Sono grato a Juan Carlos Mestre per la sua amicizia, ma ancor di più per la sua meravigliosa poesia che schiude ai lettori territori inesplorati dell’immaginario, come spero di poter dimostrare a coloro tra i miei lettori che ancora non hanno avuto l’opportunità di conoscerlo o che abbiano il desiderio di approfondire questa conoscenza.
Vorrei iniziare questo percorso di avvicinamento ai suoi versi con un’illuminante citazione tratta da uno dei più noti saggi di Gaston Bachelard: “Il poeta non si limita a descrivere, esalta. Per comprenderlo, dobbiamo seguire il dinamismo della sua esaltazione. Soltanto ammirando il mondo possiamo farne parte. Il mondo è costituito dall’insieme delle nostre ammirazioni. La nostra massima potrebbe essere: Ammira subito, capirai dopo.” (G. Bachelard, La poetica della rêverie, Ed. Dedalo, Bari 2008, p. 196).
Molti hanno potuto ammirare la poesia di Mestre, seguendo la citata massima del filosofo francese, nei recenti tour in Italia del poeta spagnolo (Napoli, Salerno, Paestum, Desenzano, ecc.) e posso assicurare agli assenti che si tratta di vere e proprie performances estremamente coinvolgenti, in cui alle doti di lettore si accompagnano quelle di musicista e di artista visivo (su quest’ultima pregevole attività si può vedere il sito http://www.elcaracoldescalzo.com/). Lo testimonia anche Loretta Frattale: “Ma chi ha assistito alle sue performance sa che nell’onda sonora che il poeta disegna nell’aria durante l’esecuzione, […] ha visto realizzarsi l’atto unitario, la sintesi indissolubile di scrittura e vocalità, una delle intenzioni più profonde della poesia di sempre.” (L. Frattale, Elogio della parola e poesia performativa in Juan Carlos Mestre, in Tintas Quaderni di letterature iberiche e iberoamericane, 4, 2014, p. 48).
Ma abbiamo anche la fortuna di poter disporre di una cospicua antologia, egregiamente curata e tradotta in italiano da Raffaella Marzano e Guadalupe Grande (Juan Carlos Mestre, Le stelle a chi le lavora, Multimedia, Baronissi 2012 – in seguito per brevità Le stelle). Non nascondo di essermi trovato in imbarazzo di fronte a tanta e così valida offerta. Nel compito sempre complicato di proporre una scelta che, pur nella sua esiguità e soggettività, sia comunque emblematica, mi sono venute in soccorso, da un lato le letture pubbliche a cui ho assistito, dall’altro la selezione operata dallo stesso autore nel volume a lui dedicato dalla Fondazione Juan March (Juan Carlos Mestre, Fundación Juan March, Madrid 2018). Il testo appena citato raccoglie gli esiti delle due serate di “poética y poesía”, organizzate dalla Fondazione March con una formula interessante che prevede, in un primo giorno, una conferenza del poeta ospite sulla poesia e, nel secondo giorno, una lettura dei suoi versi (è possibile vedere la videoregistrazione di questo incontro al link https://www.youtube.com/watch?v=an4unTgQxAo). In seguito, mi servirò spesso di questa sua preziosa e consistente dichiarazione di poetica che illumina con inconsuete aperture il territorio controverso e misterioso della poesia.
La Frattale, nel suo breve ma denso saggio su alcuni aspetti della poesia di Mestre, dice: “Nella poesia di Mestre la “parola” recupera una posizione centrale e un pieno riconoscimento del proprio ruolo all’interno dell’iperdinamico processo di creazione e fruizione della poesia. È valorizzata in ogni sua componente ideale e materiale, mentale e corporea, sonora e figurale, fonico-acustica e grafico-visiva. L’Elogio de la palabra con cui si apre La poesía ha caído en desgracia è un atto di fede nei confronti di essa e del suo inalienabile potere di ardere, avvampare, incenerirsi senza mai esaurirsi davvero […]” (L. Frattale, cit. p. 46).
Leggiamolo, dunque, questo Elogio della parola (titolo che non può non far risuonare nella nostra mente il famoso Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam):
Elogio de la palabra
Esta palabra no ha sido pronunciada contra los dioses, esta palabra y la sombra de esta palabra han sido pronunciadas ante el vacío, para una multitud que no existe.
Cuando la muerte acabe, la raíz de esta palabra y la hoja de esta palabra arderán en un bosque que otro fuego consume.
Lo que fue amado como cuerpo, lo escrito en la docilidad del árbol único, será consolación en un paisaje lejano.
Como la inmóvil mirada del pájaro ante la ballesta, así la palabra y la sombra de esa palabra aguardan su permanencia más allá de la revelación de la muerte.
Sólo el aire, únicamente lo que del aire al aire mismo trasmitimos como testamento de lo nombrado, permanecerá de nosotros.
La luz, la materia de esta palabra y el ruido de la sombra de esta palabra.
[Elogio della parola – Questa parola non è stata pronunciata contro gli dei, questa parola e l’ombra di questa parola sono state pronunciate davanti al vuoto, per una moltitudine che non esiste.// Quando la morte avrà fine, la radice di questa parola e la foglia di questa parola arderanno in un bosco che un altro fuoco consuma.// Ciò che fu amato come corpo, scritto nella docilità dell’albero unico, sarà consolazione in un paesaggio lontano.// Come lo sguardo immobile dell’uccello davanti alla balestra, così la parola e l’ombra di quella parola attendono la loro permanenza oltre la rivelazione della morte.// Solo l’aria, unicamente ciò che dell’aria all’aria stessa trasmettiamo come testamento di ciò che è stato detto, resterà di noi.// La luce, la materia di questa parola e il rumore dell’ombra di questa parola. – Le stelle, pp. 58-59, trad. R. Marzano-G. Grande]
Non è la morte, ma il suo superamento, la sua “fine”, (Mestre resignifica el sentido moderno de la muerte, escribiendo “cuando acabe la muerte” – Mestre ridefinisce il significato moderno della morte, scrivendo “quando la morte avrà fine” – leggiamo in Juan Herrera, “El canto del cuclillo, el canto vivo de la muerte en La poesía ha caído en desgracia de Juan Carlos Mestre”, Estudios Filológicos, N° 35, 2000, pp. 183-190) a costituire il cuore pulsante di questa poesia, che costruisce, con una progressione mirabile, la fisicità della parola, cui vengono attribuiti un’ombra, la radice e la foglia, e che, nel verso finale, acquista luce e materia e, riferito alla sua ombra, il rumore. La parola si intreccia con la natura e i suoi elementi: ai citati radice e foglia seguono bosco, fuoco, albero, paesaggio, uccello, aria. Il testamento potrebbe essere reso così: di noi, dopo la morte, resterà la parola, che però possiede tutti gli attributi di un corpo materiale, di un essere naturale. Ma quanto più misera sarebbe questa versione in prosa, che perderebbe immagini straordinarie come quella dello sguardo immobile dell’uccello davanti alla balestra e la preziosa architettura sonora che la pervade, con le martellanti ripetizioni (palabra ben 9 volte, sombra 3 volte, aire 3 volte), nonché la circolarità che apre e chiude questa poesia con il sintagma esta palabra (e va notato che palabra è quasi sempre preceduta dal deittico esta, specificando che non di una generica parola si tratta, ma proprio di questa che si sta materializzando nel testo poetico).
Viene, pertanto, ribadita in maniera inappellabile la centralità della parola, come confermato in apertura della citata dichiarazione di poetica: “Immagino un mondo fatto di parole, una realtà che esiste solo nel linguaggio. Posso presagire un’altra esistenza nella memoria, l’improvvisa presenza di una lontananza che si fa voce senza bocca nel poema attraverso le leggi segrete dell’immaginazione.” (J.C. Mestre, Elogio de la palabra, in Juan Carlos Mestre, cit., pag. 7, in seguito per brevità Elogio – la traduzione dallo spagnolo, quando non indicato diversamente, è mia).
I frequenti riferimenti ad autori come Rimbaud, Lautremont, Bataille, Lezama Lima, ecc., ci porterebbero a situare Mestre in un contesto letterario che trae il proprio humus in quella linea antirazionale che va dal Barocco al Surrealismo, in cui l’analogia estremizzata, così come la dimensione onirica, giocano un ruolo fondamentale nello scardinare il senso comune, gli stereotipi, la “normalità”. Tuttavia, il nostro autore tiene a dichiarare che: “Yo creo, Iván, que yo jamás he escrito desde la irracionalidad. Yo escribo desde la más clara de las conciencias. De los originales de mis libros puede haber dos mil, tres mil páginas de versiones y reiterados acomodos sobre la inicial escritura. Nunca se me ha dado el automatismo como una experiencia reveladora, ya quisiera yo. En ese sentido responde, yo diría, casi a experiencias de vida. Yo no he escrito un sólo verso que no haya formado parte de mi experiencia, de mi interiorización de una experiencia vital.” (Credo, caro Ivan, di non aver mai scritto dall’irrazionalità. Scrivo dalla più chiara delle coscienze. Degli originali dei miei libri ci possono essere duemila, tremila pagine di versioni e ripetuti accomodamenti sulla scrittura iniziale. Mai l’automatismo mi è stato dato come un’esperienza rivelatrice, come vorrei. In tal senso risponde, direi, quasi alle esperienze di vita. Non ho scritto un solo verso che non abbia fatto parte della mia esperienza, della mia interiorizzazione di un’esperienza vitale.”, in Juan Carlos Mestre: «Yo escribo desde la más clara de las conciencias» intervista a cura di Iván Gonzálo Rodríguez, in Oculta lit del 9 luglio 2018, leggibile al link: https://www.ocultalit.com/entrevistas/juan-carlos-mestre-poesia-entrevista-escritura-conciencias/ ). Dunque, una aperta rivendicazione del lavoro del poeta sul proprio testo e della consapevolezza degli esiti che si intendono raggiungere attraverso di esso (infatti, nella stessa intervista, afferma “Yo tengo muy clara la idea mental de lo que quiero expresar.” – Ho molto chiara l’idea mentale che voglio esprimere), un rifiuto della “scrittura automatica” che tanto surrealismo (seguito da alcuni esponenti della beat generation e qualche epigono neoavanguardista) ha praticato nel secolo scorso.
Agli autori sopra citati in qualità di precursori vanno senz’altro aggiunti due capisaldi della letteratura spagnola del ‘900 quali Federico Garcia Lorca e Rafael Alberti, come anche la Frattale ci indica: “La Spagna vanta una consolidata tradizione di performance pubbliche di poesia. Famosissime quelle di Lorca e Alberti. Quelle di Juan Carlos Mestre, pur situabili in una linea di continuità rispetto ad essa, rispondono ad impulsi diversi, si propongono altre finalità, in accordo con la dilatazione, anche mediatica e virtuale, che lo spazio scenico ha sperimentato negli ultimi decenni.” (L. Frattale, cit., p. 46). E, ancora, non si può non fare cenno dell’importanza assunta da Saint John-Perse (incluso tra le letture che per prime lo hanno avvicinato alla poesia con Gamoneda, Pound e Rilke), alla cui traduzione in spagnolo Mestre si è di recente dedicato. Integrerei questo già imponente pantheon letterario constatando che una presenza forte e ricorrente è quella di Pier Paolo Pasolini, ad esempio in “Tre poesie per Pier Paolo Pasolini” (in Le stelle pp. 12-15) o “La tomba di Keats” (in Le stelle pp. 106-107).
Vorrei però adesso fare un salto alla conclusione della più volte citata poetica, perché può aiutarci a comprendere meglio – oltre al senso del titolo scelto per l’antologia italiana – che il lavoro poetico di Mestre non è un mero esercizio di retorica o un funambolico susseguirsi di parole senza alcun altro scopo che non sia lo stupore fine a se stesso:
“Credo nella contingenza liberatrice della poesia, nella sua capacità di trasformare la coscienza della società, in quel qualcosa che il suo indeterminato beneficio comporta per il parlante nel progetto senza scopo della ripopolazione spirituale del mondo. Credo in quella socializzazione della felicità, […], credo nella sua argomentazione astratta e nell’inintelligibile messaggio delle cadenti sulla notte terrena. Penso alla catarsi consolatoria di quanto significa l’interpretazione di un sogno e al paese morale di quelli che ormai vivono nell’aria, penso alla vergogna storica dei crimini civili, alla ripugnante abiezione dei totalitarismi, e penso anche alla criminalità economica, penso a quelli che sono soli e a quelli che nonostante la debolezza continuano a sostenere con forza, l’idea, fatta con parole, che un giorno le stelle saranno per chi le lavora.” (J.C. Mestre, Elogio, cit., pp. 36-37).
Come si evince facilmente, è viva nel poeta una coscienza che si oppone con forza alla brutalità del potere in tutte le sue forme, ma l’esito non è la banale poesia-manifesto destinata, nel migliore dei casi, ad essere stritolata in uno con la profusione di messaggi (quasi sempre dichiaratamente o occultamente pubblicitari) e notizie (spesso fake news) che si susseguono freneticamente in questa nostra era della connessione perpetua, piuttosto egli genera, attraverso una forma di sovversione linguistica, “una nuova e perturbatrice conoscenza” (J.C. Mestre, Elogio, cit., p. 9). Sicché alcuni fatti (penso alla guerra civile spagnola o ai desaparecidos in Sud America) ci arrivano in maniera indiretta, risuonano come echi nel profondo delle nostre coscienze, in cui sono destinate ad una ostinata permanenza.
Ma già più volte, prima della conclusione, Mestre si era espresso in maniera esplicita ed inequivocabile in proposito, come nell’esempio di seguito riportato:
“La poesía es un hecho revolucionario, una voz insumisa, autónoma del enigma resuelto, entre el interrogante continuo.” (La poesia è un fatto rivoluzionario, una voce indomita, indipendente dall’enigma risolto, nella continua interrogazione. – J.C. Mestre, Elogio, cit., pag. 28).
Passiamo ora ad uno dei testi più frequentemente letti da Mestre (se ne può ascoltare, verificando quanto già detto a proposito delle sue “performances”, una videoregistrazione al link: https://www.potlatch.it/video/poesie-in-video/juan-carlos-mestre-antenati-antepasados/ ):
Antepasados
¿Dónde comienza mi memoria?
AMOS OZ
Mis antepasados inventaron la Vía Láctea,
dieron a esa intemperie el nombre de la necesidad,
al hambre le llamaron muralla del hambre,
a la pobreza le pusieron el nombre de todo lo que no es extraño a la pobreza.
Poco es lo que puede hacer un hombre con el pensamiento del hambre,
apenas dibujar un pez en el polvo de los caminos,
apenas atravesar el mar en una cruz de palo.
Mis antepasados cruzaron el mar sobre una cruz de palo,
pero no pidieron audiencia,
así que vagaron por los legajos
como los erizos y los lagartos vagan por los senderos de las aldeas.
Y llegaron a los arenales,
en los arenales la tierra es brillante como escamas de pez,
la vida en los arenales sólo tiene largos días de lluvia y luego largos días de viento.
Poco es lo que puede hacer un hombre que solo ha tenido en la vida estas cosas,
apenas quedarse dormido recostado en el pensamiento del hambre
mientras oye la conversación de los gorriones en el granero,
apenas sembrar leña de flor en la sábana de los huertos,
andar descalzo sobre la tierra brillante
y no enterrar en ella a sus hijos.
Mis antepasados inventaron la Vía Láctea,
dieron a esa intemperie el nombre de la necesidad,
atravesaron el mar sobre una cruz de palo.
Entonces pusieron nombre al hambre para que el amo del hambre
se llamara dueño de la casa del hambre
y vagaron por los caminos
como los erizos y los lagartos vagan por los senderos de las aldeas.
Poco es lo que puede hacer un hombre con las migas de la piedad,
comer pan mojado los días de lluvia a los que luego seguirán largos días de viento
y hablar de la necesidad,
hablar de la necesidad como se habla en las aldeas
de todas las cosas pequeñas que se pueden envolver con cuidado en un pañuelo.
[ANTENATI. – Dove comincia la mia memoria? AMOS OZ – I miei antenati inventarono la Via Lattea,/ diedero a questa intemperie il nome della necessità,/ la fame la chiamarono muraglia della fame,/ alla povertà posero il nome di tutto ciò che non è estraneo alla povertà./ Poco è quello che un uomo può fare con il pensiero della fame,/ a malapena disegnare un pesce nella polvere dei cammini,/ a malapena guadare il mare in una croce di legno.// I miei antenati attraversarono il mare su una croce di legno,/ ma non chiesero udienza,/ così che vagarono per i fascicoli/ come i ricci e i ramarri vagano per i sentieri dei villaggi.// E giunsero agli arenili,/ negli arenili la terra è scintillante come le squame di pesce,/ la vita negli arenili ha solo lunghi giorni di pioggia e poi lunghi giorni di vento.// Poco è quello che può fare un uomo che nella vita ha avuto solo queste cose,/ a malapena starsene a dormire sdraiato nel pensiero della fame/ mentre ascolta la conversazione dei passeri nel granaio,/ a malapena seminare legna di fiore sul lenzuolo degli orti,/ andare scalzo sulla terra scintillante/ e non seppellire in essa i suoi figli.// I miei antenati inventarono la Via Lattea,/ diedero a questa intemperie il nome della necessità,/ attraversarono il mare su una croce di legno./ Allora posero nome alla fame perché il padrone della fame/ si chiamasse signore della casa della fame/ e vagarono per i cammini/ come i ricci e i ramarri vagano per i sentieri dei villaggi.// Poco è quello che può fare un uomo con le briciole della pietà,/ mangiare pane bagnato nei giorni di pioggia a cui poi seguiranno lunghi giorni di vento/ e parlare della necessità,/ parlare della necessità come si parla nei villaggi/ di tutte le cose piccole che si possono avvolgere con cura in un fazzoletto. – Le stelle, pp. 18-21, trad. R. Marzano-G. Grande]
L’interrogativo riportato in epigrafe, citazione dello scrittore israeliano Oz, mi sembra particolarmente significativo: quasi che la memoria individuale possa espandersi fino ad un’epoca prenatale grazie ad una memoria collettiva che ci è stata trasmessa per via biologica o, chissà, inconscia, onirica. Questi antenati (mis, i miei – veri e immaginari antenati del poeta) inventano – anzi inventaron in un passato indefinito ma certamente remoto – il mondo attraverso la nominazione, quasi una novella Genesi, in cui questi “morti di fame” costretti all’esodo (atravesar el mar en una cruz de palo – l’identificazione simbolica tra l’albero della nave e la croce è presente sin dai tempi paleocristiani nell’iconografia religiosa), diventano protagonisti di un’epopea. Il verso irregolare, spesso lungo o lunghissimo, ipèrmetro, le strofe asimmetriche, sembrano voler liberamente assecondare l’esigenza, la necessità di un racconto che non è cronaca, ma emozione e partecipazione, empatia, che nel prendere partito ci costringe a prendere partito. L’iterazione acquista un peso fondamentale, mi limito a segnalarne alcune: tre strofe si aprono con Mis antepasados e altre due con Poco es lo que puede hacer un hombre (che apre anche la seconda parte della prima strofa); nell’unica terzina che non contiene i due sintagmi appena citati, scandisce il ritmo, in ognuno dei tre versi, la ripetizione di los arenales; il verso como los erizos y los lagartos vagan por los senderos de las aldeas chiude la seconda e la quinta strofa (e las aldeas torna anche nell’ultima strofa. Alla famiglia della “variatio” possono invece ascriversi passaggi come cruzaron el mar sobre una cruz o hablar de la necesidad como se habla, ma spesso è proprio la ripetizione a preludere ad una variazione. Direi che l’intera poesia è costruita sull’alternanza di ripetizione e variazione, quasi a contrapporre l’immutabilità del destino umano e l’esigenza indifferibile del cambiamento.
In Mestre ci sono parole che schiudono interi mondi; in questo caso, ad esempio, la parola hambre (non a caso ripetuta ben sette volte), che si lega alla necessità, alla povertà e al pane (che è anche granaio, briciole). Per capire meglio questo mondo, vorrei rimandare il lettore al bellissimo libro di Pedrag Matvejević intitolato Pane nostro; qui posso soltanto citare alcune pregnanti, nonché attualissime, parole dalla prefazione di Enzo Bianchi: “Nell’oggi, in cui vediamo ancora una volta e tragicamente milioni di persone muoversi dalla fame verso il pane perché noi non siamo capaci di far muovere il pane verso la fame (…)”. (E. Bianchi, Prefazione, in P. Matvejević, Pane nostro, Milano 2010). E ancora: non può sfuggire, tra le altre straordinarie, l’immagine finale delle cosas pequeñas que se pueden envolver con cuidado en un pañuelo, che sottolinea l’attenzione affettiva, la cura, riservata alle piccole cose che vengono protette e conservate avvolgendole in un fazzoletto (di stoffa – aggiungo, credendo di non forzare l’intenzione dell’autore – non di carta). D’altronde l’intera ultima strofa sembra voler attutire la temperatura epica che, in parte, caratterizzava le precedenti, lasciando alle parole umili (Poco, migas, piedad, pan mojado, cosas pequeñas, pañuelo) il compito di avvolgere con cura, in una sorta di abbraccio, questa umanità afflitta dalla fame e dalla necessità.
Conferma quanto finora detto questa significativa affermazione di Javier Bello relativa all’opera di Mestre: “la poesia apre le sue porte affinché fantasmi e voci tornino vivi dalla catastrofe civile al luogo da cui furono espulsi […]. Questa poesia oscilla tra le più strazianti incarnazioni del profetico e la discontinuità della prosa del mondo; tra lo splendore del mito e la narrativa erratica dei successi immaginari oltre il crudele stupore dell’esperienza” (J. Bello in Le stelle, p. 295, trad. R. Marzano-G. Grande). Propongo di leggere ora una poesia dal forte ed esplicito connotato civile:
Página con perro
Los carabineros detuvieron a mis amigos,
les ataron las manos a los raíles,
me obligaron como se obliga a un extranjero
a subir a un tren y abandonar la ciudad.
Mis amigos enfermaron en el silencio,
tuvieron visiones en las cercanías de lo sagrado.
No la herida del inocente,
no la cuerda del cazador de reptiles,
en mi pensamiento la crueldad tiene nombre.
Me llamaron judío,
perro judío,
comunista judío hijo de perro.
Este no un asunto que se pueda solucionar con tres palabras,
porque para cada uno de nosotros
esas palabras tampoco significan lo mismo.
Yo he tenido un perro,
he hablado con él,
le he dado comida.
Para alguien que ha tenido un perro
la palabra perro es fiel como la palabra amigo,
hermosa como la palabra estrella,
necesaria como la palabra martillo.
“Y en «Página con perro», del leonés Juan Carlos Mestre, el poeta adensa la doble significación básica a que me refiero cuando contrapone con plena conciencia y eficacia poéticas una y otra visión y uno y otro usos culturales de la palabra ‘perro’[…]” (E in «Pagina con cane», del leonese Juan Carlos Mestre, il poeta addensa il doppio significato di base a cui mi riferisco [positivo e negativo, ndr] quando contrappone, con piena coscienza ed efficacia poetica, l’una e l’altra visione e l’uno e l’altro uso culturale della parola “cane” – Antonio Chicharro, Días de perros y poesía (algunas notas a unos textos) in Tropelías. Revista de Teoría de la Literatura y Literatura Comparada, número extraordinario 1, 2017, p.74). Dunque, ancora una volta, in questa Pagina è la parola, il significato talvolta controverso, ambivalente, della parola, ad assumere la funzione di strumento atto a scardinare la sciatta tracotanza di chi opprime, a ribaltare un punto di vista dominante. Al centro della poesia tre versi fondamentali, nei quali la parola ebreo viene affiancata alla parola cane, in un’offesa che vuole degradare l’essere umano al livello bestiale. Invece i tre versi finali (e tre sembra essere la chiave di un’aggregazione strutturante, anche se non tutte le strofe sono terzine) con le loro similitudini conferiscono alla parola cane qualità al massimo grado positive. Declinata in prima persona (mis, me, mi, yo) la poesia inizia con una sorta di messaggio subliminale (binari, treno, sacro, collegati ad un esilio e ad una deportazione) che credo non sia estranea alla successiva comparsa della parola ebreo. Inoltre mi sembra di poter dire che il poeta voglia tenere strettamente unita l’esperienza di vita con la realtà della parola: i tre versi che precedono il finale esplicitando il rapporto dell’io narrante con un cane, nella loro semplicità disarmante sono il presupposto essenziale per le successive similitudini, reso evidente dal verso-condizione Para alguien que ha tenido un perro, quasi a creare una nuova comunità di umani che non possono non tenere uniti la parola cane con un cane reale, il proprio fedele, stellare, necessario amico.
Un’altra poesia che è sempre presente nelle letture in pubblico e nelle antologie è Cavalo Morto (anche in questo caso è possibile fruire della videoregistrazione collegandosi al link https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/juan-carlos-mestre-cavalo-morto/), il cui titolo è, non a caso come vedremo, in lingua portoghese (o meglio nella sua variante brasiliana):
Cavalo Morto
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. Un poema de Lèdo Ivo es una luciérnaga que busca una moneda perdida. Cada moneda perdida es una golondrina de espaldas posada sobre la luz de un pararrayos. Dentro de un pararrayos hay un bullicio de abejas prehistóricas alrededor de una sandía. En Cavalo Morto las sandías son mujeres semidormidas que tienen en medio del corazón el ruido de un manojo de llaves.
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. Lèdo Ivo es un hombre viejo que vive en Brasil y sale en las antologías con cara de loco. En Cavalo Morto los locos tienen alas de mosca y vuelven a guardar en su caja las cerillas quemadas como si fuesen palabras rozadas por el resplandor de otro mundo. Otro mundo es el fondo de un vaso, un lugar donde lo recto tiene forma de herradura y hay una sola calle forrada con tela de gabardina.
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. Un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo es un río que madruga para ir a fabricar el agua de las lágrimas, pequeñas mentiras de lluvia heridas por una púa de acacia.En Cavalo Morto los aviones atan con cintas de vapor el cielo como si las nubes fuesen un regalo de Navidad y los felices y los infelices suben directamente a los hipódromos eternos por la escalerilla del anillador de gaviotas.
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. Un poema de Lèdo Ivo es el amante de un reloj de sol que abandona de puntillas los hostales de la mañana siguiente. La mañana siguiente es lo que iban a decirse aquellos que nunca llegaron a encontrarse, los que aún así se amaron y salen del brazo con la brisa del anochecer a celebrar el cumpleaños de los árboles y escriben partituras para el timbre de las bicicletas.
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. Lèdo Ivo es una escuela llena de pinzones y un timonel que canta en el platillo de leche. Lèdo Ivo es un enfermero que venda las olas y enciende con su beso las bombillas de los barcos. En Cavalo Morto todas las cosas perfectas pertenecen a otro, como pertenece la tuerca de las estrellas marinas al saqueador de las cabezas sonámbulas y el cartero de las rosas del domingo a la coronita de luz de las empleadas domésticas.
Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. En Cavalo Morto cuando muere un caballo se llama a Lèdo Ivo para que lo resucite, cuando muere un evangelista se llama a Lèdo Ivo para que lo resucite, cuando muere Lèdo Ivo llaman al sastre de las mariposas para que lo resucite. Háganme caso, los recuerdos hermosos son fugaces como las ardillas, cada amor que termina es un cementerio de abrazos y Cavalo Morto es un lugar que no existe.
[Cavalo Morto – Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. Una poesia di Lêdo Ivo è una lucciola che cerca una moneta persa. Ogni moneta persa è una rondine di spalle posata sulla luce di un parafulmine. Dentro un parafulmine c’è un brusio di api preistoriche intorno ad un cocomero. A Cavalo Morto i cocomeri sono donne semiaddormentate che hanno in mezzo al cuore il rumore di un mazzo di chiavi.// Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. Lêdo Ivo è un vecchio uomo che vive in Brasile che sta nelle antologie con la faccia del folle. A Cavalo Morto i folli hanno ali di mosca e ripongono nella loro scatola i cerini bruciati come se fossero parole sfiorate dallo splendore di un altro mondo. Un altro mondo è il fondo di un bicchiere, un posto in cui il retto ha la forma di ferro di cavallo e c’è una sola strada rivestita di tela di gabardina.// Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. Un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo è un fiume che si alza di buonora per andare a fabbricare l’acqua delle lacrime, piccole bugie di pioggia ferita da una spina d’acacia. A Cavalo Morto gli aerei legano con nastri di vapore il cielo come se le nubi fossero un regalo di Natale e i felici e gli infelici salgono direttamente agli ippodromi eterni attraverso la scala dell’inanellatore di gabbiani.// Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. Una poesia di Lêdo Ivo è l’amante di una meridiana che abbandona in punta di piedi gli ostelli del giorno dopo. Il giorno dopo è quello che si sarebbero detto quelli che mai riuscirono ad incontrarsi, quelli che anche così si amarono ed escono a braccetto con la brezza dell’imbrunire per festeggiare il compleanno degli alberi e scrivono partiture per il campanello delle biciclette.// Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. Lêdo Ivo è una scuola piena di fringuelli e un timoniere che canta nel piattino di latte. Lêdo Ivo è un infermiere che benda le onde e accende con il suo bacio le lampadine delle navi. A Cavalo Morto tutte le cose perfette appartengono a un altro, come appartiene il bullone delle stelle marine al predatore delle teste sonnambule e il postino delle rose della domenica alla coroncina di luce delle cameriere.// Cavalo Morto è un posto che esiste in una poesia di Lêdo Ivo. A Cavalo Morto quando muore un cavallo si chiama Lêdo Ivo affinché lo resusciti, quando muore un evangelista si chiama Lêdo Ivo affinché lo resusciti, quando muore Lêdo Ivo chiamano il sarto delle farfalle affinché lo resusciti. Datemi retta, i bei ricordi sono fugaci come scoiattoli, ogni amore che finisce è un cimitero di abbracci e Cavalo Morto è un posto che non esiste. – Le stelle, pp. 174-177, trad. R. Marzano-G. Grande]
Questa magnifica poesia mi offre innanzitutto l’occasione di ricordare il poeta brasiliano Lêdo Ivo (1924-2012), che ho avuto la fortuna di incontrare in Italia (a Napoli per Napolipoesia 1999, e a Salerno in occasione della presentazione dell’antologia di sue poesie “Illuminazioni”, Multimedia 2002, cura e traduzione di Vera Lucia de Oliveira), al quale spero di poter dedicare uno dei prossimi Verso casa. Dal punto di vista formale, Cavalo morto ci si presenta come un poème en prose (scelta non infrequente in Mestre), suddiviso in sei “stanze”, tutte introdotte anaforicamente dalla stessa frase Cavalo Morto es un lugar que existe en un poema de Lèdo Ivo. che, oltre a creare un ritmo, detta una chiara indicazione di cosa possa generare il cortocircuito tra realtà e immaginario poetico: il luogo esiste, ma in una poesia di Lêdo Ivo. Ragion per cui la conclusione, apparentemente paradossale e che sconvolgerebbe, contraddicendolo, l’intero testo, è invece del tutto coerente: Cavalo Morto è un posto che non esiste perché in realtà esiste soltanto in una poesia di Lêdo Ivo. Ma ancora una volta restiamo affascinati dalle immagini che scaturiscono quasi a getto continuo, incatenate le une alle altre in ogni strofa (moneta/moneta, parafulmine/parafulmine, cocomero/cocomeri, ecc.), in un movimento serrato che è al tempo stesso progressivo e retrogrado, tale da creare un tessuto sonoro avvolgente che ci porta con sé in una dimensione fantastica, in quel luogo che può contemporaneamente esistere e non esistere che è la poesia. Lêdo Ivo si presta magnificamente ad assumere i connotati del poeta folle (sale en las antologías con cara de loco) – lui che ai “matti” ha dedicato magnifiche poesie – o del poeta sciamano (cuando muere un caballo se llama a Lèdo Ivo para que lo resucite) che sono per Mestre quelli che possono introdurci in una realtà altra svincolandoci dalle panie della razionalità e dalle imposizioni del potere.
Per coloro che vogliono sottrarsi alle convenzioni dell’ordine razionale, la vita è un viaggio meraviglioso, che può essere sintetizzato con le parole dello stesso Mestre:“[…] una ascensión a lo oscuro, un descenso a la claridad donde solo la poesía da cuenta de lo que de otro modo sería indescifrable.” (un’ascensione all’oscurità, una discesa nella chiarezza in cui solo la poesia dà conto di ciò che in altro modo sarebbe indecifrabile – J.C. Mestre, Elogio, cit., pag. 27).
Moltissimi sarebbero ancora gli aspetti da approfondire, ma ovviamente non è possibile farlo in questa sede; vorrei però aggiungere almeno un paio di suggerimenti bibliografici su due temi che mi sembrano particolarmente stimolanti: il bestiario della poesia di Mestre, così presente anche nella minima rassegna che abbiamo letto – dai generici uccello e pesce ai ricci, ramarri, cane, passeri, lucciole, rondini, api, mosca, gabbiani, fringuelli, stelle marine, cavalli, farfalle, scoiattoli – analizzato in: César Cabezas Prieto, Luisa Láinez Diéguez, José Antonio Pérez Armesto, Bestiario de Juan Carlos Mestre. Editor Instituto de Estudios Bercianos, 1999; e la voce nelle sue declinazioni, (ad es. la voz sin boca [voce senza bocca] sopra citata, immagine particolarmente forte che ritorna più volte in Mestre) in: “La voz, las voces, en la poesía de la desobediencia de Juan Carlos Mestre”. Carlos Ordóñez. Un poema no es una misa cantada, Lustra Editores, Lima, Perú, pp. 8-70, 2013.
Concludo – ma in realtà potrebbe considerarsi piuttosto un nuovo inizio, vista anche l’infaticabile opera del nostro autore che ha pubblicato, dopo l’antologia cui abbiamo fatto riferimento, Lapidario incompleto nel 2014, Museo de la clase obrera nel 2018, 200 gramos de patacas tristes nel 2019, oltre a varie riedizioni e antologie – con questa affermazione di Mestre, che ritengo un condivisibile invito rivolto a tutti noi ad immaginare un futuro col coraggio della poesia e l’anelito all’utopia: “Immagino un’assemblea cittadina in cui chiunque, disposto a interferire con le ambigue superstizioni del destino, faccia della sua vita un progetto spirituale e politico destinato ad ampliare gli orizzonti significativi del futuro.” (J.C. Mestre, Elogio, cit., pag. 7).
Giancarlo Cavallo