affaccia sui tetti / e capta da lassù / il polso della strada. / Da angoli bui bazzica le paure degli habituè / e le sue parole schiudono agli altri i fili delle cose. / Cammina lento sotto un cielo coperto. – traduzione di R. Bovaia]
Lasciamo dunque che la splendida poesia della Yáñez continui a schiuderci “i fili delle cose” – le piccole, quotidiane cose – abbandonando la fretta che ci opprime, e camminiamo anche noi lentamente sotto la coperta nuvolosa o stellata del cielo, magari in compagnia di un gatto, di una strega o di un amabile fantasma.
Giancarlo Cavallo
* Nell’articolo opere pittoriche di Sebastian Matta, cileno.
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