Ricordo con particolare piacere una breve traversata in traghetto da Amalfi a Salerno, al termine di una memorabile edizione degli Incontri internazionali di poesia intitolata “Parole di mare” (21-22-23 luglio 2000), alla quale parteciparono tra gli altri Lawrence Ferlinghetti, John Giorno, Jack Hirschman, Izet Sarajlic e una esplosiva Janine Pommy-Vega, oltre al grande Jorge Enrique Adoum. Si era stabilita, tra l’anziano poeta ecuadoriano e me, una simpatia basata sulla stima reciproca e, da parte mia, sull’ammirazione per la sconfinata cultura e la coerenza umana e civile di Adoum. Troppo poco ho avuto l’occasione di incontrare un uomo dalle maniere gentili e dalle grandi doti affabulatorie, che purtroppo la morte ci ha strappato nel 2009, tuttavia sono fiero di aver potuto scrivere nel 2007 una recensione all’antologia L’amore disinterrato e altre poesie (Multimedia, 2002) che riletta a distanza sembra ancora reggere all’usura del tempo (http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/l-amore-disinterrato-e-altre-poesie/jorge-enrique-adoum-l-amore-disinterrato-e-altre-poesie/recensioni). Peraltro, all’interno dello stesso sito di Casa della poesia o di quello della fondazione Adoum (http://www.jorgenriqueadoum.com/) è possibile trovare ampie notizie bio-bibliografiche oltre a qualche poesia, immagini, video e audioclip, che ci lasciano intendere in quale misura questo piccolo – di statura – uomo (non a caso era soprannominato “turquito” piccolo turco, con evidente allusione ai suoi antenati mediorientali) fosse un gigante della letteratura mondiale, e, mi si consenta, stupire per quanto poco di lui si sia detto in Italia.
D’altronde va sottolineato che la biografia (l’esilio, i viaggi, la residenza in Asia ed in Europa, ecc.) costituisce un dato essenziale per l’opera di Adoum. Rinvio quindi il lettore, nell’impossibilità di approfondire tale aspetto in questa sede, alle suddette fonti; tuttavia ritengo indispensabile accennare a quello che è stato un avvenimento fondamentale nella formazione di Adoum: l’essere stato giovanissimo segretario di Pablo Neruda gli ha consentito, come egli stesso ricorda in varie interviste (ad es.: www.jornaldepoesia.jor.br/ag38adoum.htm), di conoscere prima e di diventare amico, in seguito, di alcuni tra i protagonisti della letteratura internazionale, come Julio Cortazar, Nicolás Guillén, Miguel Angel Asturias, Rafael Alberti, Violeta Parra.
Sempre Adoum ci parla di quanto sia stato difficile e necessario liberarsi del “nerudismo”: “tutti subivamo allora, in maggiore o minore misura, l’influenza di Neruda: in fin dei conti incarnava e traduceva in versi una sensibilità latinoamericana e mondiale ed un soprassalto nuovo della poesia che, per l’accoglienza unanime, è da supporre che stesse nell’aria. […] La differenza, al principio, era che, mentre su alcuni influivano ancora le “Venti poesie d’amore e una canzone disperata”, altri camminavamo già addentrandoci negli impervi luoghi surrealisti di “Residenza nella Terra”. […] L’errore, nel mio caso, fu scrivere le mie cose mentre sentivo, dentro e fuori di me ed intorno, nota per nota, il “Canto generale del Cile”, e convivere a contatto col suo autore. Col risultato che, come ho raccontato molte volte, quando apparve “Ecuador Amaro”, nel 1949, Pablo mi inviò una lettera di due paragrafi: raggruppava, nel primo, le cose ‘Positive’ e, in ‘Negativo’ diceva: ‘Devi liberarti di un nerudismo che non ti è necessario. Questo lo sapevo già, prima di lui, e per scrollarmelo di dosso, per allontanarlo come un immenso calabrone della poesia, cercai antidoti – Whitman, Eliot, Majakovskji, Prévert, Pessoa, Ritsos… – contro la retorica della metafora, contro le decorazioni, broccati e ricami dell’abito nerudiano della poesia (J.E. Adoum De cerca y de memoria , Quito 2003, pp.103-104).
Dell’impegno politico di Adoum, altro perno della sua poetica sin dall’esordio, sia testimone (e mi scuso per la rapidità dell’accenno, ma posso rimandare il lettore a La poesía de Jorge Enrique Adoum en el contexto social, político e histórico ecuatoriano ampia tesi dottorale discussa da José Raúl Guzmán Bárcenes all’Università di Salamanca nel 2010 – reperibile in rete – oltre alle fonti già citate), se non altro, la splendida “Che, fugacidad de su muerte” (pp. 154-161 – il numero in corsivo tra parentesi si riferisce, salvo diversa indicazione, a L’amore disinterrato e altre poesie, traduzione a cura di Raffaella Marzano, Multimedia, Salerno 2002) scritta per il trentennale della morte di Ernesto Che Guevara. Non si può peraltro prescindere dal contesto sudamericano della seconda metà del XX secolo, costellato di colpi di stato e feroci dittature, che hanno influito sulla vita dello stesso Adoum, partito per sei mesi per un programma UNESCO e rimasto, a seguito di un colpo di stato attuato nel suo paese nel 1963, in esilio per 24 anni: questa situazione determinerà un atteggiamento di forte disincanto e pessimismo che emerge chiaramente nelle poesie del nostro autore, e che alcuni critici (direi a torto) gli hanno rimproverato.
Un altro aspetto imprescindibile dell’opera dello scrittore ecuadoriano che vorrei sottolineare prima di addentrarmi nell’analisi dei testi, è costituito dal lavoro di sperimentazione sulla lingua, che coniuga un assunto teorico, la necessità di liberarsi della lingua dei “conquistadores”, con l’esigenza di avvicinarsi il più possibile al quotidiano. Mi sembra che Selena Millares sintetizzi molto bene tale questione: “Si tratta di un viaggio rischioso alle viscere della lingua: le parole si distorcono, si confondono, in una danza magnetica che, tuttavia, rimane nel lato visibile della realtà, lontano da ermetismi o metafisiche. […] I neologismi, spesso di stirpe quevedesca, come le contorsioni della parola, sono un modo di disalienarla, di dignificarla, […].” (S. Millares Médula y sentido en la obra de Jorge Enrique Adoum in “La literatura hispanoamericana con los cinco sentidos. V Congreso internacional de la AEELH”, 2005, p. 431). Vorrei ricordare, su questo tema, un contributo dello stesso autore sudamericano dal titolo La degradación moral de la palabra (decimo capitolo del libro “Ecuador: señas particulares” edito nel 1998), lucida e sferzante analisi del rapporto tra lingua, intellettuali, potere e classi subalterne.
L’opera di Jorge Enrique Adoum è non solo più che cospicua, ma anche di grandissima complessità, sicché mi sono trovato a dover effettuare una selezione molto restrittiva, pur riferendomi solo all’antologia pubblicata in Italia, ed ho scelto Postales del tropico con mujeres (Cartoline del tropico con donne, pp.66-79), avendo già avuto occasione di fare qualche riflessione su “El amor disinterrado” (nella recensione sopra citata) e spinto forse dal fatto che non ho trovato altri approfondimenti su questa bella raccolta.
Leggiamo insieme la prima di queste poesie (pp.66-67)
I
De espaldas al mar, resentidas con el mar,
miran pasar torpe la tarde basurera del domingo
que barre el polvo que dejó la semana cabeceando.
Jóvenes, demasiado, se fueron los varones a buscar trabajo.
“Bah, pretexto para irse” dicen con una pena oceana.
Todavía las melancoliza la lluvia en las pestañas
y susususpiran crepusculares de memoria y soltería.
“Yo he de volver, me dijo. Le dije: Para qué si quieres irte.
Pero le esperábamos mi cuerpo y yo,
tal vez yo solamente”.
¿Verdaderamente
nadie les lame la espalda con los ojos,
nadie les ve las ninfas con una lengua miope
y sólo el viento seca con arena en su entrepierna
su saliva de mar? ¿No les pone el sábato
mordeduras de hombres en los hombros
con que se comprobarían hoy día emparejadas?
“¿Jamás?
¿Nuncamásmente?”
De pronto dos se miran, atardecen
y tiemblan. Se descubren queribles y, brumosas,
intuyen, celebración litúrgica simétrica,
el amor en espejo entre dos vírgenes.
[Di spalle al mare, arrabbiate con il mare,/ guardano passare lento il pomeriggio che spazza via la domenica/ che spazza la polvere che ha lasciato la settimana barcollando./ Giovani, troppo, se ne andarono i maschi a cercare lavoro./ “Bah, pretesto per andarsene” dicono con una pena oceana./ Ancora le rattrista la pioggia nelle ciglia/ e sososospirano crepuscolari di memoria e nubilato./ “Tornerò, mi disse. Gli dissi: Perché se vuoi andartene./ Però lo aspettavamo il mio corpo e io,/ forse io solamente”./ Davvero/ nessuno le lambisce la schiena con gli occhi,/ nessuno le vede il sesso con una lingua miope/ e solo il vento asciuga con sabbia fra le gambe/ la loro saliva di mare? Non lascia il sabato/ morsi di uomini sulle loro spalle/ che le proverebbero oggi accoppiate?/ “Mai?/ “Giammaimaipiù?”/ A un tratto due si guardano, imbruniscono/ e tremano. Si scoprono amabili e, brumose/ intuiscono, celebrazione liturgica simmetrica,/ l’amore allo specchio fra due vergini.]
Ritengo che, se si vuol rendere giustizia ad un poeta così grande e ad una poesia tanto complessa, non ci si possa fermare ad un semplice livello di analisi lessicale, ma bisogna provare ad accedere al livello sintattico.
La poesia si apre, come vediamo, con tre lunghi versi, in cui il soggetto principale è sottinteso (ellas, le “mujeres” del titolo, che sottintese resteranno per l’intera poesia) e tuttavia così fisicamente e psicologicamente presente. Ad una proposizione principale che occupa l’intero secondo verso (“miran ecc.”) si collegano i due incisi del primo verso (che descrivono l’atteggiamento prima fisico e poi psicologico nei confronti del mare) e la subordinata del terzo verso che ha per soggetto la “tarde” (del domingo), che è altresì l’oggetto della principale, ossia quello che queste donne guardano passare. È solo l’inizio di una poesia che nel corso di 23 versi (in maggioranza lunghi) vede alternarsi degli inserti di discorso diretto, delle interrogative alquanto articolate, dei versi a scalino, un neologismo per fusione (Nuncamasmente), che peraltro richiama, chiudendo il cerchio delle interrogative, l’avverbio d’apertura “Verdaderamente”, mentre più su avevamo incontrato il neologismo onomatopeutico “susususpiran”.
I versi da 4 a 10 si collegano con i tre precedenti fornendo una motivazione all’atteggiamento del primo verso: il mare diventa l’oggetto di un rifiuto in quanto mezzo per l’allontanamento/fuga degli uomini; ma costituiscono, con l’alternarsi di allontanamento e attesa (se fueron a buscar, irse, volver, irte, esperàbamos) e soprattutto con l’attribuzione ai “varones” della qualifica di “jovenes”, non a caso rafforzata dall’inciso “demasiado”, che lascia sottintendere che difficilmente questi uomini troppo giovani sarebbero restati fedeli alle loro mujeres.
La chiusura, affidata ai quattro versi finali, comincia con un avverbio di tempo (De pronto) cui segue il soggetto “dos”, che sottintende sempre mujeres, che regge tre verbi in successione (se miran, atardecen/ y tiemblan) rallentata dall’enjambement; quindi ancora (terz’ultimo e penultimo verso) due verbi (se descubren e intuyen) retti dallo stesso soggetto sottinteso, un inciso (celebraciòn litùrgica simétrica), per concludersi con un verso apparentemente semplice, retto dal precedente “intuiscono” (e dunque con forte coloritura psicologica), in cui ritorna il “dos”, questa volta accompagnato da “virgenes” (vergini) che si amano “en espejo”, quasi sospese tra autoerotismo e omosessualità, che logicamente chiude questo quadro in cui gli uomini sono andati via e sono attesi invano. Racconto poetico molto complesso, come si vede, – a confermare quella “filiazione barocca” individuata da Selena Millares (in op. cit. p. 427) – in cui la dialettica uomo-donna (ma forse sarebbe più giusto dire donna-uomo), presenza-assenza, corpo-psiche, è declinata con particolare finezza ed acutezza. Ma soprattutto, e questa considerazione può essere estesa all’intera serie, racconto caratterizzato da una vivace polifonia e da sfalsamenti del piano temporale che ne accentuano la profondità prospettica.
Vorrei inoltre sottolineare la presenza discreta ed antitetica del “domingo” (disforica) e del “sábado” (euforica/erotica). Elementi che ritroviamo spesso nel libro e dei quali vorrei verificare la costanza della loro caratterizzazione. Ritroviamo infatti la domenica nelle successive due poesie di questa serie; ritorna ben tre volte nella seconda, nella quale essa è dapprima apparentemente legata alla possibilità di sopravvivere (vivere la domenica sera e persino prolungarsi fino al domani) nella seconda strofa, immediatamente smentita dal ma (“Pero”) che apre la terza strofa in cui si rammenta il suicidio di un’altra donna e si conclude con un esplicito “a morir el domingo de noche”. Nella terza poesia la relazione è meno chiara, anche se “sull’orlo della domenica” non appare particolarmente euforico, come peraltro confermato alcuni versi dopo dal fatto che l’uomo doveva tornare una domenica sera ed evidentemente non l’ha fatto. La ritroviamo ancora più volte in “Sobre la inutilitad de la semiología” (pp.80-91) che si apre proprio con la parola “Domingo.” seccamente chiusa da un punto e chiosata dalla successiva frase che ricorda un mal di cuore letterale e metaforico; successivamente troviamo “el sol, cartero de los domingos por la tarde” (il sole postino delle domeniche pomeriggio), ma esso è “già passato” ed inoltre l’intera vicenda adombra un presunto suicidio di una giovane donna); poi “tanto noioso come un pomeriggio di domenica alle Galapagos”; ancora, alcuni versi dopo, la donna sta per uccidersi “al fin y al cabo es/ domingo de tarde” (dopo tutto è/ un pomeriggio di domenica); e dopo molti versi di questa lunga poesia, la morte del fratello dell’autore avvenuta “un domingo de agosto por la tarde” (una domenica d’agosto di sera); infine la strofa finale in cui all’idea che la vita continuerà dopo questa domenica si contrappone l’eventualità che qualcuno, forse lo stesso poeta, possa morire in questo giorno.
Successivamente troviamo la poesia significativamente intitolata “Sunday Bloody Sunday” (pp.108-109) ed aperta da una citazione di Cesar Vallejo che dice “…el domingo bocon del sepulcro” cui fa eco la chiusura del primo verso con “el sepulcro del domingo”; segue il primo verso della seconda strofa “il mondo è da anni una domenica pomeriggio” e la terza strofa si apre con l’avverbio “domenicalmente” legato a “starai morendo” del verso successivo. Solo in “Mayo de 1968 (siglo XXI)” (pp.134-143) troviamo la domenica intesa come festa, astensione dal lavoro (“como un domingo de/ siete dias”), ma l’eccezionalità di tale attribuzione è ribadita in “Versión de un testigo presencial de la lluvia” (Versione di un testimone oculare della pioggia, pp. 150-153) dove troviamo una “domenica fatta a pezzi”. Il bilancio, anche a voler considerare qualche ambiguità, non lascia spazio ad interpretazioni diverse: la domenica in Adoum è legata a situazioni di morte o comunque di depressione.
Veniamo al sabato, che appare meno di frequente: lo troviamo nel lungo poema di apertura “El amor desenterrado” (pp.10-41) in cui si incontrano “los fornicadores los sábados de noche”. Quindi, oltre naturalmente alla poesia analizzata in precedenza, rieccolo in “La muchacha de Tokio” (pp. 128-129) collegato ad un’avventura erotica (ma sull’erotismo in Adoum va fatto un discorso più approfondito per rilevarne le complesse declinazioni); infine lo ritroviamo nella già citata “Maggio del 1968” a chiudere in questo modo una strofa “el deseo de los sábados”, ancora una volta inequivocabilmente legato ad una situazione erotica.
Mi sembra di aver argomentato a sufficienza quanto in precedenza sostenuto rispetto a questi due cruciali giorni della settimana e mi scuso con il lettore che possa aver trovato noioso questo, necessario a mio avviso, excursus.
Dicevo, appunto, che l’erotismo, uno dei grandi temi presenti nella poetica del nostro autore, richiede una trattazione che prenda in considerazione le implicazioni e le sfumature originalissime che ci si presentano. Non ho la presunzione di poterlo fare, quanto piuttosto vorrei indicare alcuni spunti che contribuiscano a valorizzare l’opera dello scrittore ecuadoriano. Premetterei questa considerazione emblematica: “Ugualmente, l’erotismo non deve essere gioioso, bensì fragilità e rottura, fugacità che ricorda ostinatamente l’impossibilità del paradiso” (Selena Millares, op. cit., p. 429). L’abbiamo riscontrata già nella precedente, ma verifichiamola in altre poesie:
III
Le gustaban los hombres, sanamente, y a ellos la cerveza.
Por eso puso el único bar del pueblo (una mesa y tres sillas
que tenía en la sala) a la vera de la calle, frecuentado
por los solitarios que hablan entre ellos al borde del domingo.
(Los demás días los perros, las gallinas y los cerdos
se revuelcan bajo los muebles y un gallinazo a veces
se abate sobre la mesa y fi ja allí su territorio.)
La música de su radio ruidosa entre las moscas
llega a avisarles qué día es al carbonero y su señora
y le sana al tartamudo del canto de la misa.
Los marineros la buscan para oír otra vez otra voz,
ronca de aguardiente y hembra, en la que atracan
después del viaje con silencio a yodo.
Pregunta con insistencia de dos veces
viuda y sin viudedad (demasiadamente viuda),
y sin entender la geografía oral de las explicaciones,
en dónde quedan los paisajes de las postales
que alguien le mandaba. (Las prendía en la puerta
con el texto hacia arriba porque las noticias
le gustaban más que las fotografías.)
Pregunta por el hombre que iba a volver
un domingo de tarde (hace ya quince meses),
que se llevó el reloj del marido (parado en la hora
en que murió de un tiro) para que lo compusieran
allá lejos dijo, donde hay buenos relojeros dijo,
y sus zarcillos como contraseña de que regresaría
a ponérselos de nuevo (¿ceremonia nupcial?)
“con estas mismas manos que te amaron anoche”
y llevársela a uno de esos países para que ría.
Pregunta por qué no ha vuelto ni ha vuelto
a enviar tarjetas. En dónde está. Per qué no viene.
(Si desde aquí se ve que el mar es liso qué pretexto
tiene.) Díganle que venga. Que a él le consta
que los zarcillos le estobaran a la hora de acostarse
y que si no se pudo reparar el reloj no importa.
Total sólo sirvió dos veces cuando indicó la hora
en que alguien se marchaba para siempre.
[Le piacevano gli uomini, sanamente, e a loro la birra./ Per questo aprì l’unico bar del paese (una tavola e tre sedie/ che teneva nella sala) sul lato della strada, frequentato/ dai solitari che parlano tra loro sull’orlo della domenica./ (Gli altri giorni i cani, le galline e i maiali/ si rotolano sotto i mobili e un avvoltoio a volte/ si abbatte sulla tavola e fissa lì il suo territorio.)/ La musica della sua radio rumorosa tra le mosche/ arriva a dire che giorno è al carbonaio e alla sua signora/ e guarisce il balbuziente dal canto della messa./ I marinai la cercano per sentire un’altra volta un’altra voce,/ roca di acquavite e femmina, alla quale attraccano/ dopo il viaggio con silenzio di iodio./ Chiede con insistenza di due volte/ vedova e senza vedovanza (esageratamente vedova),/ e senza capire la geografia orale delle spiegazioni,/ dove sono i paesaggi delle cartoline/ che qualcuno le mandava. (Le spillava alla porta/ con il testo verso l’alto perché le notizie/ le piacevano più delle fotografie.)/ Chiede dell’uomo che doveva tornare/ una domenica sera (da quindici mesi ormai),/ che si portò l’orologio del marito (fermo all’ora/in cui fu ucciso da uno sparo) affinché lo riparassero/ laggiù lontano disse, dove ci sono buoni orologiai disse,/ e i suoi orecchini come pegno che sarebbe tornato/ a metterglieli di nuovo (cerimonia nuziale?)/ “con queste stesse mani che ti hanno amato ieri notte”/ e portarsela in uno di quei paesi perché ridesse./ Chiede perché non è tornato né è tornato/ a mandarle cartoline. Dove sta. Perché non viene./ (Se da qui si vede che il mare è piatto che scusa/ ha.) Ditegli di venire. Che lui sa/ che gli orecchini lo disturberanno all’ora di coricarsi/ e che se non si è potuto riparare l’orologio non importa./ In fondo servì solo due volte quando segnò l’ora/ in cui qualcuno se ne andava per sempre.] (pp.68-71)
(Di questa poesia si trova in rete il video di una magnifica lettura effettuata dall’autore al Festival di Medellin https://www.youtube.com/watch?v=F-IOlGY6Zjo )
Anche qui troviamo conferma di quanto affermato dalla Millares: infatti questa vedova, “demasiadamente” vedova (e si noti che questo avverbio richiama il “demasiado” riferito ai giovani maschi andati via della prima poesia) oltre al marito morto registra l’assenza dell’amante truffatore. Colpisce immediatamente il proliferare di parentetiche – intendendo in questo caso solo quelle racchiuse tra parentesi – (addirittura otto, di cui due di ben tre versi!), il cui uso nelle altre liriche di questa serie è quantomeno molto più parco e talvolta assente; si direbbe che attraverso questo continuo cambio di intonazione si voglia raggiungere un effetto di rallentamento, quasi di sospensione temporale che potrebbe essere una caratteristica dell’intera raccolta. D’altronde l’uso delle parentesi non è estraneo alla scrittura di Adoum, tutt’altro: basti scorrere il poema eponimo posto in apertura del libro per rilevare la frequenza intensa con cui il fenomeno si presenta (ed anche in questo caso troviamo sequenze di più versi, perfino sei, o addirittura di più strofe – ben quattro in un caso! – tra parentesi). A tale proposito si può convenire con quanto dice Bice Mortara Garavelli: “le inserzioni parentetiche […] provocano discontinuità nell’enunciato. Ne spostano o cambiano radicalmente le coordinate (di persona – spazio – tempo), creando stratificazioni discorsive. Producono effetti polifonici: intrecci di voci o di toni. Attuano passaggi dal «mondo narrato» al commento[…]” (B. Mortara Garavelli, Prontuario di punteggiatura, Roma-Bari 2003, pag. 105). E qui troviamo spesso un cambiamento di coordinate temporali, con riferimenti al passato recente e al passato remoto e una promessa di futuro inadempiuta, e spaziali, con un qui molto ben definito ed un indefinito altrove (“i paesaggi delle cartoline”, “laggiù lontano”, “uno di quei paesi”), oltre a diversi commenti (dell’autore o del narratore?).
Ma anche l’uso del polisindeto e della punteggiatura spezzano continuamente il verso, creano pause, incisi, quasi una risacca che ritma il trascorrere lento delle ore in questa torpida periferia tropicale. D’altronde perfino l’orologio rotto non lascia spazio ad equivoci sulla frammentarietà (stavo per dire relatività!) del tempo in questo bar dove si consuma un’attesa ormai da “quindici mesi” e la cui vicenda si conclude con “l’ora/ in cui qualcuno se ne andava per sempre”. Dunque un erotismo fisicamente quasi doloroso nella sua impossibilità di tornare a realizzarsi, di divenire amore. “Le gustaban los hombres”, “voz, ronca de aguardiente y hembra” (e si noti il gioco allitterante “oír otra vez otra voz” e subito dopo il metaforico “attraccano”), “viuda y sin viudedad”, “con estas mismas manos que te amaron anoche”, sono i segnali erotici che evidentemente marcano questa poesia.
Pure la successiva quarta poesia della raccolta (pp.70-73) conferma questo rapporto tra erotismo e infelicità: la donna nuda si guarda nello specchio, in attesa dell’amante clandestino, “attestandosi ancora adatta alle occupazioni notturne”, ma con una serie di limiti fisici (conseguenza di colpi, parti, ecc.) e psicologici (“la tristezza/ che la imbruttisce come un taglio nel ventre”). Ed è in questa altalena tra una violenta presenza fisica ed una ricorrente depressione che si consuma questo rito ripetitivo ed insoddisfacente.
Veniamo dunque a quello che nella successiva (la V e la VI non sono state incluse nell’antologia per espressa volontà dell’autore, ma sostanzialmente completano questo catalogo di donne sconfitte) si presenta come uno scenario totalmente diverso, almeno a giudicare dalle protagoniste di questa “cartolina” (pp.72-73):
VII
Cuando estira los pies y no llega a los pedales
se hace mujer de golpe a lado y lado,
se le alargan las piernas antes de tiempo
y se le alza la falda antes de hora.
Las alumnas más pobres la siguen en bandada
corriendo tras la rueda. Ella avanza dejando
la estatua sucesiva de su ausencia, propietaria
de muslos precoces y fugaces y de la única
bicicleta de mujer que hay en el pueblo.
(Cuando se entristece es porque ha crecido, y frena.)
Por turno, las demás niñas trepan al asiento, caen,
son más pequeñas en el suelo y desde allí le envidian
quizás la bicicleta, tal vez las piernas largas.
Vienen las muchachas de las clases fi nales
que ya no llevan trenza y se cubren los pechos
con libros y cuadernos guardándose para alguien.
Y ella, como si fuera una de ellas, las deja montar,
“pero hasta el poste, no más”, no sea que se vuelvan
mujeres al dar vuelta la esquina y ya no vuelvan.
[Quando tende i piedi e non arriva ai pedali/ diventa donna d’un colpo dai due lati,/ le si allungano le gambe prima del tempo/ e le si solleva la gonna prima dell’ora./ Le alunne più povere la seguono in stormo/ correndo dietro la ruota. Lei avanza lasciando/ la statua successiva della sua assenza, proprietaria/ di cosce precoci e fugaci e dell’unica/ bicicletta da donna del villaggio./ (Quando si rattrista è perché è cresciuta, e frena.)/ / A turno, le altre bimbe si arrampicano sul sellino, cadono,/ sono più piccole a terra e da lì le invidiano/ forse la bicicletta, chissà le gambe lunghe./ Arrivano le ragazze delle ultime classi/ che già non portano più la treccia e si coprono i seni/ con libri e quaderni riservandosi per qualcuno./ E lei, come se fosse una di loro, le lascia salire,/ “fino al palo, e poi basta” non sia mai che diventino/ donne allo svoltare l’angolo e non ritornino più.]
Evidentemente qui assistiamo ad un rito di passaggio, in una dimensione spazio-temporale quasi cinematografica, data l’evidenza icastica. Anzi, per essere più precisi, mi tornano in mente i primi esperimenti fotografici di cattura del movimento di Marey o di Muybridge (e successivamente in pittura con Duchamp o Boccioni ad es.), in particolare relativamente ai versi “avanza lasciando/ la statua successiva della sua assenza”.
Il processo, a mio avviso, è raddoppiato: ciò che avviene psicologicamente nell’adolescente padrona della bici (il desiderato e temuto passaggio da ragazzina a quasi donna), ci viene riproposto fisicamente attraverso i tre gruppi e le loro azioni: le “niñas […] más pequeñas”, l’adolescente che “ha crecido, y frena”, “las muchachas […] que ya no llevan trenza y se cubren los pechos”.
Come sempre raffinatissimo, con un ritmo sapientemente creato attraverso ripetizioni (ad es. la quasi epifora “antes de tiempo” – “antes de hora”), parentetiche, inserti di discorso diretto (“fino al palo, e poi basta”), il poliptoto finale (“se vuelvan” – “dar vuelta” – “no vuelvan”) ed una sintassi ancora una volta per nulla lineare, quasi a rendere per mezzo di arresti e riprese il conflitto psicologico in atto, il groviglio di sentimenti contraddittori messi in scena.
In questo caso l’erotismo è meno esplicito, ma filtra sottile ed insidioso attraverso pochi termini e locuzioni: i versi 3 e 4, ad esempio, che sembrano illustrare il “se hace mujer” con le relative conseguenze fisiche (“se le alargan ecc.”), “muslos precoces”, ancora “las piernas largas”, “los pechos” (con il già ricordato gesto di nascondere il seno con i quaderni), “guardandose para alguien”, “vuelvan mujeres”.
Molto velata è anche la tristezza, sentimento che traspare nell’aggettivo “fugaces” (parola che torna spesso in Adoum in posizione preminente, come abbiamo visto nel titolo della poesia dedicata al Che e che ritroviamo in quello di una raccolta di racconti “Gli amori fugaci”), nel verbo “se entristece” e, credo, soprattutto nel finale “no vuelvan”, che conferisce un senso di irreversibilità al naturale svolgersi della vita.
Leggo l’VIII di queste cartoline (pp. 74-75) ed arrossisco di fronte a tanta maestria. L’amore e la morte mutano totalmente il loro significato in una coppia di anziani. La prossimità della morte, resa fisicamente attraverso la presenza “dello squadrone immobile di avvoltoi a digiuno”, capovolge completamente la prospettiva esistenziale e il paradosso diventa, a mio avviso, la figura dominante della (anti) lirica.
Anche questa poesia comincia con “cuando” (come la precedente che il quando ripeteva anche in chiusura della prima strofa all’inizio della parentetica, mentre nella II era ad inizio della seconda strofa dopo essere apparso nel secondo verso per poi ritornare nel settimo, nella III al penultimo verso, nella IV al verso 4 della terza strofa, in questa VIII ritorna ancora al penultimo verso della seconda strofa, ma lo ritroviamo molte volte ad inizio di verso o di strofa in El amor desenterrado) a dimostrazione che questo avverbio di tempo, e dunque il tempo in generale, riveste un’importanza decisiva e forse proprio nel senso indicato dalla sopra evidenziata “fugacità”.
Ma qui non si tratta di lezioso sentimentalismo, tutt’altro: direi che siamo in un teatro della crudeltà nel cui realismo meraviglioso c’è posto anche per la “ternura” (tenerezza, altra parola chiave) che in Adoum diventa sovversiva (come apprendiamo in El amor p. 18).
Dicevamo del paradosso: “spaventare la paura”, “fecero […] le prove del rancore coniugale”, “si presentì di nuovo corpo senza padrone”, “si imbuonirono”, “partorire da dentro il mio cadavere”, “i due volendo volersi ancora” e l’intera terza e conclusiva strofa di soli due versi “ma si toccarono soltanto le dita con timidezza di ciechi/ vergognosi per quella infedeltà che stavano per commettersi”.
Sul piano sintattico ritroviamo tutti gli artifici che costringono il lettore ad un continuo cambio di intonazione (discorso diretto, parentetiche) in questo caso più rarefatti, ma comunque in un intrico di subordinate che bene accompagna lo svolgersi paradossale di questa riconciliazione vissuta dall’antica coppia come infedeltà al proprio rancore.
Giunti alla IX (pp. 74-77) e penultima della serie, troviamo alcune conferme e qualche novità: ancora incisi e parentetiche, ancora uomini (“Los maridos”) lontani e donne presenti in sofferenza. Assistiamo alla personificazione degli oggetti – “Le cose […] mi accusano”, “la scarpa […] gridando”). Velatamente per la prima ed unica volta si affaccia la cruda realtà politica: una donna portata via con la forza dalla polizia, i manifesti elettorali presidenziali che vengono incollati da qualcuno, ma che i due versi finali si incaricano di connotare negativamente attraverso un ardito passaggio metaforico: “pennellate di colla che cadeva in lente gocce sporche/ sugli occhi di quelle che non avevano ancora pianto.”
Ed eccoci arrivati all’ultima, la X (pp. 76-79), di questa breve e intensissima raccolta. L’inizio brusco, in medias res, stabilisce, a ben vedere un rapporto forte con l’incipit della I cartolina e dunque dell’intera serie: lì avevamo “De espaldas al mar” (Di spalle al mare) e qui “Esta vez frente al mar” (Questa volta di fronte al mare). Quasi una situazione speculare, benché qui solo ipotetica, marcata da una lunga catena di protasi, ben sette snocciolate in una sorta di litania anaforica (Se…se… se… ecc.) volta a prolungare l’attesa del lettore, che si conclude nell’apodosi di tre versi con tre condizionali (chiederebbe, imparerebbe a nuotare, se ne andrebbe).
Gli ultimi sette versi sono, se vogliamo, la sintesi del pensiero di Adoum sull’amore in poesia, così come espresso nelle “Note per un prologo” agli “Amori fugaci” (e come in precedenza visto nella citazione della Millares a proposito dell’erotismo): la felicità è sull’ “altra costa invisibile”, irraggiungibile, e, quasi come nella favola esopica della volpe e l’uva, la donna non la vuole, “non è matura”.
Riporto gli ultimi quattro versi che mi sembrano un vero capolavoro, nei quali, come sulle montagne russe, si raggiunge un apice di lirismo con due splendide metafore e una similitudine, per poi precipitare nel più assoluto quotidiano realismo:
se recoge el pelo sacudiéndose la idea, se sacude
el corazón como un niño que deja de llorar,
se sacude la arena de la falda, recuerdo de su desvarío,
y se va – son las seis – a preparar la cena del marido.
[si raccoglie i capelli scuotendosi l’idea, si scuote/ il cuore come un bambino che smette di piangere,/ si scuote la sabbia dalla gonna, ricordo del suo delirio,/ e se ne va – sono le sei – a preparare la cena del marito.]
Come si vede il passaggio avviene attraverso l’iterazione del verbo “sacudir” (scuotere) utilizzato prima due volte in senso metaforico per poi divenire un gesto fisico, abituale, nel penultimo verso. Si noti ancora una volta l’inciso “son las seis”, che, più che una constatazione contingente, isola il ritmo routinario e quindi il tempo fermo, immutabile nel proprio ripetersi uguale, della donna/moglie a servizio del marito. Direi che non è un caso che queste cartoline “con mujeres” si concludano con l’abbandono dell’idea di andare via attraversando il mare e con l’accettazione della propria triste realtà, che si concludano proprio con la parola “marido” che in qualche modo sposta il significato di mujere da donna a moglie: anche in questo caso l’erotismo è impossibile, addirittura morto, come l’amante che lei va a trovare una volta all’anno nel suo “cimitero personal,issimo” (e si noti l’ennesima invenzione di questo superlativo spezzato e raddoppiato dalla virgola).
Tanto altro ci sarebbe da dire su questa poesia come sull’intera opera di Adoum, ma solo ora mi accorgo che a nulla è valso l’appello al dio della sintesi, divino sforbiciatore, o all’inflessibile censore: ho di gran lunga oltrepassato la misura che io stesso mi ero assegnato. La clemenza del/la lettore/trice, che evidentemente mi sono già guadagnato se lei/lui sta leggendo queste righe, deriva dalla eccezionalità dell’oggetto che infonde in chi l’avvicina una virtù riflessa, un risuonare d’anime e perfino una passione teneramente disperata.
Giancarlo Cavallo
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Jorge Enrique Adoum (Ambato, Ecuador, 1926), pubblica il suo primo libro di poesia, Ecuador amargo nel 1949, da allora la sua opera comprende più di trenta libri di diverso genere, tra cui ventuno di poesia. Conosciuto fino al 1976 fondamentalmente come poeta, sorprese il mondo letterario con il romanzo Entre Marx y una mujer desnuda, considerato uno dei più importanti romanzi sperimentali dell’America Latina. Si è dedicato altresì con successo al teatro, e ha realizzato una notevole opera critica con saggi su Valéry, Rilke, Eliot, Majakovski, García Lorca, Hughes, e Vallejo, raccolti nel volume Poesía del siglo XX.Vincitore dei più prestigiosi premi letterari dell’America Latina, è stato considerato come il più degno erede della poesia di Pablo Neruda, di cui è stato segretario personale. Le sue opere sono state tradotte e pubblicate in molti paesi e inserite in innumerevoli antologie. Importante il suo De cerca y de memoria: Lecturas, autores, lugares, un libro di ricordi su scrittori e artisti dell’America Latina e dell’Europa. Il 3 luglio 2009 si è spento a Quito, in Ecuador. Multimedia Edizioni ha pubblicato in Italia il volume L’amore disinterrato e altre poesie nel 2002, tradotto da Raffaella Marzano. (Foto di Adoum: Luca Zagaria)
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