A leggere alcune sue poesie, – ad esempio Vispera de quedarse che dà il titolo alla raccolta antologica recentemente pubblicata in Italia (Juan Vicente Piqueras, Vigilia di restare, cura e traduzioni di Raffaella Marzano, Multimedia Salerno 2017 – in seguito per brevità Vigilia) – ci si potrebbe figurare Piqueras come uno dei tanti viaggiatori immaginari intento a prepararsi per viaggi mai realizzati, che resta lì a fantasticare, magari comodamente in poltrona con i suoi dubbi amletici. Ma, se appena appena scorriamo la sua biografia, ci rendiamo conto che il poeta ha lasciato ben presto il paesino natale di Los Duques de Requena (Valencia, España) per andare a vivere a Madrid, poi in Francia, quindi per lungo tempo a Roma, poi Atene, Algeri e adesso Lisbona.
“Mi sono sempre sentito straniero, sin da piccolo. La mia domanda quotidiana, quasi una preghiera, è sempre stata: Che ci faccio io qui? Sono nato in un piccolo paese contadino di appena duecento persone e sono cresciuto nella convinzione che la vita era altrove, aspettandomi. Sono partito in cerca della mia voce lontana, e ho girato un po’. Ho vissuto in Francia, in Italia, in Grecia, e ora in Algeria. La mia vera patria è la lingua, la scrittura, e l’amore.” (Intervista a Juan Vicente Piqueras, a cura di Anna Belozorovitch, in Versante ripido n. 3, marzo 2016 http://www.versanteripido.it/intervista-a-piqueras/).
E nella prefazione al libro Sabrina Foschini dice: “Per Juan Vicente Piqueras, uomo dalle continue partenze, felice soltanto nel sapersi fugace, la vigilia è quella di restare.” (S. Foschini, Piqueras o Nessuno, in Vigilia, cit. p. 5)
Dunque le cose, come sempre del resto, sono decisamente più complicate, scrittura e biografia apparentemente divergono, e necessitano di un approccio più elaborato, che d’altronde lo spessore dei testi e l’unanime riconoscimento consigliano (Piqueras ha tra l’altro vinto prestigiosi premi in Spagna ed all’estero, ma per un approfondimento bio-bibliografico rimando al link http://www.casadellapoesia.org/poeti/piqueras-juan-vicente/biografia ) .
Premetto che, oltre a numerose interviste e ad alcune poesie lette dal poeta valenciano (https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/juan-vicente-piqueras-vigilia-di-restare-vispera-di-quedarse/ e https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/juan-vicente-piqueras-mela-mare-manzana-de-mar/, ad es.), è possibile reperire in rete due notevoli studi (in spagnolo castigliano) di ispanisti entrambi provenienti dall’ Università Ca’ Foscari di Venezia, il primo intitolato «La habitación vacía» de Juan Vicente Piqueras: sentir, nombrar, suspender, redatto da Elide Pittarello, apparso in Tintas Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, n. 4 del 2014, pp. 15-29 (https://riviste.unimi.it/index.php/tintas/article/viewFile/4367/4438); il secondo dal titolo “Manchas de voz”, de Juan Vicente Piqueras: metapoesía y preverbal., redatto da Alessandro Mistrorigo, apparso in Caracteres. Estudios culturales y críticos de la esfera digital, vol. 5 n. 2 novembre 2016, pp. 114-144 (https://dialnet.unirioja.es/servlet/articulo?codigo=6327699), ai quali rimando il lettore, ragion per cui non mi soffermerò in maniera specifica su queste due belle ed interessanti poesie (La habitación vacía in Vigilia pp. 184-187; Manchas de voz in Vigilia pp. 12-13) ).
In diverse interviste Piqueras segnala, con riluttanza, alcuni suoi riferimenti letterari: Vladimir Holan, John Donne, Sylvia Plath, Ted Hughes o Wislawa Szymborska (https://www.poetica2puntocero.com/juan-vicente-piqueras-hay-que-cuidarse-mucho-del-poder-de-las-palabras/) o “Homero, Safo, Ovidio, Catulo, Lucrecio, los trovadores provenzales o galaico-portugueses, ese poeta llamado Anónimo, autor de algunas de las mejores obras de la poesía universal, John Donne, Quevedo, Lope, Pessoa, Lorca, Cirlot, Szymborska, Anne Sexton, Holan, tantos…” (http://fundacionjmlara.es/actividades/juan-vicente-piqueras-llega-a-la-coleccion-vandalia-con-su-poemario-narciso-y-ecos/), altrove anche Machado (“Creo que todos somos un poco hijos de Antonio Machado, que es el gran padre o abuelo de la poesía española del siglo XX.” http://www.latribunadealbacete.es/noticia/Z7BECDC68-0F93-CE8B-790797A083796758/20160503/juan/vicente/piqueras/escribo/hay/cosas/queson/terapeuticas), ma mi sembra di poter evidenziare l’affermazione seguente: “Poetas que influyeron en mí personalmente con su obra y con su vida, porque los conocí y los frecuenté, fueron Carlos Edmundo de Ory, José Hierro, Félix Grande, Izet Sarajlic, Tonino Guerra, mis padres…” (http://fundacionjmlara.es/actividades/juan-vicente-piqueras-llega-a-la-coleccion-vandalia-con-su-poemario-narciso-y-ecos/); ritroveremo in seguito alcuni di questi autori a conferma della loro effettiva influenza, per ora basti dire che degli ultimi due (Sarajlic e Guerra) Piqueras è stato traduttore in spagnolo. Tralascerei quindi un’eco di Álvaro Mutis, riscontrabile in alcune poesie (quelle che hanno come protagonista Wuang Shi, o Litania del gabbiere, ad es.) tratte dalle raccolte “La latitud de los caballos” del 1999 e “Adverbios de lugar” del 2004, pubblicate nelle prime sezioni della citata antologia italiana, che in fin dei conti mi sembra poco rilevante nella poetica dell’autore (come sempre sono ben accette eventuali smentite); e aggiungerei, invece, due autori del calibro di Franz Kafka e Jorge Luis Borges, maestri, oltre a tanto altro, di labirinti e paradossi.
Ma, come è mia abitudine, passerei a leggere la prima delle poesie che vorrei proporre ai lettori di questa rubrica, Adverbios de lugar:
ADVERBIOS DE LUGAR
Aquí es donde estoy yo. Esté donde esté
yo siempre estoy aquí donde me ves.
Esta casa, estas caras, estas cosas
cansan, porque aquí cansa.
Aquí hace sed de irse, sed de allí.
Pero allí es el lugar donde jamás podré estar,
donde yo soy imposible. Vaya adonde vaya,
allá donde yo llegue será aquí
y estaré ya esperándome a mí mismo
con un ramo de rosas iguales en la mano.
Ahí es tu aquí.
Ahí parece un grito porque es donde te duele.
Yo quiero estar ahí, donde estás tú,
tú aquí o, mejor, los dos allí, remotos, juntos
porque lo vivo es lo junto.
Ahí hay el amor que no hay aquí.
Esas cosas tocadas por tus manos,
eso que piensas, dices, callas, sueñas,
esos lugares donde estás sin mí,
eso deseo, eso necesito.
Y ser tu ahí, tu aliento intercalado.
Allí es la salvación, el espejismo
nacido de la sed de estar aquí.
Allí sí que seríamos felices,
donde tu aquí y mi ahí estarían juntos,
comerían perdices que no existen.
Allí es la lluvia aquella
que cae sobre este páramo sediento.
Allí es Jauja, el Dorado. No hay palabras
que puedan dar idea de aquel sitio.
Las palabras son éstas, nunca aquéllas.
Yo estoy aquí y tú ahí y allá nosotros cuándo.
Esto es piedra. Eso es seda. Aquello es mar.
Aquí, hogar imposible, íntima ausencia,
odiado domicilio, cárcel del cada día.
Ahí, calor del tú, tu vida mía,
tesoro de tu isla, aire de amor.
Allí, donde no estamos, llueve sobre la vida
que nunca será nuestra y nos aguarda.
[AVVERBI DI LUOGO. Qui è dove sto io. Dovunque sia/ io sempre sono qui dove mi vedi./ Questa casa, queste facce, queste cose/ stancano, perché il qui stanca./ Qui fa venir sete di andarsene, sete di lì./ Ma lì è il luogo in cui mai potrò stare,/ in cui io sono impossibile. Dovunque vada,/ là dove io arrivi diventerà qui/ e starò già aspettando me stesso/ con un mazzo di rose uguali nella mano.// Lì è il tuo qui./ Lì sembra un grido perché è dove ti fa male./ Io voglio stare lì, dove sei tu,/ tu qui o, meglio, tutti e due laggiù, remoti, insieme/ perché è vivo quel che è insieme./ Lì c’è l’amore che non c’è qui./ Quelle cose toccate dalle tue mani,/ quello che pensi, dici, taci, sogni,/ quei luoghi in cui stai senza di me,/ quello desidero, di quello ho bisogno./ Ed essere il tuo lì, il tuo respiro dentro.// Laggiù è la salvezza, il miraggio/ nato dalla sete di star qui./ Laggiù sì che saremmo felici,/ dove il tuo qui e il mio lì starebbero insieme,/ e vivrebbero per sempre felici e contenti./ Laggiù c’è quella pioggia/ che cade su questa landa assetata./ Laggiù è Jauja, l’Eldorado. Non ci sono parole/ che possano dare l’idea di quel luogo./ Le parole sono queste, mai quelle.// Io sto qui e tu lì e laggiù noi quando./ Questo è pietra. Quello è seta. Quello laggiù è mare.// Qui, dimora impossibile, intima assenza,/odiato domicilio, carcere di ogni giorno.// Lì, calore del tu, tu vita mia,/ tesoro della tua isola, aria di amore.//Laggiù, dove non siamo, piove sopra la vita/ che giammai sarà nostra e che ci aspetta. – Vigilia di restare, cit. pp. 54-57, traduzione di R. Marzano].
Tre strofe lunghe di versi liberi (10, 11,10), incentrate ciascuna su un avverbio (Aquí, Ahí, Allí – qui, lì, laggiù) spesso in contrapposizione con gli altri due, seguite da quattro strofe composte ognuna da un solo distico, nella prima delle quali nel primo verso tutti e tre gli avverbi si incrociano, mentre nel secondo ci sono i tre pronomi dimostrativi (Esto, Eso e Aquello) che agli avverbi si associano; infine le ultime tre ripetono lapidariamente la sequenza delle prime, con gli avverbi in posizione incipitaria (Aquí, Ahí, Allí).
Evidenzierei innanzitutto il titolo, la cui importanza è rafforzata dal fatto di essere diventato, come abbiamo visto, quello dell’intera raccolta pubblicata nel 2004, che pone l’accento, almeno apparentemente, sull’aspetto grammaticale (la cui importanza verrà ribadita sin dall’inequivocabile titolo del più tardo Yo que tú: manual de gramática y poesía, Barcelona 2012); parafrasando il titolo di un fortunato racconto di De Amicis, si potrebbe parlare di “Amore e grammatica”, ma con una riflessione filosofica che costruisce un labirinto neobarocco (evidenziato dal poliptoto iniziale e dalla sequenza di es – estoy, esté, ves, esta, ecc. – che si snocciola per l’intera poesia divenendone la trama sonora, rafforzata da sequenze allitteranti come casa – caras – cosas – cansan – cansa, vv. 3-4 e dal costante, ossessivo ripetersi di donde – se ne contano 11 a cui si aggiunge un adonde), ben nascosta in un’apparente leggerezza e semplicità colloquiale, che sono l’accattivante cifra stilistica per la quale il pubblico ama molto questo autore.
Segnalerei anche la presenza insistita di una parola chiave sed (sete) che troviamo due volte in un verso della prima strofa e poi ancora nella terza, insieme al derivato sediento (assetato); la ritroviamo ben 26 volte nell’antologia (quasi quante l’imprescindibile Amor 30) insieme a varie declinazioni dei derivati (sedientos 2, sediento 1, sedientas 1). Un amore/sete (cfr. Vasos de sed, p. 44) che implacabilmente lascia assetati. Non a caso questa parola è spesso abbinata a deserto – e infatti più avanti nel libro si troveranno le Istruzioni per uscire dal deserto, pp. 86-87 – o a suoi correlati (in questo caso miraggio: el espejismo/ nacido de la sed de estar aquí.). Ai tre avverbi sono altresì associati i tre pronomi personali io, tu e noi, rendendo esplicita la dialettica erotica sostenuta dal desiderio (“eso deseo”) che, freudianamente, in quanto tale non si può mai realizzare.
Ci sono altre parole oltre agli avverbi e ai pronomi che, con un sistema di ripetizione differente, legano la strofa precedente alla successiva: cosas che nella prima strofa cansan, nella seconda diventano cosas tocadas por tus manos e pertanto desiderabili; juntos nella seconda si ritrova nella terza; la lluvia della terza strofa diventa llueve nell’ultima, vida (vedi infra) nella penultima e nell’ultima, ecc.
Quanto ai luoghi, sono tutti generici (casa, landa, luogo, mare, isola) – come senza nome proprio restano i protagonisti, inverati da alcuni particolari come il mazzo di rose o le cose toccate dalle tue mani – ad eccezione dei due in corsivo e in chiave utopica “Jauja, el Dorado”, luoghi situati in un oltremare mitico e indescrivibile, irraggiungibile come l’agognata vita felice e favolosa (Allí sí que seríamos felices; comerían perdices que no existen). Ancora anche alle palabras si estende questa impotenza, questa appartenenza al qui, al questo, che è la deprimente vita quotidiana. Non a caso nelle due ultime strofe, ritorna, con accezione diversa, la parola vida (nel primo caso vida mia è sinonimo di amore/amata, nel secondo la vida è il vivere lontano che non si realizza, su cui cade una pioggia che sembra avere una connotazione positiva, in quanto acqua che combatte l’aridità e la sete. Collegherei questi versi finali col bel verso della seconda strofa juntos/ porque lo vivo es lo junto. (perché è vivo quel che è insieme.): quindi, paradossalmente, lo stare qui, unica condizione di vita possibile è una non-vita, perché lo vivo è allì dove la vita ci aspetta, dove potremmo essere insieme.
Il paradosso è stabilmente presente nella poesia sin dai titoli: dalla Vigilia di restare ai Bicchieri di sete, Il cielo delle pozzanghere, Poesia che è altro, Rovine in fiore, Lazzaro rifiuta di resuscitare, ecc. La Pittarello nel saggio citato dice: “[…] quella saldatura immanente/trascendente che, per esempio, ha espresso con una fila di paradossi in una strofa del poema “Modi e tempi verbali”: «Soy el que fui y se fue pero tambien / soy el que no sere, el que nunca fui / y el que nunca se fue»; e più avanti: «L’asserzione inaugurale:”Siamo quelli che andammo via. / Siamo quelli che “non stiamo” finisce con un verdetto nichilista che contemporaneamente il paradosso dissolve: “Siamo quelli che andammo via. / Siamo quelli che non siamo”» (E. Pittarello, cit., p. 18, la traduzione dallo spagnolo è mia, come anche per le citazioni successive). Il paradosso dunque può essere considerato una delle chiavi di lettura, insieme con l’utilizzo di giochi di parole, in un autore che non disdegna l’aneddoto e perfino il motto di spirito. D’altronde uno dei suoi maestri, il già citato Carlos Edmundo de Ory, era uno specialista della dimensione ludica delle parole («La aggettivazione con cui si accede allo scrittore ammette pochi dubbi: raro, strano, capriccioso, originale, stravagante, singolare, marginale, esteriore, anormale, geniale, maledetto, strambo, eccentrico, fantastico, strampalato, grottesco, etc.», Jaume Pont a proposito di Ory, citato in E. Pittarello, op. cit., pp. 16-17), come testimoniato dalla magnifica La habitación vacía che Piqueras dedica al poeta dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2010, ricordando uno dei suoi giochi preferiti che consisteva appunto nel chiedere ai partecipanti ai laboratori di poesia aperta: “che cosa c’è in una stanza vuota?”; domanda che, dopo un iniziale smarrimento, dava la stura all’immaginazione.
Dunque un aneddoto, un racconto; ecco cosa dice il poeta sulla possibilità di raccontare anche in versi: “La poesia è nata come canzone e come racconto memorabile. La rima e il ritmo aiutavano a ricordare le storie che le poesie raccontavano e cantavano. Ancora oggi ci sono poeti privilegiati che cantano le loro poesie. La poesia ha molti usi e molti registri: epico, lirico, drammatico, ludico, narrativo… Credo che la vocazione della poesia è quella di essere voce che fa compagnia, che ci canta un lamento o un miracolo, che fa diventare la meraviglia e la paura musica.” (Intervista a Juan Vicente Piqueras, a cura di Anna Belozorovitch, cit.).
Come abbiamo già constatato la semplicità di Piqueras è del tutto apparente; ce lo conferma anche la Foschini: “Tutti i tranelli della lingua, le insidie piene di senso dell’analisi grammaticale diventano materia poetica, come gli avverbi di luogo, i cortocircuiti delle negazioni (Il figlio che no / poesia che è altro), i paradossi e gli ossimori che si spingono fino a costringere una parola a dire il suo esatto contrario.” (S. Foschini, cit. p. 5). Un’ulteriore conferma la troviamo in Mistrorigo: “Junto con “las velas de los verbos” (v. 13), sintagma formado por dos sinécdoques que ponen en relación el (viaje por) mar y el lenguaje, también la memoria es una de las herramientas que, en la segunda estrofa, el yo lírico define con el adjetivo “temidas”. Aquí estamos al comienzo de un viaje por mar que puede engendrar peligros para el tripulante. Las metáforas relacionadas con la esfera semántica del mar afectan también a la mesa que se vuelve nave —pero también “nido, madre” (v. 14)— y la tinta que “es sangre de animales marinos” (v. 17).” (A. Mistrorigo, cit., p. 119 – “Assieme a“las velas de los verbos” (v. 13), sintagma formato da due sineddochi che mettono in relazione il (viaggio per) mare e il linguaggio, anche la memoria è uno degli strumenti che, nella seconda strofa, l’io lirico definisce con l’aggettivo “temibili”. Qui siamo all’inizio di un viaggio per mare che può generare pericoli per il marinaio. Le metafore relazionate con la sfera semantica del mare riguardano anche il tavolo che si trasforma in nave – però anche “nido, madre” (v. 14) – e l’inchiostro che “è sangue di animali marini” (v. 17).” La traduzione dallo spagnolo è mia.)
Un’altra interessante asserzione della Pittarello orienta la nostra attenzione sul fatto che Piqueras “non ha smesso di dire addii da quando ha incominciato a scrivere” (E. Pittarello, cit., p. 18): troviamo conferma, tra l’altro, oltre che nella citata poesia dedicata a Ory, anche in Amapolas dedicata a Izet Sarajlic (pp. 78-79) e in Ciao, Tonino dedicata a Tonino Guerra (pp.188-189), ma l’intera raccolta Padre del 2016 è anch’essa un lungo addio al genitore scomparso (una selezione in italiano alle pp. 156-179).
“Credo che la poesia sia l’infanzia del linguaggio, e il linguaggio è prima di tutto il nostro modo di nominare, celebrare, cantare la meraviglia della natura. Ci sono popoli senza letteratura ma non ce n’è uno solo senza poesia, senza canzoni per dire il mistero elementare di essere vivi. Il poeta può parlare di tutto ma l´inchiostro è sangue di animali marini, la carta è savia che viene degli alberi, e la nostra voce è aria. Tutto è natura e alla natura ritorna.” (Intervista a Juan Vicente Piqueras, a cura di Anna Belozorovitch, cit.). Questa citazione mi torna utile per introdurre la seconda poesia che vorrei leggere Palmeras:
PALMERAS
Nacemos de la sed. Somos palmeras
que van creciendo a fuerza de perder
sus ramas. Y sus troncos son heridas,
cicatrices que el viento y la luz cierran,
cuando el tiempo, el que hace y el que pasa,
ocupa el corazón y lo hace nido
de pérdidas, erige
en él su templo, su áspera columna.
Por eso las palmeras son alegres
como los que han sabido sufrir en soledad
y se mecen al aire, barren nubes
y entregan en sus copas
salomas a la luz, fuentes de fuego,
abanicos a dios, adiós a todo.
Tiemblan como testigos de un milagro
que sólo ellas conocen.
Somos como la sed de las palmeras,
y cada herida abierta hacia la luz
nos va haciendo más altos, más alegres.
Nuestros troncos son pérdidas. Es trono
nuestro dolor. Es malo
sufrir pero es preciso haber sufrido
para sentir, como un nido en la sangre,
el asombro de los supervivientes
al aire agradecidos y estallar
de alta alegría en medio del desierto.
[PALME. Nasciamo dalla sete. Siamo palme/ che crescono a forza di perdere/ i propri rami. I tronchi sono ferite,/ cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,/ quando il tempo, quello che fa e quello che passa,/ occupa il cuore e lo trasforma in nido/ di perdite, erige/ in esso il suo tempio, la sua aspra colonna./ Per questo le palme sono allegre/ come chi ha saputo soffrire in solitudine/ e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi/ e dalle loro chiome affidano/ cantici alla luce, fonti di fuoco,/ ventagli a dio, addio a tutto./ Tremano, testimoni di un miracolo/ che solo loro conoscono./ Siamo come la sete delle palme,/ e ogni ferita aperta verso la luce/ ci fa sempre più alti, più felici./ Perdite sono i nostri tronchi. Trono/ il nostro dolore. Non è bello/ soffrire ma bisogna aver sofferto/ per sentire, annidata nel sangue,/ la meraviglia dei sopravvissuti/ che ringraziano l’aria e scoppiare/ di vera gioia in mezzo al deserto. – Vigilia di restare, cit. pp. 62-63, traduzione di R. Marzano].
La poesia si presenta come un unico blocco di 26 versi liberi, con prevalenza del polisindeto (la congiunzione y si ritrova ben 8 volte soprattutto nei primi versi) che produce un effetto di rallentamento. Il titolo, al plurale, mette al centro della scena le palme, che in realtà nel testo sono il termine di paragone di una similitudine con un generico – e generale, nel senso di genere umano – noi, che è il locutore collettivo dietro cui ama nascondersi il poeta. Il secondo emistichio potrebbe essere sciolto così: “(Noi uomini) siamo (come loro) palme.”, ma anche “Io Juan Vicente sono come una palma”. In realtà si potrebbero distinguere tre sezioni quasi simmetriche (8, 8, 10) all’interno del testo: la prima composta dai vv. 1-8 in cui, sin dal bellissimo incipit (Nasciamo dalla sete), viene svolto il parallelo uomini-palme; la seconda vv. 9-16 in cui si parla delle palme ([…] testimoni di un miracolo/ che solo loro conoscono); la terza vv. 17-26 (aperta non a caso dal verso “Siamo come la sete delle palme” che, con il già menzionato meccanismo della ripetizione differente, riscrive il primo verso fondendo i due emistichi in una nuova unità) in cui si parla di noi che possiamo sentire “la meraviglia dei sopravvissuti”.
Ritroviamo in posizione privilegiata le parole chiave sed e desierto (l’una nel primo verso e l’altra nell’ultimo a chiudere l’intera composizione), che costituiscono l’ambiente fisico di riferimento, ma evidentemente hanno grande rilevanza metaforica e sono correlate con sostantivi, attributi e verbi “negativi” (perder, heridas, cicatrices, pérdidas 2, áspera, sufrir 2, soledad, herida, dolor, malo, sufrido) qui messi in correlazione dialettica con quelli “positivi” (van creciendo, alegres 2, salomas, milagro, asombro, alta alegría) che mi sembrano quasi sempre legati ad elementi aerei (viento, aire 2, abanicos, barren nubes) e luminosi (luz 3, fuentes de fuego). Un’altra parola importante è nido che troviamo nella prima parte con connotazione negativa (nido/ de pérdidas) in una significativa posizione di fine di un verso caratterizzato dall’enjambement e nella seconda con connotazione positiva (nido en la sangre). L’identificazione tra noi e le palme comporta una umanizzazione della natura descritta con pathos (tiemblan, oltre a quanto già citato) e con un’attitudine volitiva (se mecen al aire, barren, entregan en sus copas, ecc.) . Infine credo di poter sottolineare la prevalenza di un movimento dal basso verso l’alto realizzata attraverso specifici verbi o espressioni (van creciendo, erige, haciendo más altos, estallar) che sembra confermare un’attitudine positiva della sua poesia che emerge programmaticamente anche da una recente (16 maggio 2016) intervista: “Piqueras señala como uno de sus propósitos al escribir poesía llegar a «ese verso que no haga daño, sino que ilumine, que acompañe a la persona que lo lee. Que le acompañe como a mí me acompañan algunos versos».” (https://www.poetica2puntocero.com/juan-vicente-piqueras-hay-que-cuidarse-mucho-del-poder-de-las-palabras/ – “Piqueras segnala come uno dei suoi propositi nello scrivere poesia quello di arrivare a «quel verso che non faccia danno, ma illumini, accompagni la persona che lo legge. Che lo accompagni come mi accompagnano alcuni versi» ).
Forte è la presenza del mito nell’opera di Piqueras: l’immancabile Nessuno/Ulisse con contorno di sirene, maghe, Penelope, ecc., Sisifo, Lazzaro, Giona, ad un primo sommario spoglio. Tuttavia si tratta sempre di rivisitazioni originalissime. “Possiamo incontrare allora tra le sue poesie un nuovo Lazzaro che non vuole resuscitare, o i figli delle lamentazioni di Geremia, che si rammaricano di piccoli guai, Giona che si attarda nella pancia della balena e ovunque parabole ricordate male, mele del peccato che sono essenzialmente memoria, elemosine di parole, preghiere che raccomandano al padre la propria indifendibile anima. (Sabrina Foschini, Piqueras o Nessuno, in Vigilia, cit. p. 7). Proviamo in proposito a leggere un’altra poesia:
SÚPLICA
Sigue tejiendo, amor, y destejiendo
jerseys y leguas para mi derrota,
bufandas para el viento que me lleva,
el frío de mi fuga
y el invierno que soy. Sigue tejiendo.
Sigue diciendo no
al desaliento y a tus pretendientes.
O no les digas no, diles mañana,
y mañana también diles mañana.
Lo mismo que yo a ti. Hasta que regrese.
Cuando cansado ya de derroteros,
harto ya de perderme y demorarme
en regazos de magas o en riesgos de sirenas,
regrese a ti, y no sepas
qué hacer con el quehacer de tanta espera
como ahora no sé qué hacer conmigo.
Me he convertido en nadie.
Tendré que regresar a tu regazo,
apoyar mi cabeza donde ahora está el ovillo
que guía mi retorno.
Y cuando llegue a ti ya no sabrás quién soy.
Cuando te abrace abrazarás el aire.
[SUPPLICA. Continua a tessere, amore, e a disfare/ maglioni e leghe per la mia sconfitta,/ sciarpe per il vento che mi porta via,/ il freddo della mia fuga/ e l’inverno che sono. Continua a tessere.// Continua a dire no/ allo sconforto ed ai tuoi pretendenti./ O non dirgli no, digli domani,/ e domani anche digli domani./ Così come io a te. Finché ritorno.// Quando ormai stanco di rotte,/ stufo ormai di perdermi ed indugiare/ in grembi di maghe o in rischi di sirene,/ tornerò a te, e non saprai/ che fare con il lavorio di tanta attesa/ come ora non so che fare di me stesso.// Mi sono trasformato in nessuno.// Dovrò tornare al tuo grembo,/ poggiare la mia testa dove ora è il gomitolo/ che guida il mio ritorno.// E quando arriverò a te non saprai chi sono./ Quando ti abbraccerò abbraccerai l’aria. – Vigilia di restare, cit. pp. 62-63, traduzione di R. Marzano].
Sei strofe asimmetriche (5, 5, 6, 1, 3, 2) di versi liberi. La prima strofa è aperta e chiusa dallo stesso emistichio (Sigue tejiendo) e il Sigue ripetuto ad inizio della seconda crea un’anafora. Il regrese che, significativamente, chiude la seconda strofa ritorna nella terza per poi diventare regresar nella penultima in cui appare anche il sostantivo retorno. I regazos (grembi di maghe) della terza diventano regazo (grembo a cui fare ritorno) ancora nella penultima. Il no sé della terza diventa no sabrás nell’ultima. I no e i mañana della seconda creano un ritmo circolare tipico di un rosario, di una supplica. Ancora una volta l’iterazione, la ripetizione differente sembra una figura essenziale sia di suono sia di senso.
Il mittente di questa Súplica, benché non nominato con il nome proprio, è evidentemente Ulisse, nessuno ma senza maiuscola, così come il destinatario è amor, cioè Penelope. Anche le maghe, le sirene e i pretendenti non hanno nome né maiuscole. Siamo di fronte ad un Ulisse completamente diverso da quello intraprendente, astuto e determinato che abbiamo tradizionalmente conosciuto: questo addirittura dichiara no sé qué hacer conmigo (non so che fare di me stesso). L’unico verso isolato afferma perentoriamente il proprio essersi trasformato in nessuno, l’annichilimento di quello che ci appare tutt’altro che un eroe. E se anche qui al ritorno segue un mancato riconoscimento, sembra di capire che questo avvenga perché si tratta di un fantasma (abrazarás el aire) che si illude di abbracciare ma non può essere abbracciato. Ma questo nessuno, questo fantasma, il vero mittente di questa Supplica, non è forse l’autore stesso (o, più subdolamente, l’io letterario che l’autore ha creato per noi lettori)?
Molto bella e ricca di immagini originali è la poesia Mudanzas S.A. (Traslochi Società Anonima) dedicata ai traduttori (ed in particolare a Raffaella Marzano, traduttrice di questo libro), a cui i poeti sembrano dedicare una grata attenzione (come si può constatare, tra i poeti ospitati in questa rubrica, almeno in Hirschman e in Pastakas). Riporto per motivi di spazio solo la strofa conclusiva, il cui ultimo distico coi due versi finali quasi gemelli, è l’ennesima splendida conferma dell’efficacia della ripetizione differente:
En la liturgia de la literatura
son tratados como los monaguillos.
En cambio son pontífices: los que tienden los puentes
entre las islas de lenguas lejanas, los que saben
que todas las lenguas son extranjeras,
que entre nosotros todo es traducción.
Son una tribu extraña dispersa por el mundo
porque están mudando el mundo,
porque están salvando el mundo.
[Nella liturgia della letteratura/ vengono trattati come chierichetti./ Sono invece pontefici: quelli che tendono i ponti/ tra le isole di lingue lontane, quelli che sanno/ che tutte le lingue sono straniere,/ che tutto tra noi è traduzione./ Sono una tribù strana sparsa per il mondo/ perché stanno spostando il mondo,/ perché stanno salvando il mondo. – Vigilia di restare, cit. pp. 104-107, traduzione di R. Marzano].
Seguiamo infine un’altra suggestione che l’acuta prefazione della Foschini ci consegna: “Ma alla fine l’oggetto più potente, più persistente e insieme fallace della poesia di Piqueras è lo specchio. Specchio della pagina e delle brame, fallit imago, acqua ferma di Narciso, vero alter ego fondativo, strumento di doppiezza e di brutale sincerità, in cui l’autore sogna di cadere dentro, come una Alice di sesso maschile. O perlomeno di non essere più riflesso, di sfuggire al proprio sguardo e a quello degli altri, di dimenticarsi un momento, chiudere la porta del proprio volto, oltrepassarla. Lo specchio restituisce la nostra luce e la nostra ombra, non aggiusta nulla, non perdona. Ed è ancora il motto inscritto sul tempio di Apollo a tracciare la rotta di ogni singolo individuo e anche quella universale della poesia: “Conosci te stesso”, ovvero scava dentro, riconosci quello che sei, scrivi tutto.” (Sabrina Foschini, Piqueras o Nessuno, in Vigilia, cit. p. 7). Quindi leggiamo questa Espejo póstumo:
ESPEJO PÓSTUMO
Objects in mirror are closer than they appear.
Aquella mañana me asomé al espejo y no vi a nadie.
No es que tuviese los ojos cerrados,
que tal vez los tenía, no me acuerdo,
sino que en el espejo no había nadie.
Sólo al fondo, a lo lejos, más al fondo
de lo que el cuarto de aseo permitía,
en la penumbra del armario entreabierto,
vi a mi abuelo Pedro acostado en la cama
y a su lado mi abuela inclinada sobre él,
escuchando sus gemidos.
Fue un instante tan solo.
Me asomé al espejo y no me vi.
Y en mi lugar vi lo dicho.
Pensé: ¡Por fin!, y un eco en el espejo
dijo: ¡Por fin!, si no recuerdo mal.
Y luego vine aquí.
Lo demás, ya sabéis…
[SPECCHIO POSTUMO. Objects in mirror are closer than they appear. Quella mattina mi affacciai allo specchio e non vidi nessuno.// Non è che avessi gli occhi chiusi,/ ché magari li avevo, non ricordo,/ ma nello specchio non c’era nessuno.// Solo in fondo, lontano, più al fondo/ di quanto la stanza da bagno permetteva,/ nella penombra dell’armadio socchiuso,/ vidi mio nonno Pedro steso sul letto/ e lì accanto mia nonna china su di lui,/ che ascoltava i suoi gemiti.// Fu un istante soltanto./ Mi affacciai allo specchio e non mi vidi./ E al mio posto vidi quel che ho detto./ Pensai: Finalmente!, e un’eco nello specchio/ disse: Finalmente!, se non ricordo male.// E poi venni qui.// Il resto, lo sapete… – Vigilia di restare, cit. pp. 194-195, traduzione di R. Marzano].
Sette strofe, anche in questo caso asimmetriche (1,3,6, 2,1,1), molto frammentate; ancora una volta in versi liberi. Lo specchio sembra essere protagonista assoluto apparendo ben quattro volte nel testo, oltre che nel titolo e nella citazione in inglese. Ma è proprio il titolo ad avvertirci che si tratta di uno specchio particolare, postumo. E le singolarità di questa poesia continuano appunto con la citazione di una frase (Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembri) che è obbligatoria sugli specchietti laterali dei veicoli a motore negli Stati Uniti, in Canada e in altri paesi: ovviamente in questo contesto l’avvertenza assume tutt’altro significato.
Il primo lungo verso afferma perentoriamente la scomparsa del soggetto nello specchio (quasi a ribadire il verso della poesia citata in precedenza Me he convertido en nadie.) oltre a dare un riferimento temporale con il verbo al passato, il locutore racconta l’evento situandolo in un contesto temporale preciso Aquella mañana. , quasi per costringerci ad accettare come possibile un episodio inverosimile (ma nella poesia come nei sogni reale ed irreale, vero e falso, sono categorie inapplicabili, a meno che non si voglia imputare di falsa testimonianza Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, ecc.). La terzina successiva conferma nell’ultimo verso quanto affermato nell’incipit, rendendo ininfluente l’indeterminazione dei precedenti due versi rispetto ad una condizione che nella realtà è indispensabile: per vedere è necessario avere gli occhi aperti. La strofa successiva, la più lunga, ci racconta di una visione la cui lontananza (al fondo, a lo lejos, más al fondo) il primo verso ci segnala con insistenza (ma qui il lettore ricorda l’avvertenza citata in inglese), confermata dalla scelta del soggetto (i nonni, in quello che probabilmente è il ricordo di un’agonia). La terzina successiva ribadisce sinteticamente quanto detto nelle strofe precedenti (ancora una forma di ripetizione differente). Il distico seguente rafforza la dimensione fantastico/onirica con un’eco che proviene dallo specchio, ma anche qui come nella seconda strofa il ricordo è incerto. Il verso successivo colloca l’io narrante aquí (che potrebbe essere paradossalmente un aldilà!) ancora nel passato, subito dopo l’episodio iniziale, ma che evidentemente continua fino al presente. Il verso finale si rivolge direttamente ad un destinatario plurale, cui viene attribuito l’essere a conoscenza de Lo demás , ma i puntini sospensivi finali aprono uno scenario di incertezza, di dubbio, e allo stesso tempo sembrano rinviarci ad un dopo. Che coloro che sabéis siano gli assenti (condizione alla quale tutti sono destinati) sembra indubbio. Che un assente, parlando agli assenti, riesca contemporaneamente a parlare con noi lettori, presenti e futuri, è un piccolo miracolo che la poesia compie ormai da diversi millenni.
Concluderei questo breve excursus nella poesia di Piqueras con l’esortazione, che il poeta rivolge ad un te che è a un tempo il lettore e se stesso, contenuta nei versi finali di Sal de ti (che mi consentono di far notare en passant la predilezione dell’autore per i lunghi elenchi):
No huyas de lo que sientes. No permitas
que la vida se vaya de vacío,
que la muerte se encuentre cuando llegue
su trabajo ya hecho. Mira al cielo
como quien dice adiós,
como quien da las gracias.
[Non fuggire da quel che senti. Non permettere/ che la vita passi invano,/ che la morte al suo arrivo trovi/ il lavoro già fatto. Guarda il cielo/ come chi dice addio,/ come chi rende grazie. – Vigilia di restare, cit. pp. 102-103, traduzione di R. Marzano].
Giancarlo Cavallo
* Le opere pittoriche sono di Carlo Carrà.
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