Comincio con trepidazione questo percorso nella poesia di Francisca “Paca” Aguirre (Alicante 1930-Madrid 2019). Comincio con compassione di orfano, figlio di un’orfana che conobbe il collegio e gli stenti. Comincio con la consapevolezza di quanto ogni singola parola di Francisca sia cresciuta innaffiata dal pianto, cullata dal canto e curata con materna sapienza. Comincio con negli occhi l’immagine dolce di Regina che offre il braccio a Paca per aiutarla a scendere le scale, in un incontro di tanti anni fa (Salernopoesia, Incontri internazionali di poesia, Salerno 2004). L’ultimo, fugace – per la mia ansia di ritornare a casa da Regina gravemente ammalata – incontro avvenne a Baronissi nel 2015 (La poesia resistente! Incontri internazionali di poesia, Baronissi, 1-3 maggio 2015). In quell’occasione avvenne la conoscenza di Francisca con Erri De Luca, che volle omaggiarla pubblicando una poesia della poetessa nel suo sito (http://fondazionerrideluca.com/web/scarpe-e-lacci/).
Il lettore italiano ha la fortuna di accedere a due fondamentali titoli dell’opera dell’Aguirre: “Paesaggi di carta” (cura e traduzione di Raffaella Marzano e Guadalupe Grande, Multimedia, Baronissi 2012) e “Specchio specchio” (traduzione di R. Marzano, Multimedia, Salerno 2018). Consiglio vivamente quest’ultimo, autobiografico libro, al lettore che voglia approfondire la vicenda tragica – eppure ricca di musica e poesia – dell’autrice che, nel caso della poetessa spagnola, riveste un’importanza fondamentale, come vedremo in seguito (“Prima di qualsiasi tentativo di interpretazione della sua poesia, dovrebbe essere letto quel mazzolino di ricordi perché la sua lettura spiega bene la vena esistenzialista che attraversa il suo percorso poetico dal principio alla fine.” – José Jurado Morales, El discurso cívico y humanizado de Francisca Aguirre, in Ámbitos (Revista de Estudios de Ciencias Sociales y Humanidades) n. 29, Córdoba 2013, p. 34, https://helvia.uco.es/xmlui/bitstream/handle/10396/11778/Ambitos_29_04.pdf?sequence=1&isAllowed=y).
Si possono anche leggere ed ascoltare alcune sue magnifiche poesie in Potlatch (https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/francisca-aguirre-frontiera-frontera/; https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/francisca-aguirre-come-difficile-que-dificil-resulta/; https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/nessuno-sa-cosa-siano/; https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/francisca-aguirre-lultimo-dei-mohicani-el-ultimo-mohicano/ ; https://www.potlatch.it/poesia/salva/francisca-aguirre-ninnananna-dello-scarto/).
Nel 2016 è stato altresì tradotto e pubblicato Itaca (cura e traduzione di Brigidina Gentile, Arcoiris, Salerno 2016), volume di cui non mi occuperò in questo scritto, anche perché proprio su quel primo libro è già disponibile una consistente letteratura (cfr., ad es., una interessante analisi di Itaca in Rosa Marina Sáez, El mundo clásico en la poesía de Francisca Aguirre in Nova et vetera : nuevos horizontes de la Filología latina, Vol. 2, 2002 , pp. 751-759. https://www.academia.edu/30879647/El_mundo_cl%C3%A1sico_en_la_poes%C3%ADa_de_Francisca_Aguirre ; Wilcox, John C. “A Reconsideration of Two Spanish Women Poets: Angela Figuera and Francisca Aguirre,” Studies in 20th Century Literature: Vol. 16: Iss. 1, Article 5. (1992) pp. 78-81 –https://doi.org/10.4148/2334-4415.1291; cfr. anche un’ampia tesi di fine master relativa alla Aguirre: Lorena Culebras Carnicero, Memoria y poesía, Universitat de les Illes Balears, Palma 2013, http://ibdigital.uib.es/greenstone/collect/memoriesUIB/index/assoc/Culebras.dir/Culebras_Carnicero_Lorena.pdf, in particolare pp. 80-91).
Mi preme sottolineare che Paesaggi di carta (in seguito per brevità Paesaggi) non è la traduzione di una silloge o una semplice antologia, ma un nuovo libro che, oltre ad un’interessante intervista all’autrice redatta dalla Grande, raccoglie e riassembla poesie tratte dai nove pubblicati in Spagna nell’arco di tempo che va dal 1972 (anno del tardivo e felice esordio con Itaca) al 2010, come il lettore può desumere dalla Nota biobibliografica (pp. 215-16), dando vita a cinque sezioni con propri titoli originali, che solo nel caso di Oficio de tinieblas (Mestiere di tenebre) utilizzano quello di una poesia inclusa nella sezione. Questi titoli contribuiscono immediatamente a evidenziare alcune caratteristiche della poesia dell’Aguirre, in particolare il primo, l’ossimorico Mitos en el pasillo (Miti nel corridoio), ma anche l’ultimo Anversos y reversos (Diritti e rovesci) che, tra i vari significati, credo rimandi anche al lavoro a maglia con i ferri. Perché se è vero, come più volte ha affermato l’Aguirre, che la lettura di Kavafis “le dio la vuelta a lo que yo creia que era la poesia.” (“ha cambiato quello che pensavo fosse la poesia” – Noni Benegas, Francisca Aguirre: las palabras y la memoria historica son mis dos grandes amores, intervista, Edición digital a partir de Campo de Agramante: revista de literatura, núm. 22, 2015, p. 91 – http://data.cervantesvirtual.com/manifestation/736751 – salvo diversa indicazione, le traduzioni dallo spagnolo sono mie), facendola passare dai romantici ai classici e inducendola a distruggere tutto quel che aveva scritto fino ad allora, è altresì vero che Itaca “Rivede il mito con una visione femminile e questa è stata una tecnica che molte altre usavano anche per cambiare la tradizione.” – Ángel Salguero, Francisca Aguirre y su vuelta a ‘Ítaca’, www.poetica2puntocero.com/francisca-aguirre-regresa-itaca/ , 2017;).
Tale tecnica era stata già evidenziata da María Luz García Lesmes: “Con Mujer de barro (1948) di Ángela Figuera, Eva en el tiempo (1952) di María de Beneyto e Esta mujer que soy (1959) di Susana March si inaugurò una linea ininterrotta fino ad oggi di reinterpretazione dei miti da parte delle poetesse. Da allora fino ai nostri giorni non sono cessate di apparire raccolte di poesie scritte da donne costellate di personaggi mitologici provenienti da varie culture. Odisea definitiva: Libro póstumo (1984) di Luisa Castro, Ginebra en bruma rosa (1989) di Neus Aguado, El Don de Lilith (1990) di Andrea Luca, El libro de Lilith (1996) di Guadalupe Grande servono da esempio.”, M. L. García Lesmes, Penélope o la mujer isla. Mito y verdad en Ítaca de Francisca Aguirre, in Con voz propia: la mujer en la literatura española de los siglos XIX y XX. Burgos, Junta de Castilla y León. Fundación Instituto Castellano y Leonés de la Lengua, 2006. Pp. 315-324. – https://www.academia.edu/38986657/Penelope_o_la_mujer_isla_Mito_y_verdad_en_Itaca_de_Francisca_Aguirre_20190430_74282_akqnv8). Ma soprattutto, e questo aspetto mi pare di fondamentale importanza, il mito si intreccia con il quotidiano (il corridoio) in una commistione di alto e basso, di letterario e realistico, che Francisca giustamente rivendica: “No solo es que crea que se pueden mezclar la alta cultura y lo popular, es que creo que se debe hacer, que no hay mas remedio que hacerlo, que lo contrario seria un disparate.” (Non solo credo che si possano mescolare la cultura alta e il popolare, ma penso che si debba fare, che non c’è altra scelta che farlo, che il contrario sarebbe una sciocchezza. – F. Aguirre in N. Benegas, cit., p. 100).
Inoltre, la Aguirre utilizza il verso libero, sicuramente non ascrivibile alla tradizione classica, che le consente di modulare la propria voce con le inflessioni e le cadenze che più le si confanno.
Libertà metrica e strutturale che, mi sembra di poter affermare, caratterizzano l’intera opera dell’alicantina, pronta ad utilizzare le più varie misure, dalle brevissime alle irritualmente lunghe, dai versi a scalino fino al poème en prose (ad es.: Los maestros cantores, 2000), con la sola eccezione dei trentadue canonici sonetti di Los cantos de la troyana (1996).
foto di Salvatore Marrazzo
Venendo finalmente ai testi, mi sembra necessario iniziare con Oficio de tinieblas, splendida poesia dedicata A Félix (Félix Grande, poeta e musicologo, marito di Francisca), che ci offre un’acuta, appassionata ed esemplare riflessione sul proprio “mestiere”:
Composizione di venticinque versi liberi di varie misure, senza suddivisione in strofe, un ritmo incalzante segnato dall’anafora iniziale (Este oficio tre volte nei primi sei versi, cui fanno eco i due Qué oficio ribaditi da qué hermoso oficio negli ultimi cinque versi) e dalle numerose iterazioni (tan, defender, ecc,), franto dalle esclamazioni (Dios mío, Señor – evidenziato dal verso a scalino – e i quattro versi che precedono e introducono quello finale), impreziosito dagli ossimori tan ambicioso como escaso e tan humilde y ambicioso che quasi si specchiano nella parte iniziale e in quella finale della composizione. E la geminatio di palabras alla fine del diciannovesimo verso immediatamente ripreso e rilanciato all’inizio del verso successivo, Palabras, con sapienza musicale. Un contrasto continuo tra tenebra (tinieblas, sombras, vísceras) e luce (luz, astro, constelación), segno di un’aspirazione verso una meta desiderata e forse irraggiungibile (meta inalcanzable). Ecco, qui e là, con discrezione, apparire gli attrezzi da lavoro, come in ogni mestiere che si rispetti: la mirada y el verbo, onomatopeyas, sílabas, palabras. Infine, la poesia si conclude con la dichiarazione d’amore per il proprio mestiere del distico finale: qué hermoso oficio/ para dejarse en él la vida entera. Una magnifica iniezione di fiducia per tutti coloro che amano (e “odiano”) questo mestiere, fino a farne una ragione di vita (e vida è forse la parola più ricorrente in Paesaggi, quasi 70 volte contro appena una ventina di muerte). Terrei anche da conto questa osservazione di Mengaldo: “[…] sono comuni nella lirica europea le chiuse enfatiche, cioè con esclamativo (soprattutto nella Spagna moderna, da Bécquer a, per esempio, Alberti).” (P.V. Mengaldo, Com’è la poesia, Carocci, Roma 2018, p. 69). E Alberti è poeta nient’affatto sconosciuto alla Aguirre, come pure Bécquer, come si può verificare in Specchio, specchio.
Accennavo in precedenza alla vicenda tragica che ha segnato in maniera indelebile l’esistenza di questa scrittrice, eccola di seguito narrata con mirabile sintesi dalla figlia, anch’essa poeta, Guadalupe Grande: “Lorenzo Aguirre, padre di Francisca Aguirre, fu pittore, repubblicano e massone, e fu funzionario impegnato in un governo legittimamente costituito. Credeva nella Repubblica e credeva nell’Istituto del Libero Insegnamento. E lavorò per il governo della Repubblica fin quando fu possibile. E seguì quel governo in esilio. Prima a Parigi, poi a Le Havre, quando la guerra fu considerata perduta. Cercava una nave e al suo posto arrivò il nazismo che si diffuse come la peste nel medioevo. Tra la repressione del nazismo e la repressione franchista, scelse di tornare in Spagna dove erano già tornate sua moglie e le sue tre figlie. Fu giustiziato con la garrota nel 1942. Aveva 58 anni. Restarono come polpa senza osso, una vedova e tre orfane senza altro scopo che essere testimoni. E così attraversarono l’interminabile dopoguerra che, in Spagna, ancora continua a veder crescere i suoi interminabili rami.” (G. Grande, Testimonianza e ritardo, in Specchio, specchio, cit., p. 5).
Oltre che nella citata autobiografia Espejito, espejito (Madrid 1995), questa terribile esperienza è ricordata (e vorrei dire rivissuta) in alcune magistrali poesie, come El último mohicano e Los trescientos escalones, tra le altre. Ma in queste poesie non è l’odio per chi ha causato tanto dolore a prevalere, bensì il ricordo e l’amore per le persone e le cose che hanno consentito a lei ed alle sue due sorelle (Susy e Margara, tra l’altro dedicatarie della poesia che dà il titolo al libro Paesaggi di carta) di superare una prova tanto ardua: il ricordo del padre, la madre, la nonna, i libri, la musica, la radio. A riprova di quanto appena detto, riporto i versi conclusivi di El último mohicano:
Mamá nos trajo El último Mohicano
y de la mano de ese indio solitario
entramos en el mundo de lo maravilloso
y lo tuvimos todo para siempre.
Y ya nadie podrá quitárnoslo.
[Mamma ci portò L’ultimo dei Mohicani/ e mano nella mano con quell’indio solitario/ entrammo nel mondo del meraviglioso/ e avemmo tutto per sempre.// E mai nessuno ce lo potrà togliere. – L’ultimo dei Mohicani, in Paesaggi, cit. pp.52-53]
Anche se in maniera appena abbozzata, si è evidenziato un primo tema portante della poesia dell’Aguirre: una diuturna, instancabile lotta contro quella specie di damnatio memoriae che aveva colpito il padre, e con lui tanti altri che credevano nei valori della Repubblica (“Con la sua morte fisica inizia nell’ottobre 1942 la condanna a una «morte civile», secondo le parole della poeta, con la censura della sua persona e opera in manuali di pittura e enciclopedie.”, J. Jurado Morales, cit., p. 35). Lotta difficile e pericolosa, considerato che la dittatura franchista, con la sua repressione e i suoi orrori, è durata fino al 1975. Tuttavia, la testimonianza era imprescindibile ed è diventata esplicita non appena è stato possibile, per durare per tutta la vita, come il segno indelebile di una ferita assurda. (sugli aspetti “civili” cfr. J. Jurado Morales, cit., pp. 33-39).
Lorenzo Aguirre, “La espera”, 1919
Tuttavia, per valutare compiutamente l’opera della nostra autrice, sottolineerei queste parole di Jurado Morales: “Questi riferimenti ai poemi Ítaca, La otra música e Los maestros cantores o paratesti rivelano che i miti, la letteratura e la musica formano un substrato culturale che dota la poesia di Paca Aguirre di referenti universali e senza tempo che allargano la motivazione puntuale e personale della sua gestazione e ne arricchiscono la portata.” (J. Jurado Morales, cit., p. 36). Quindi occorre proseguire analizzando anche le altre componenti del summenzionato substrato culturale.
In relazione alla letteratura, davvero troppi sono i poeti e gli scrittori a vario titolo citati in Paesaggi e Specchio, specchio, – frutto di copiose letture e di una convivialità che fece della casa di Félix e Paca per lunghi anni il luogo dell’incontro letterario e amicale – che è impossibile stabilire quali siano stati davvero determinanti per l’opera dell’Aguirre. A parte alcune decisive letture infantili (L’ultimo dei Mohicani e Alice nel paese delle meraviglie su tutti), credo sia doveroso ricordare, con il succitato Kavafis, di sicuro Antonio Machado, affettuosamente chiamato in due poesie antologizzate in Paesaggi “don Antonio”, i cui versi sono frequentemente (circa trenta volte) citati in Specchio, specchio, testimonianza di un legame profondo col grandissimo poeta morto in esilio. (“Come per gli altri poeti del Cinquanta, Antonio Machado sembrerebbe l’autore più caro alla poetessa di Alicante, che nella sua opera ritrova consigli, riflessioni «para bien vivir, para bien pensar y para mejor escribir»”, Marco Federici, L’arte come rifugio e presa di coscienza: un approccio alla poesia di Francisca Aguirre, in A. Guarino, Le geometrie dell’essere. Identità, identificazione, diversità nella recente letteratura spagnola, Napoli, Pironti, 2014, p. 175. –https://www.academia.edu/11868343/Larte_come_rifugio_e_presa_di_coscienza_un_approccio_alla_poesia_di_Francisca_Aguirre. Una breve rassegna delle letture di formazione in idem, p. 169 e in N. Benegas, cit., p. 91). Va comunque ricordato che un intero libro, Los maestros cantores, è costituito da testi in cui dialoga con i suoi scrittori preferiti (in Paesaggi quelli dedicati a Kafka pp. 92-93, Rosalía de Castro pp. 100-101, Fernando Pessoa pp.104-105, ed agli Anonimi pp.110-111). Significative, infine, la sua partecipazione agli incontri letterari dell’Ateneo di Madrid diretti dal poeta José Hierro, e le collaborazioni con Luis Rosales e Dámaso Alonso.
Felix Grande e Francisca Aguirre (1964)
Inevitabili direi, per lei figlia di un pittore e moglie di un poeta, musicista e noto musicologo, le corpose presenze di riferimenti alle arti visive ed alla musica (per quest’ultima cfr.: M. Federici, cit. pp. 167-185), dalle semplici dediche (a Klee, ad Hopper, ad es.) fino ad un’intera raccolta consacrata alla musica (La otra música, Madrid 1978); tuttavia, a mio avviso, sarebbe più interessante indagare su quanto queste abbiano inciso ad un più profondo livello testuale (struttura, lessico, fonetica, ecc.). Mi limito a constatare che, in Paesaggi, le parole riconducibili alla pittura (quadro, colori, dipingere, pennelli, ecc.) sono alquanto scarse (con la sola, rilevante, eccezione di Los trescientos escalones), mentre la parola “musica” – a cui è intitolata l’intera sezione Música de las esferas – ricorre circa cinquanta volte (e molti e frequenti sono i sostantivi appartenenti a quell’area semantica: canción, canta, guitarra, clavicordio, violonchelo, orquesta, ecc.), ma questo sarebbe un freddo dato statistico, che poco aggiunge alla nostra conoscenza delle poesie in questione. Semanticamente più rilevante appare la poliedrica caratterizzazione della musica: che è innanzitutto La otra música (L’altra musica), quella ritenuta meno nobile in quanto popolare, come il Flamenco – “El titulo del libro lo dice todo. Se trata de “la otra musica”, esa musica que todavia no es admitida en los conservatorios: “El flamenco” o “Cante jondo”. (Il titolo del libro dice tutto. Si tratta de “l’altra musica”, quella musica che ancora non è ammessa nei conservatori: “Il flamenco” o “Cante jondo”. F. Aguirre in N. Benegas, cit., p. 98 – ma va segnalata almeno la notevole eccezione de “l’ultimo movimento della sinfonia di Schubert” in Nosotros, Paesaggi, pp. 84-85). Ma è anche, di volta in volta, infinita (Música de la distancia); mentirosa, impostora, delincuente (Música mentirosa); la música no es solamente dulce,/ la música no siempre consuela:/ también araña y desmenuza, [a volte graffia e sminuzza]/ también arranca y descompone. [a volte sradica e decompone] (Música de la huida); manto de música apagada [sorda] (Música de la sombra); música de espanto [orrrore] (La otra música); Música depredadora [predatrice]; Mar de música; serpiente, fiera [belva] (Música del fondo); siembras música azul en las heridas (semini musica azzurra nelle ferite, in La visita); Sin pasado y sin música, vivir es sólo un hecho [fatto] (Triste asombro); escondida en la música, la vida/ cuenta la historia de su amor secreto. (Pavana del desasosiego); y la música tiembla en el azogue [mercurio]/ como una mariposa deslumbrada. [farfalla abbagliata] (idem). Da questa parziale rassegna credo di poter dedurre che la musica appartenga alla sfera dionisiaca (e non a caso il libro La otra música ha una citazione di Nietzsche: «Sin música la vida sería un error»), portando in sé la duplice cifra dell’estasi e del mistero. Tuttavia, coerentemente con la visione del mondo dell’Aguirre, la musica è artigiana e rammenda con ago, filo e ditale, i buchi della lontananza (Música de la distancia, in Paesaggi, pp. 116-117), facendoci tornare col pensiero a Penelope e al suo tessere, al tempo stesso reale e metaforico (cfr. Wilcox, cit., pp. 83-84). Ma vorrei aggiungere altresì che la musica sembra l’unico rimedio ad una sorta di pessimismo cosmico che scorgiamo in alcune poesie tarde (ad es.: El mapa de los cielos se parece…, in Paesaggi, pp. 134-135).
Tante e varie sono le definizioni in Flamenco – ovviamente dedicata A Félix, autore tra l’altro del saggio Memoria del flamenco, 1995 – che preferisco riportarla interamente qui di seguito:
De la tierra,
esa música viene de la tierra,
viene de la contienda, del asalto,
del oscuro atropello
de las arterias del planeta.
Viene de la preponderancia del fuego,
del confuso lenguaje de los yacimientos,
del desconsuelo de los minerales.
Esa música es ciega como las raíces
y es terca como las semillas.
Sabe a tierra como la boca de un cadáver,
viene y es de la tierra:
redobla a geología.
Esa música es parda como la corteza,
compacta como los diamantes.
No dictamina:
sólo muestra la voraz certidumbre de lo vivo,
el vértigo que va desde el sustrato
a la calamidad que grita.
Esa música narra el agujero
que delata en los hombres su ascendencia.
Esa música es toda ese agujero,
un sordo abismo que reclama
la primer soledad,
el primer llanto en la primera noche.
[Flamenco// A Félix// Dalla terra,/ questa musica viene dalla terra,/ viene dalla contesa, dall’assalto,/ dall’oscuro sopruso/ delle arterie del pianeta./ Viene dalla preponderanza del fuoco,/ dal confuso linguaggio dei giacimenti,/ dallo sconforto dei minerali./ Questa musica è cieca come le radici/ ed è cocciuta come i semi./ Sa di terra come la bocca di un cadavere,/ viene ed è della terra:/ raddoppia geologia./ Questa musica è scura come la corteccia,/ compatta come i diamanti./ Non dà giudizi:/ solo mostra la vorace certezza di ciò che è vivo,/ la vertigine che va dal sostrato/ alla calamità che grida./ Questa musica racconta il buco/ che degli uomini denuncia gli antenati./ Questa musica è tutta quel buco,/ un sordo abisso che reclama/ la prima solitudine,/ il primo pianto nella prima notte. – Paesaggi, cit., pp. 124-125, traduzione R. Marzano- G. Grande]
Vorrei innanzitutto sottolineare l’evidente similitudine con Mestiere di tenebre e, dunque, il legame strettissimo tra la poesia e la musica, in particolare il Flamenco: l’appartenenza di entrambe ad un mondo ctònio (oscuro, giacimenti, radici, ecc.) dal quale vengono alla luce (come i semi, il primo pianto). Anche qui il ritmo è dato dall’anafora (Esa música ripetuto ben cinque volte), dall’iterazione di viene e della preposizione articolata del/ de la nella prima parte (vv. 1-8), che nella seconda parte vengono sostituiti da verbi (es, muestra, narra) che affermano non più la provenienza, ma l’essenza o l’azione di questa musica, quasi personificata; nella parte finale (vv. 20-25) la ripetizione di agujero in fine di verso (a sottolineare l’importanza di questa parola) e, nell’ultimo distico, ben tre volte primer(a) creano una sorta di martellato finale estremamente incisivo. Interessante anche il parallelismo tra l’annegato di Mestiere e il cadavere di Flamenco: entrambi, uno con lo sguardo, l’altro con la bocca, sembrano indicare la direzione che porta dalle tenebre all’irraggiungibile luce. Direi quindi che questa musica è più che personificata, assume una dimensione ontologica riportandoci alle origini (la prima solitudine,/ il primo pianto nella prima notte.).
Vorrei adesso concentrare la mia attenzione sulle Nanas (Ninnananne), che, originariamente raccolte in un unico volume (Nanas para dormir desperdicios, Madrid 2007), in Paesaggi sono state disseminate nella seconda, terza e quinta sezione, quasi a fare da contrappunto alle altre poesie. Genere musicale e popolare, forse il più umile e il più legato alla sfera dell’infanzia, la ninnananna si fonda sulla cantilena e sulla ripetizione quasi ipnotica per indurre il sonno. Ma, come è ovvio, in questo caso si tratta di ninnenanne molto particolari. Sin dai titoli delle otto nanas inserite (Ninnananna degli avanzi, dei lacci, dei libri vecchi, delle bucce di patata, dello scarto, del groviglio di filo, delle cicatrici, dei residui) sembra delinearsi una poetica che valorizza il marginale, il residuale, che ci parla delle privazioni e delle ferite, ma con leggerezza, con lo sguardo meraviglioso di chi sa che tutto può tornare utile per la sopravvivenza e per la poesia.
“[…] l’umorismo in Paca, comincia come ironia con la sua punta di amaro, e culmina nelle sue ultime prove, già nel XXI secolo in due libri deliziosamente caustici Nanas para dormir desperdicios e Historia de una anatomia del 2007 e 2010, rispettivamente. In Nanas, Paca genera un nuovissimo inventario della perdita attraverso il residuo o resto che secerne la ferita dopo il taglio”, N. Benegas, cit., p. 89).
Evidenzierei nei titoli citati l’utilizzo di tre termini simili (sobras avanzi, desperdicios scarti, residuos residui), che non sono semplici sinonimi, non sono affatto identici, ma sono chiaramente distinti (soprattutto gli ultimi due in Nana de los residuos). “[…], esos tres sustantivos pertenecen al mundo de la ironía , pero tambien al mundo de la libertad; es decir: dentro del poema, el lector tiene la libertad de elegir lo que mas cercano le sea. La eleccion es casi infinita. Yo lo que hago es confesarle al lector que la vida es tan confusa que dentro de ella cabe todo, y que algunas cosas que creiamos que eran joyas no son mas que baratijas, mientras que algo que nos parecia de hojalata era de oro, o algo que creíamos que era una piedra era un diamante”. ([…] questi tre sostantivi appartengono al mondo dell’ironia, ma anche al mondo della libertà; cioè, nella poesia, il lettore ha la libertà di scegliere ciò che gli è più vicino. La scelta è quasi infinita. Quello che faccio è confessare al lettore che la vita è così confusa che dentro ci sta tutto, e che alcune cose che credevamo fossero gioielli non sono altro che gingilli, mentre qualcosa che ci sembrava di latta era d’oro, o qualcosa che pensavamo fosse una pietra era un diamante. – Francisca Aguirre in N. Benegas, cit., p. 100).
Proviamo adesso a leggere l’ultima tra le ninnenanne antologizzate in Paesaggi, ossia Nana de los residuos:
Ninnananna dei residui – Quasi tutto lascia dei residui./ Quasi tutto, perché ci sono cose che si rifiutano./ Quello che certamente hanno i residui/ è la grande varietà./ E questa varietà dipende dall’altro./ Perché ci sono cose intangibili,/ che lasciano residui intangibili./ Per contro, ci sono cose così dense, così spesse,/ che lasciano residui come il piombo./ La disgrazia è di piombo/ e l’allegria è trasparente.// Con i residui accadono cose molto strane:/ all’inizio ispirano poco rispetto,/ tendiamo a considerarli come scarti./ E c’è da dire che, in genere, lo sono,/ ma è altrettanto certo che/ la varietà suole definirli./ Perché l’altro marca una distanza,/ un modo ingovernabile di esistere/ e persino di scomparire./ Le illusioni sono un buon esempio:/ appartengono al mondo residuale dell’utopia,/ ma a volte sembrano figlie della Legge,/ implacabili guardiane./ Lo scarto propriamente detto/ è meno appiccicoso del residuo./ Il residuo ha un che di conclusione,/ e che resiste a scomparire,/ e tuttavia inspiegabilmente si impegna ad esaurirsi./ Forse per questo il residuale ci sembra essere tanto.// Qualche volta dovemmo essere qualcosa di completo/ e ora siamo questo residuo,/ questo rimpianto di quel brandello o scarto/ che un tempo/ noi contemplammo intatto. – Paesaggi, cit., pp. 204-205, traduzione di R. Marzano – G. Grande].
Ciò che colpisce immediatamente in questa composizione di trentacinque versi liberi, divisi in tre strofe asimmetriche (11, 19 e 5 versi rispettivamente), è l’uso insistito del verso a scalino (ben 10): credo sia la ricerca di un ritmo ondulatorio, una maniera di simulare il cullare che viene accompagnato dalla ninnananna; tale ipotesi viene confermata dalla presenza di questo tipo di verso in tutte le nanas. Inoltre, nella prima strofa, c’è un uso particolare dell’iterazione che ricorda quello tipico di filastrocche e ninnenanne: dalla semplice ripetizione dell’incipit del primo verso a inizio del secondo (Casi todo) si passa, infatti, alla ripresa del finale nel verso successivo (variación/ variación, intangibles/ intangibles, plomo/plomo), fenomeno che si ritrova solo una volta nella strofa seguente (el residuo/El residuo). Non sorprende che la parola residuo sia ripetuta molte volte (4 nella prima strofa, 3 nella seconda e 1 nella terza), ma si passa dalla forma plurale che costituisce il totale della prima strofa più la prima occorrenza della seconda, a quella singolare delle ultime tre ricorrenze. La prima strofa ci presenta una definizione del residuo che termina con l’accostamento imprevedibile con sostantivi astratti (desdicha, disgrazia; alegria), insinuando un dubbio sul reale oggetto di cui si sta parlando. Nella seconda strofa tornano due importanti sostantivi: variación (varietà) e otro (altro). Sostantivi che introducono di nuovo elementi astratti come ilusiones (illusioni), utopía, Ley (Legge). Quindi troviamo la raffinata distinzione tra scarto e residuo cui si è accennato in precedenza, attribuendo al residuo l’attributo pegajoso (appiccicoso), che ritroveremo in altro contesto, e una caratteristica contraddittoria: resiste a scomparire e, allo stesso tempo, “inspiegabilmente si impegna ad esaurirsi”. L’ultima strofa ci fornisce una chiave per comprendere, almeno in parte, i paradossi delle strofe precedenti: i primi due versi affermano inequivocabilmente che noi siamo il residuo di un intero che una volta fummo. Mi viene in mente, ma probabilmente sbaglio, il mitico androgino immortale della tradizione ermetica. Ma, sicuramente, si riscontra il rimpianto di un paradiso perduto, di una condizione edenica, forse di un’infanzia mitizzata. Dunque, la frequenza del verso a scalino, spezzato, oltre che un artificio ritmico, potrebbe costituire il sintomo di questa unità perduta.
Ancora una volta, nella lirica seguente, senza titolo ma con dedica (raro, ma non eccezionale), protagonista è un oggetto estremamente umile, la cipolla, in un singolare parallelismo con un sostantivo astratto e forte, odio; tuttavia, al contrario di quanto accade nelle nanas in cui il residuo, lo scarto, acquista valore anche per l’accostamento a termini astratti (le illusioni, l’utopia), qui il procedimento si inverte ed è l’odio a diventare una cosa meschina, una cipolla al mercato:
A Ricardo Bellveser
Qué difícil resulta separar, una a una, las capas de la cebolla.
Se adhieren entre sí con una fina telilla
que las unifica y conjunta de manera tenaz.
Cuando intentamos separarlas,
las lágrimas acuden a los ojos.
Así el odio se pega de manera indeleble a ciertos corazones
y resulta imposible retirar esa membrana pegajosa
del órgano que la genera
y hace de ella un vínculo con los enamorados de la muerte.
No lamenta su suerte la cebolla,
ni la conmueven nuestros torpes lágrimas.
Un corazón ahogado por el odio,
envuelto en su coraza transparente,
no es más que una cebolla en el mercado,
un vegetal dispuesto a provocar las lágrimas.
Da lo mismo la mano que lo roce:
él no hace distinciones, no le incumben,
tiene un destino cierto que cumplir:
aniquilar la vida para que brote el llanto.
No lamenta su suerte la cebolla ni la lamenta el odio.
Cumplamos, pues, también nuestro destino
y lloremos con impotencia la desgracia
de ver cómo florecen las cebollas
entre los tristes muros de la patria.
Suddivisa in quattro strofe asimmetriche (rispettivamente 5, 4, 10 e 5 versi), di cui la prima sembra una quasi banale constatazione culinaria relativa alla cipolla e alle sue proprietà, però subito ribaltata dalla successiva, la più breve, in cui compaiono i sostantivi odio, cuori e morte, a chiarire immediatamente il peso esistenziale del parallelismo. Anche qui ritroviamo l’aggettivo pegajoso, che ribadisce il verbo se pega del verso precedente, in una sorta di figura etimologica, descrivendo per analogia il modo in cui l’odio si attacca ai cuori. La strofa successiva è caratterizzata dalla ripetuta presenza di negazioni (No, ni, no, no, no), che danno una tonalità grigia all’intera strofa, peraltro rafforzata dalle parole lágrimas (due volte) in posizione forte in fine di verso e llanto a chiusura della strofa. L’ultima si apre con due negazioni (No, ni) nel primo verso che accompagnano entrambe il verbo lamenta, prologo ai successivi lloremos, impotencia, desgracia, tristes che non lasciano equivoci sul senso della strofa e, più in generale, dell’intera poesia. Con raffinata abilità si compie il processo di identificazione tra la cipolla e l’odio, iniziato con una similitudine tra l’oggetto della prima strofa e quello della seconda, rafforzato nella terza, infine metaforizzato per sostituzione nell’ultima. Mi sembra di poter indicare questa come una lezione di poesia in cui l’eco di una vicenda personale si trasforma, attraverso la sublimazione, in un messaggio di valore universale.
Questa poesia (inserita nel volume La herida absurda del 2006) andrebbe comparata con la Nana del odio, non tradotta in italiano, in cui l’antidoto all’odio è la musica, – “el dulce ritmo de la música lo apaga, lo enmudece, lo reduce a silencio.” (il dolce ritmo della musica lo spegne, l’ammutolisce, lo riduce al silenzio.) – ribadendo, qualora ce ne fosse stato bisogno, il ruolo capitale che quell’arte ha nella sua poesia. La nana si conclude con questo verso emblematico: “Y confiar en que la música de la piedad sea contagiosa.” (E confidare che la musica della pietà sia contagiosa.). Ma la comparazione tra i due testi ci lascia semplicemente comprendere la grande duttilità dell’autrice, che sullo stesso argomento scrive due poesie totalmente diverse per struttura, lessico e, direi, perfino per tono, dove al pessimismo della prima si sostituisce il confiar, la speranza della seconda (e, forse, non è un caso che l’ultima parola dell’ultima poesia di Paesaggi sia proprio piedad).
Un rapido cenno, prima di concludere, va rivolto alla fortuna dell’opera di Francisca Aguirre: dapprima misconosciuta o sottovalutata (“Se il lavoro di Francisca Aguirre ha avuto poca attenzione, una ragione può essere il fatto che è sposata con Felix Grande (n. 1937) che – insieme con Angel Gonzalez (n. 1925), Jaime Gil de Biedma (1929-1990), Jose Angel Valente (n. 1929), Francisco Brines (n. 1932) e Claudio Rodriguez (n. 1934) – è stato un membro chiave del gruppo di poeti che ha dominato la scena poetica spagnola fino ai primi anni 1970.” – Wilcox, cit., p. 92), ha progressivamente conquistato un posto di rilievo nazionale ed internazionale, ricevendo significativi riconoscimenti (Premio della critica valenciana (2001), Premio Alfons el Magnànim (2007), Premio International de Poesía Miguel Hernández (2010), Premio Nacional de Poesía (2011) e infine nel 2018 Premio Nacional de las Letras Españolas).
Quanto altro ci sarebbe da dire (ad esempio sull’uso copioso delle dediche, sul mare, sul corazón, sul corpo – a cui è dedicato Historia de una anatomia, Hiperión, Madrid 2010 (su questo libro cfr. Sergio Fernández Martínez, “El cuerpo, catalizador de la memoria. Autodiégesis poética en Historia de una anatomía, de Francisca Aguirre”, in AA.VV., Mundo hispánico: cultura, arte y sociedad, Universidad de León 2019, pp. 553-569, https://www.academia.edu/27066673/El_cuerpo_catalizador_de_la_memoria._Autodi%C3%A9gesis_po%C3%A9tica_en_Historia_de_una_anatom%C3%ADa_de_Francisca_Aguirre), – sul femminile, sugli animali di compagnia – a cui è dedicato Conversaciones con mi animal de compañía. Ediciones Rilke, Madrid 2013 – ecc.), quante altre magnifiche poesie si potrebbero leggere. Ma il tempo e lo spazio sono tiranni e, come è noto, “l’arte è lunga e la vita è breve”. Posso solo aggiungere, in conclusione che, come diceva Izet Sarajlic, la poesia è dalla parte dell’amore: per questo noi non possiamo non continuare ad amare con immensa gratitudine le poesie di Francisca Paca Aguirre.
Giancarlo Cavallo
- Nell’immagine di copertina un’opera di Lorenzo Aguirre, “La playa de San Juan” (1928).
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