Fra tutti i poeti che ho avuto la fortuna di incontrare a partire dai primi anni ’90 fino ad oggi, sicuramente Jack Hirschman è quello con il quale posso vantare la più lunga e profonda amicizia, grazie anche alla frequenza dei suoi tour europei ed italiani. Ho avuto perfino l’onore di pronunciare, a nome dei poeti presenti e dei moltissimi che avrebbero voluto, un suo breve elogio in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Baronissi nel 2008. Gli sarebbe dunque spettato di diritto, se non il primo, almeno uno dei primissimi posti all’interno di questa mia rubrica. Ma chiunque conosca il poeta nordamericano sa che la sola bibliografia (cfr. quella a cura di Matt Gonzalez, all’interno del recente volume che raccoglie The Arcanes degli ultimi dieci anni) sarebbe sufficiente a riempire lo spazio solitamente qui dedicato alla lettura di qualche poesia; si aggiungano a tale immane ostacolo la mia limitata conoscenza dell’inglese, l’imprescindibilità della biografia e la scarsità di contributi critici facilmente reperibili, e risulterà evidente la motivazione del mio procrastinare questo scritto. Tuttavia l’indiscutibile importanza letteraria del “fenomeno” Hirschman, unita alla sua grandissima generosità, hanno reso indifferibile questa prova.
Alla luce di tale premessa, il lettore è avvertito che questo, più ancora dei precedenti, va inteso come un semplice invito alla lettura, essendo evidentemente impossibile per me affrontare in maniera completa un’opera che dagli anni ’50 ad oggi ha prodotto migliaia di pagine di poesia e molti volumi di traduzioni dalle più svariate lingue.
Non posso che accennare brevemente alla vicenda esistenziale di Jack Hirschman, rinviando il lettore interessato alle ben documentate bio-bibliografie esistenti in rete (ad es.: http://www.casadellapoesia.org/poeti/hirschman-jack/biografia – in questo stesso sito è possibile leggere alcune poesie in lingua originale e traduzione italiana ed ascoltarne la registrazione delle letture fatte dall’autore; https://it.wikipedia.org/wiki/Jack_Hirschman, in italiano; http://www.sfcall.com/issues%202002/5.24.02/hirschman_biblio_5_24_02.htm, in inglese). Cresciuto nel Bronx, da una famiglia che aveva origini ebree russe (la nonna, come ricorda in una sua poesia, parlava esclusivamente yiddish), laureato alla Indian University con una tesi su Joyce, Hirschman è il giovane poeta a cui Hemingway indirizza una lettera (“A Letter to a Young Writer.”) divenuta famosa dopo la sua pubblicazione su alcuni fra i più importanti giornali americani (in seguito alla morte del grande narratore); giovane professore universitario alla U.C.L.A. viene espulso a causa della sua attività contro la guerra del Vietnam (attribuiva, fra l’altro, a tutti i suoi studenti maschi la lettera A che corrisponde al massimo dei voti, sottraendoli in tal modo alla coscrizione). Coerentemente con la sua opzione marxista, si impegna concretamente al fianco dei più poveri e degli homeless, venendo perfino arrestato. Si può dire senza ombra di dubbio che a questa grande generosità si associa l’inestinguibile curiosità che lo ha spinto a tradurre da molte lingue autori generalmente poco frequentati e a visitare paesi di mezzo mondo, dal Sud America alla Cina, all’Irak, ecc. L’incontro e la frequentazione con la Beat Generation, dalla quale ben presto si dissocia non condividendone la deriva mistica e l’abuso di droghe, comporta alcune innovazioni stilistiche (uso dello slang, frequenza di neologismi, echi del sincopato della musica jazz, esaltazione della componente orale, ecc.) che sono rimaste costanti nella sua opera insieme all’impegno politico e ad un’attenzione forte alla realtà fin nei suoi aspetti di cronaca minuta.
Un primo grande distinguo nell’approcciare l’opera di Hirschman consiste nel suddividere la sua produzione poetica in due tipologie: le poesie varie e gli Arcani. Mentre generalmente le prime sono brevi e non tendono a costituire un “canzoniere”, i secondi sono lunghi poemi dedicati ad un argomento esplicitato nel titolo, in cui spesso si trovano riferimenti alla qabbaláh e a specifiche tradizioni e pratiche religiose relative ai popoli o personaggi presenti nel testo.
Nel mio breve intervento del 2008, individuavo tre profili da considerare nell’avvicinarsi a questo scrittore:
In prima istanza, quello di poeta con la capacità di unire l’alto di una cultura ricca e vasta al basso del vissuto quotidiano con i suoi aspetti di verità perfino sgradevole, plasmando un linguaggio al tempo stesso mimetico, intessuto di slang e ricco di invenzioni, di neologismi; di unire il piano metaforico e simbolico con quello delle persone in carne ed ossa; di tenere insieme il ritmo incalzante con la scansione franta fino al limite della sillabazione, la solarità di verità sociali incontrovertibili con le misteriose, arcane appunto, alchimie numerologiche. Credo di poter dire, senza tema di smentita, che gli Arcani rappresentino una monumentale opera di poesia nella quale tutti noi possiamo ritrovare elementi di grande originalità sia nel magma dei contenuti che nella plasticità dinamica dell’espressione.
Il secondo profilo è quello dell’intellettuale: in particolare noi italiani dovremmo essergli grati per aver fatto conoscere negli Stati Uniti, con le sue traduzioni, poeti come Rocco Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Santo Calì e Alfonso Gatto, ma anche Antonin Artaud, Vladimir Majakovskij e chissà quanti altri, siano essi famosi o sconosciuti. Ma Jack ha anche dato vita a tante iniziative politico-culturali di ampio respiro quali riviste, associazioni, manifestazioni, che hanno coinvolto personaggi di grandissimo spessore. Come dimenticare, solo per rimanere nel nostro contesto, che spesso è stato lui il tramite tenace ed impagabile attraverso il quale si è potuto far arrivare in Italia, ed in particolare alla Casa della Poesia, personaggi come Lawrence Ferlinghetti, Amiri Baraka, Michel Mc Clure e fra i tanti altri voglio ricordare con affetto lo scomparso poeta haitiano Paul Laraque.
Ultimo, ma solo in senso cronologico, è il profilo umano: la sua generosità è un esempio fulgido di fronte al quale tante figure di intellettuali impallidiscono. Jack ha pagato in prima persona, con l’allontanamento dalla docenza universitaria, con una vita per niente agiata e finanche con il carcere, l’essersi schierato senza remore contro la guerra, contro tutte le guerre, e dalla parte degli emarginati, dei senza tetto, di quei derelitti che molti dei nostri politici (ahimè senza distinzione di appartenenza) vorrebbero letteralmente cancellare, arrivando a togliere le panchine dalle strade per impedire che vi si possano sdraiare, a criminalizzare chi cerca cibo tra i rifiuti o chiede l’elemosina, finendo per istigare giovani neonazisti o, peggio ancora, vacue prede del nulla e della noia, ad arrivare a dare fuoco a esseri umani colpevoli solo della loro povertà e della loro solitudine.
Aggiungerei oggi che la forte connotazione politica apertamente rivendicata dall’autore, che non esita a definirsi comunista – anche dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, vivendo in un paese in cui i comunisti sono considerati “nemici” e sono stati perseguitati all’epoca del maccartismo – ha prodotto nei suoi confronti un atteggiamento “da tifoso”, per cui lo si ama incondizionatamente oppure lo si ignora o lo si detesta totalmente, posizioni entrambe riduttive che rischiano di confinare Hirschman nell’ambito meschino degli stereotipi
David Meltzer, poeta e musicista americano recentemente scomparso, ha detto in occasione del conferimento al nostro dell’American Book Award for Lifetime Achievement a San Francisco: “Jack Hirschman è una figura incredibilmente presente e tuttavia nascosta nella politica culturale e nella vita della poesia americana. Straordinariamente prolifico – ai più alti livelli dell’impegno artistico e del coinvolgimento attivo – il suo lavoro è generoso, aperto, e profondamente critico. La sua critica non è mai banale o inefficace ma ha immensa profondità. La sua opera maggiore – Arcani – si inserisce nella scia dell’epica moderna dei Cantos di Pound, del Paterson di William Carlos Williams, dei The Maximum Poems di Charles Olson e delle Lettere a un amico immaginario di Thomas McGrath. Le traduzioni di Hirschman sono un’estensione della sua comprensione globale dell’economia politica e poetica. Nel corso degli anni ha tradotto poeti dal greco, francese, creolo, tedesco, italiano, russo, e spagnolo. Instancabile lavoratore per la giustizia sociale e la libertà artistica, è un’ironia che Hirschman trovi in Europa, e non nel suo paese, altissima considerazione come uno dei maggiori poeti americani. Noi siamo onorati nel dare riconoscimento alla sua opera e vita, ed egli onora e sfida il nostro lavoro e le nostre vite.”
Bisogna aggiungere che successivamente, nel 2006, la città di San Francisco gli attribuisce il titolo di Poeta laureato, che rappresenta un riconoscimento del valore e dell’importanza dell’opera di questo intellettuale e poeta.
Ma, come è mio costume in questi scritti, vorrei verificare le affermazioni fatte in precedenza attraverso l’analisi di alcuni testi. Per la natura di questa rubrica e le caratteristiche del mezzo utilizzato ritengo improponibile l’analisi di qualcuno dei numerosissimi Arcani (se ne contano ad oggi più di 120; mi limiterò qui a ricordare alcuni titoli: “L’arcano di David”, dedicato al figlio prematuramente scomparso, “L’arcano del giorno dei morti”, “L’arcano di Pasolini”, il recentemente ritrovato “Arcano del Vietnam”, “The Cagliostro Arcane” del quale troviamo una interessante lettura critica di Alan Kaufman sul San Francisco Chronicle del 12 novembre 2006, ecc.), per cui proverò a focalizzare la mia attenzione su qualcuna delle poesie varie, estraendole da due delle raccolte tradotte e pubblicate in Italia: “Soglia infinita” (Multimedia, 1993) e “Volevo che voi lo sapeste” (Multimedia, 2004), scelte tra quelle che Jack ha letto più frequentemente nei suoi reading, ragion per cui è lecito presumere rivestano un significato particolare per l’autore.
Cominciamo da Nellie (“Soglia infinita”, pp. 58-61):
After his shouts, the strops, her screams, the thrown things,
the doorslam, the bitter weeping,
out of the thin box, as the delicate paper was parted,
she’d lift the sheer mojud stockings
and run her fingertips along them,
slowly smiling girlishly again.
She’d begin singing a Perry Como song,
she loved Perry Como and would sing
the same song he sang, all day long,
on the Make-Believe Ballroom Time.
Then, in a black brassiere strapped to her freckled shoulders,
she’ sit on the bed, fit the stockings,
stand up and notch them to the garters
that hung down from her black girdle.
A ripple of fat ran round her waist, squeezed out
by the girdle, different from
the plumps that swelled out from her brassiere.
And I saw a blue bruise, the shadow
of a belt-buckle on her thigh.
But she was singing again, and over the girdle
she’d put on a pair of pink bloomers,
and over everything, then, a brown-and white flower-print
summer-golden dress.
Her white heels had holes in the toes where her nail-polish
showed through. The bottle of polish, tweezers, lipstick,
rouge, brush and emery board were on the vanity table
over there looking in the mirror.
Her lips swam in the Como song with rose-red strokes,
reaching the end with shiny glow,
like the waxy cameo of her mother
on the brooch in the drawer.
She’d hold out her hand and say, “Come, darling…”
We’d walk hand in hand up and down our street in the twilight,
and the neighbors would cry out: “Hi, Nellie!” or “Hello,
Mrs. Hirschman,” and “Hi, Jackie. My, how you’ve grown!”
[Dopo le urla, i colpi di cinghia – lei strillava – volavano cose,/ le porte sbattevano, il pianto amaro,/ dal pacchetto sottile, dopo aver spostato la carta delicata,/ sollevava le calze trasparenti mojud/ e vi faceva scorrere le dita,/ sorridendo di nuovo piano come una ragazza.//Iniziava a cantare una canzone di Perry Como,/ le piaceva Perry Como e cantava/ la stessa canzone che lui cantava, tutto il giorno,/ al Make-Believe Ballroom Time.// Poi, col reggiseno nero legato con una cinghia alle spalle/ lentigginose, si sedeva sul letto, si metteva le calze,/ si alzava e le abbottonava alla giarrettiera/ che pendeva dal busto nero./ Una grinza di grasso le percorreva la vita, schiacciata/ dal busto, diversa dai/ tondi che uscivano gonfi dal reggiseno./ E le vidi un livido blu, l’ombra/ della fibbia della cinghia sulla coscia.// Però lei cantava di nuovo, e sul busto/ metteva un paio di mutandoni rosa,/ e per finire, poi, un abito bianco e marrone/ a fiori che sembrava un’estate dorata.// I tacchi bianchi erano aperti alle dita e si vedeva/ lo smalto sulle unghie. La bottiglia di smalto, le pinzette,/ il rossetto, il rouge, la spazzola e la limetta erano/ là sulla toletta che si guardavano allo specchio.// Le labbra nuotavano nella canzone di Como con battute rosso/ rosate, culminando in luminosità splendente,/ come il cammeo cereo di sua madre/ sulla spilla nel cassetto.// Allungava la mano e diceva, “Vieni, caro…”// Camminavamo mano nella mano su e giù per la nostra strada al crepuscolo,/ e i vicini gridavano:“Ciao, Nellie!” o “Buona sera,/ Signora Hirschman”, e “Ciao, Jackie. Mamma, come sei cresciuto!” – traduzione italiana di Bruno Gullì]
In otto strofe asimmetriche di versi liberi, spesso ipèrmetri, si articola questo ricordo di infanzia, la cui protagonista, la Nellie del titolo, è come si deduce facilmente dal testo, la madre del poeta. Colpiscono immediatamente la dovizia e precisione di particolari, la presenza/assenza di un padre violento che si esaurisce nell’eco del litigio dei primi due versi, il rapidissimo cambio di umore, il contrasto tra l’interno drammatico e l’esterno cordiale, e infine la disposizione al dialogo testimoniata dagli inserti di parlato nelle due strofe finali. Evidenzierei l’incipit, quell’After che ci proietta immediatamente in una dimensione temporale tesa a scavalcare la spiacevole realtà dei primi versi per proiettarsi nel susseguente scenario di affettività condivisa. I riferimenti musicali (Perry Como e il Make-Believe Ballroom Time, programma radiofonico iniziato nel 1935), che dominano l’intera seconda strofa con una sorta di poliptoto (singing, song, sing, song, sang, con un ritorno all’inizio della quarta strofa singing e ancora nella sesta Como song) oltre a suggerire un’atmosfera, servono a contestualizzare temporalmente il ricordo collocandolo verso la fine degli anni ’30. Il ritratto psicologico, le relazioni interpersonali (madre/padre, madre/figlio, madre+figlio/vicini), ricevono un attestato di verità dagli oggetti, dalla gamma variegata dei colori (black, blue, pink, brown-and-white, golden, white, rouge, rose-red, waxy) e dai particolari fisici, i quali fanno di Nellie una donna in carne ed ossa e non un’icona archetipica di madre. Bellissimo nella sua dolcezza il verso che chiude la prima strofa – slowly smiling girlishly again – ribaltando il pianto amaro del secondo verso in un sorriso di ragazzina, quasi coetanea del ragazzino Jackie con cui cammina mano nella mano nel finale. L’io del poeta-bambino compare solo al termine della terza strofa, attestando la consapevolezza della condizione negativa di partenza attraverso la scoperta di un piccolo particolare, quel blue bruise, ombra di un colpo inferto dal padre con la cinghia; subito però, con l’avvio della strofa successiva, la situazione viene ribaltata attraverso il But she was singing again, riaffermando il prevalere di un atteggiamento positivo, della voglia di vivere ed amare. Un altro quasi impercettibile particolare – the waxy cameo of her mother – inserisce nel testo, quasi di contrabbando, la madre della madre, adombrando una sorta di mise en abyme. La penultima strofa/verso rappresenta il cuore della poesia, il momento in cui la madre si rivolge direttamente al figlio esortandolo ad uscire con lei e preparando il finale in cui si passa da una dimensione esclusivamente privata ad una sociale e pubblica. Direi che ci troviamo di fronte ad una piccola sinfonia in cui al procedere lineare dall’inizio verso la fine si affianca più volte un movimento inverso che, attraverso la ripetizione di alcuni semplici vocaboli (after, singing, song) o di piccoli particolari (il già ricordato livido blu), riporta alla mente del lettore il motivo sviluppato in precedenza.
Ancora in “Soglia infinita” troviamo questo Human interlude (Interludio umano, pp. 88-89) che vede ancora come protagonista una donna:
She was standing against
the wall near
the Tevere Hotel holding
a plastic cup
as it began to rain.
I dug for a coin, walked
up to her
and dropped it in.
It feel to the bottom
of an orange drink.
I blushed, looked into her
ravaged eyes and skin
and hair prematurely
greying, and said
I was sorry, I’d thought
she needed some bread.
“I do”, she said
and smiled, “I was
just having a little
drink.”
And we stood there
laughing together
as we watched the raindrops fall
on the orange lake
above the drowning money.
Anche in questa poesia – composta da cinque strofe ognuna di cinque versi liberi, generalmente brevi, anche se i frequenti versi a scalino fanno supporre la frantumazione di misure più lunghe – la protagonista è chiaramente definita attraverso una serie di particolari fisici, prima ambientali (wall, rain, ecc.) e poi personali (ravaged eyes and skin and hair prematurely greying), che la connotano come appartenente a quell’umanità derelitta di emarginati e senza tetto per la quale il poeta concretamente si batte. In questo Interludio (ancora un termine musicale) assistiamo ad un episodio alleggerito e reso divertente dall’equivoco descritto, ma allo stesso tempo ad un processo in cui i pronomi indicanti i due protagonisti dell’episodio (She, it, I, her, ecc.) si trasformano nel we dell’ultima strofa, quasi a significare un passaggio dalla semplice solidarietà di un’elemosina alla compassione e all’empatia. Ancora una volta si conferma l’atteggiamento dialogante della poesia di Hirschman con il ricorso al discorso diretto, che quasi ci consente di ascoltare la voce di questa Lei in risposta a quella del poeta. Mi sembra di poter dire che anche qui si attui quel procedimento che, soprattutto nei versi finali, attraverso la ripetizione di alcune parole o sinonimi (rain/raindrops, orange drink/orange lake, coin/money), riporta la mente del lettore alle strofe precedenti. Il titolo assume un peso specifico molto forte nella sua estrema sintesi, orientando con l’attributo Human la sensibilità del lettore, e ottenendo con la parola interlude un molteplice effetto: oltre al già richiamato senso musicale, il termine possiede anche un più generico significato di intermezzo o pausa, ma, attraverso la radice latina inter (fra) lascia pensare ad un rapporto tra due o più persone, cosa che effettivamente si verifica nel testo.
Conclude, credo non a caso, l’antologica “Soglia infinita” questa Song (Canzone, pp.176-177):
Lift it!
Lift its body
spat-upon and scorned
these many months.
Haven’t you ever
lifted
a woman fallen to the street,
a man lying on the sidewalk,
a child ganged-up on,
arms on the ground
protecting his head
from the kicks?
The song’s the same.
Lift it! Raise it up.
Let its cuts and wounds
have some air.
It’s not dead.
It’ll never die.
Beaten, chained, slandered,
– look, it’s reaching
for your voice.
Lift it.
Let it rise in its place.
The Internationale
shall be the human race.
[Sollevala!/ Solleva il suo corpo/ su cui è stato sputato e che è stato/ deriso in tutti questi mesi./ Non hai mai/ sollevato/ una donna caduta per strada,/ un uomo disteso sul marciapiede,/ un bambino attaccato da una banda di ragazzi, / braccia sull’asfalto/ per proteggersi la testa/ dai calci?// Lo stesso è per la canzone./ Sollevala! Portala in alto./ Fa che i suoi tagli e le sue ferite/ prendano aria./ Non è morta./ Non morirà mai./ Battuta, incatenata, diffamata,/ – guarda, cerca/ la tua voce./ Sollevala./ Fa che si erga forte e sana./ L’Internazionale/ sarà la razza umana. – traduzione italiana di Bruno Gullì]Ancora venticinque versi liberi, suddivisi stavolta in due sole strofe asimmetriche, dal ritmo incalzante, marcato da punti esclamativi, interrogativi ed iterazioni. Questa canzone è quasi un inno, fortemente caratterizzato in senso politico, come inequivocabilmente ci dicono i due versi finali in cui si evoca l’Internazionale, inno socialista e comunista. Tuttavia, ancora una volta, Jack Hirschman per esprimere i suoi concetti utilizza esempi molto concreti e non asserisce dogmaticamente, ma esorta e dialoga, questa volta direttamente col lettore/ascoltatore. In questo modo la canzone viene personificata, da oggetto astratto diventa la donna caduta, l’uomo sul marciapiede, il bambino aggredito. Alla canzone, che ha un corpo (its body), vengono attribuiti tagli e ferite, viene descritta come “Battuta, incatenata, diffamata”. Lift (solleva) è la parola chiave che associa con uno stesso gesto esseri umani e canzone, che apre il testo ritornando altre quattro volte nei versi successivi. Dunque un’analogia tra canzone ed essere umano che trova, a mio avviso, due punti nevralgici nella conclusione delle due strofe: nella prima, la descrizione precisa dei gesti del bambino che si protegge dai colpi ci dà l’immagine di un singolo individuo indifeso on the ground , situata nel passato prossimo; nel finale, sottolineato dal futuro in corsivo (shall), è l’umana razza che si solleva, quasi ri-sorge finalmente libera e uguale; e mi sembra che si possa, inoltre, individuare una catena di assonanze (Raise, rise, race) che rende anche sonoramente imprescindibile questa conclusione.
Passiamo adesso a “Volevo che voi lo sapeste”, una selezione da più di 50 anni di scrittura che rappresenta un vero viaggio nel corpus poetico di Jack Hirschman.
Tra le altre, suggerirei di leggere questa Mother (Madre 1984, pp. 68-73) che ci consente di stabilire un paragone immediato con la precedente Nellie:
We are not in this world/ a long time ago/ it happened it was over:/ the world the war the world war./ I took you by the hand/ through it,/ tiniest hand, tiniest star./You didn’t move, then/ I was dead, then you were dead./ In the open mouth of grief/ there is a candle.
I am not with my breath,/ I am the slow peeling away/ of the skin/ and all that all the deaths/ I’ve seen register/ in my eyes./ I have been a laughing tree/ beside a stove/ of honeyed bananas,/ I have been a silver fox/ and the elegance of heels,/ I have been what has/ brought you down/ and the words you look up,/ I have been the spit-upon/ and the ganged,/ the slain and the invincible, / the bitch of moons,/ the whiplash of compassion/ behind the drug of sluts,/ the red thread that/ liberates all convicts,/ the thimble that balances/ your jiggers,/ the kalimba that wraps/ your nightmares in lullabies,/ the power of birth/ when a child dies.
We are not in this world/ a long time ago/ it happened it was over:/ the world the war the world war./ I took you by the hand/ through it,/ tiniest hand, tiniest star./ Why should I weep now, now/ that you have entered the darkness?/ Many like me are around you./ Our ether is without end./ Should we never speak again,/ you shall write our conversation./ Should my voice fall short of your heart/ (but that is impossible,/ you’re still such a child,/ I’m weeping at the window),/ other voices will lift mine/ and carry it to the center/ of your breathing.
O my beloved, when you burst into the flames,/ when your bones were blistered,/ at those precise moments,/ who drove the seeds in a rapid/ torrent of thighs and targeted/ the yearning eggs with glory?/ When you grew like a primer/ into a text of rage / at all the injustice of this/ profiteering hell,/ when your mind was broken,/ when your sex was split/ like Korea, Vietnam,/ like the North and South,/ when poisons came with pleasure/ and the antidote was dead,/ who cut through the air/ as if wringing a chicken’s neck?/ who tore the feathers and flung them/ to cushion your fall?
I am the creature who runs through the streets/ screaming your name against the mockery,/ I am the sleep of the suicide/ and the cataract of immemorial hair,/ I am the attack of liberty on the hard of heart/ and the poem on the hard of hearing./ The solitude, the grace, the smile/ that returns your smile/ from the depths of the biology/ of a labor and joy/ only the heartbeats of the dithyramb approach,/ only the soul thrums of the cosmos define.
We are not in this world/ a long time ago/ it happened it was over:/ the world the war the world war./ I took you by the hand/ through it,/ tiniest hand, tiniest star.
[Non siamo in questo mondo/ tanto tempo fa / ebbe fine:/ il mondo la guerra la guerra mondiale./ Ti tenni per mano/ per attraversarlo/ la più piccola mano, la più piccola stella./ Non ti muovesti, poi/ io ero morta, poi eri morto tu./ Nella bocca aperta del dolore/ c’è una candela.// Non sono col mio respiro,/ sono il lento squamarsi / della pelle/ e tutto quello che tutte le morti/ che ho visto è registrato / nei miei occhi./ Sono stata un albero che ride/ accanto a una stufa/ di banane mielate,/ sono stata una volpe argentata/ e l’eleganza dei tacchi a spillo,/ sono stata quello/ che ti ha buttato giù/ e le parole che cerchi,/ sono stata vittima di sputi/ e di stupri,/ il caduto e l’invincibile,/ la cagna delle lune,/ la frustata della compassione/ dietro la droga delle puttane,/ il filo rosso/ che libera tutti i prigionieri,/ il ditale che bilancia /i tuoi bicchierini,/ la kalimba che avvolge/ i tuoi incubi in ninnananne,/ il potere della nascita/ quando un bambino muore.// Non siamo in questo mondo/ tanto tempo fa / ebbe fine:/ il mondo la guerra la guerra mondiale./ Ti tenni per mano/ per attraversarlo/ la più piccola mano, la più piccola stella./ Perché dovrei piangere ora, ora/ che sei entrato nelle tenebre?/ Molti come me sono intorno a te./ Il nostro etere è infinito./ Non dovessimo parlare di nuovo/ tu scriverai la nostra conversazione./ Dovesse la mia voce non bastare al tuo cuore/ (ma questo è impossibile,/ sei ancora così piccolo,/ sto piangendo alla finestra),/ altre voci la solleveranno/ e la porteranno al centro/ del tuo respiro.// O mio caro, quando scoppiasti in fiamme,/ quando le tue ossa si riempirono di bolle,/ in quel preciso istante,/ chi guidò i semi in un rapido/ torrente di cosce e gravò/ di gloria le uova bramose?/ Quando crescesti da sillabario/ a testo di rabbia/ per tutta l’ingiustizia di questo/ inferno dei grandi profitti,/ quando la tua mente fu spezzata,/ quando il tuo sesso fu diviso/ come la Corea, il Vietnam,/ come il Nord e il Sud,/ quando i veleni vennero con piacere/ e l’antidoto era morto,/ chi sferzò l’aria/ come se torcesse il collo a una gallina?/ chi strappò le penne e le lanciò/ per attutire la tua caduta?// Io sono la creatura che corre lungo le strade/ gridando il tuo nome contro lo scherno,/ sono il sonno del suicida/ e la cataratta di capelli immemorabili,/ sono l’attacco di libertà ai duri di cuore/ e di poesia ai duri di orecchio./ La solitudine, la grazia, il sorriso/ che risponde al tuo sorriso/ dalle profondità della biologia/ di un travaglio e gioia/ a cui solo i battiti del cuore del ditirambo si avvicinano,/ solo lo strimpellio / dell’anima del cosmo definiscono. // Non siamo in questo mondo/ tanto tempo fa / ebbe fine:/ il mondo la guerra la guerra mondiale./ Ti tenni per mano/ per attraversarlo/ la più piccola mano, la più piccola stella. – Traduzione: Raffaella Marzano ]
Sei strofe asimmetriche (rispettivamente 11, 28, 20, 20, 12 e 7 versi), di versi liberi. I primi sette costituiscono una sorta di refrain che ritorna al centro ed alla fine della poesia, costituendo una gabbia strutturale, ma allo stesso tempo, attraverso il particolare impasto sonoro realizzato con le assonanze ravvicinatissime di the world the war the world war e di tiniest hand, tiniest star, dando al lettore, ed ancor più all’ascoltatore dei suoi straordinari reading – dei quali il già citato Alan Kaufman dice “Hirschman is a superb showman, and to attend one of his public readings is to come away astonished and thrilled” (Hirschman è un superbo showman, e assistere ad una delle sue letture pubbliche significa venir via stupiti ed emozionati) – la sensazione di essere trasportato attraverso un mantra o una formula magica in un altro luogo e in un altro tempo. Ed in questa dimensione altra si attua uno slittamento che sposta il piano dal ricordo personale ad un dolore universale, dalla propria madre (la Nellie che abbiamo visto tenere il figlio mano nella mano) alle madri che hanno vissuto l’incubo della guerra, che nella guerra sono morte o che hanno subito la perdita del figlio, in un continuo alternarsi di vita e di morte, di speranza e disperazione, di rabbia contro l’ingiustizia e di fiducia nella libertà e nella poesia. Tutto detto in prima persona, come se a parlare fosse sempre questa madre allo stesso tempo singolare ed universale, concreta e simbolica. Ma ancora una volta in fitto colloquio, sottolineato dalla frequenza di I, you e your, dall’iterazione delle domande (who, when), iterazione che è figura prevalente in ogni strofa (quattro I have been nella seconda, la sequenza dei when e dei who nella quarta, i tre I am che aprono la quinta, oltre alle già ricordate world war, tiniest, ecc.), anche se in alcuni punti è l’analogia a far volare la poesia oltre il reticolato del senso verso un’elevatissima temperatura emozionale.
Nessuno si stupirà, a questo punto, dell’entusiasmo provato da Jack nel tradurre “Lamento di una mamma napoletana” di Alfonso Gatto.
Concludo questa mia forzatamente breve panoramica compiendo un salto in avanti di circa 20 anni, per leggere Path (Sentiero, 2003, pp. 184-185)
Go to your broken heart.
If you think you don’t have one, get one.
To get one, be sincere.
Learn sincerity of intent by letting
life enter, because you’re helpless, really,
to do otherwise.
Even as you try escaping, let it take you
and tear you open
like a letter sent
like a sentence inside
you’ve waited for all your life
though you’ve committed nothing.
Let it send you up.
Let it break you, heart.
Broken-heartedness is the beginning
of all real reception.
The ear of humility hears beyond the gates.
See the gates opening.
Feel your hands going akimbo on your hips,
your mouth opening like a womb
giving birth to your voice for the first time.
Go singing whirling into the glory
of being ecstatically simple.
Write the poem.
I ventiquattro versi liberi stavolta non sono suddivisi in strofe. Questo Sentiero sembra essere un suggerimento, quasi una lezione, per chi voglia scrivere poesia, sia nel contenuto, che attraverso la forma. Si avverte chiaramente la dinamica in atto di chi sta percorrendo, direi progredendo lentamente verso una meta, step by step. E questo è ottenuto con la concatenazione delle frasi: le parole sembrano inseguirsi da un verso all’altro con ripetizioni, talvolta con piccole variazioni o derivazioni (your–you, get one–get one, sincere–sincerity, ecc.). Ma anche in questo caso, prevale un tono esortativo e dialogante, con l’autore che si rivolge direttamente con un immediato you (che non a caso è presente ben nove volte ed altre due è sottinteso, oltre ai sei your) al lettore/ascoltatore. Ancora una volta si resta ancorati alla realtà fisica attraverso una serie di riferimenti ad oggetti (lettera, cancelli) o parti del corpo (cuore, orecchio, mani, fianchi, bocca, utero). Vediamo una similitudine bocca-utero che produce l’effetto di una nascita, di una messa al mondo della propria voce. Di nuovo una ri-nascita. Dunque potremmo dire che la rivoluzione di Jack Hirschman è prima di tutto una trasformazione, una metamorfosi, la nascita di un uomo nuovo, capace di essere madre, di mettere al mondo, di proteggere e dialogare. Sorprendente la capacità del poeta di passare, anche sonoramente, da un lento e meditato cammino alla rapida, perentoria, conclusione, un esito che ha il sapore di un’illuminazione, un’esortazione alla quale non è più possibile sottrarsi.
Se nel corso degli anni sono stati molti gli aggettivi attribuiti ad Hirschman (Beat, Street, fino a Red poet, che è anche il titolo del bel documentario del 2009 di Matthew Furey che per cinque anni ha seguito il poeta durante conferenze, reading, in caffè, librerie e gallerie d’arte, da Los Angeles a Venezia), direi che giustamente, come ho tentato di dimostrare, invariato è rimasto per oltre sessanta anni il sostantivo Poeta. La sua poesia continua ad affrontare l’intera gamma delle possibili tematiche (l’amore, l’amicizia, la morte, la vita nelle strade, la fame, l’essere senza tetto e la censura, la guerra, le crisi internazionali e la vita quotidiana), senza paura di essere volgare o sentimentale, di ridere o di piangere, come intuiva Karl Shapiro nell’introduzione alla prima opera pubblicata nel 1960; nella presentazione di “Volevo che voi lo sapeste” (http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/volevo-che-voi-lo-sapeste/introduzione) si afferma che “avvicinandoci ai nostri giorni la scrittura di Hirschman è sempre più libera, più creativa e i temi contemporanei a lui più cari si evidenziano, si espandono, esplodono in invenzioni limpidissime”, e questo mi sembra evidentemente un dato in controtendenza rispetto alla normale parabola dei poeti che, aumentando la consapevolezza ed il “mestiere”, tendono ad un ritorno all’ordine; anche questo conferma, ancora una volta, l’eccezionalità del poeta Hirschman.
Concludo augurandomi che questo scritto, oltre ad indurre a qualche necessaria meditazione sul ruolo e l’essenza della poesia, possa fare da apripista ai necessari approfondimenti da parte di studiosi e specialisti di poesia contemporanea e letteratura nordamericana, che possano finalmente attribuire il dovuto tributo ad un uomo che appassionatamente ha dedicato la sua vita ad una poesia concretamente schierata a fianco degli ultimi, di quelli che non hanno voce, ma sono anch’essi esseri – talvolta molto più di noi – umani.
Giancarlo Cavallo
La foto di copertina è di Christopher Michel, le opere pittoriche nell’articolo sono di Jack Hirschman,
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