Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Paul Laraque nel corso del tour effettuato nel 1994 dal poeta haitiano per presentare la traduzione italiana di alcune sue poesie raccolte nel volume La sabbia dell’esilio (Multimedia, Baronissi 1994). Ho visto accendersi nei suoi occhi la generosa passione de “l’adolescente che non ha finito di sognare” (come il poeta si autodefinisce in “André Breton ad Haiti” – traduzione italiana di G. Cavallo, Multimedia, Baronissi 1995, p. 3), e ritengo che non potrò mai dimenticare quel suo sguardo vivido e fiero, che me lo fece definire “il poeta dagli occhi di brace”. Di lui conservo, tra l’altro, con grande affetto, una lettera nella quale mi ringrazia per una poesia che volli dedicargli, ma soprattutto per la mia traduzione e cura del volume (che ebbe riscontro anche sulla rivista Latinoamerica n. 56, 1994 – M. Moresco Fornasier, “Haiti: un’isola e il suo poeta”, pp. 3-10 ).
Il lavoro di approfondimento che ho condotto in questi ultimi mesi mi ha portato a definire Laraque “l’irriducibile”: nel duplice significato di uomo che non si arrende mai e di complessità che non si può ridurre ad unità. Infatti ciò che potrà agevolmente rilevare il lettore nell’accostarsi alla sua opera è l’intreccio, direi inscindibile, di motivi umani, letterari, storici, sociali e politici che indubbiamente la caratterizza.
Proverò ancora una volta (rinviando il lettore al seguente link per i dati bio-bibliografici: http://www.casadellapoesia.org/poeti/laraque-paul/biografia ) a dedurre i dati di contesto facendoli scaturire dal testo ed in particolare dal poema che io considero quasi una summa dell’opera del poeta haitiano, Le sable de l’exil (in Le vieux nègre et l’exil, Paris 1988, ora in Oeuvres incomplètes (Poésie), Montréal 1999, pp. 237-271; traduzione italiana in La sabbia dell’esilio, edizione bilingue, Multimedia Baronissi 1994, a cura di G. Cavallo).
Il titolo ci fornisce immediatamente una chiave di lettura esplicita costituita dalla parola “esilio” (che non a caso ritorna anche in “Ballade de l’exil” p. 68): Laraque infatti ha vissuto un esilio durato quasi ininterrottamente dal 1961 alla sua morte (2007) a causa della strenua opposizione alla terribile, sanguinaria dittatura dei Duvalier e dei successivi epigoni; l’altro elemento è la “sabbia” che può far pensare ad una spiaggia e quindi al mare (e forse all’arenarsi o inaridirsi, conseguenze temibili dell’esilio), ma anche ad una clessidra e dunque allo scorrere del tempo. Ci procura, questo titolo, anche un non trascurabile indizio stilistico: l’accostamento di un termine concreto (la sabbia) con uno astratto (l’esilio) per dare vita ad un’immagine metaforica assolutamente inedita. Ma leggiamo cosa ci dice in proposito Frank Laraque (fratello del poeta, nonché professore emerito dell’Università della città di New York) parafrasando Paul nell’introduzione al citato Oeuvres incomplètes (alla quale rimando il lettore che volesse approfondire l’intera opera poetica di Paul Laraque) : “Il poeta è l’organizzatore dei sogni di cui ordina e controlla la follia grazie alla sabbia dell’esilio che gli apre gli occhi e li mantiene puntati sulla tragedia di un paese adorato (…)”(pag. XVIII, la traduzione, anche delle successive citazioni, è mia).
Proseguendo nella lettura, subito ci imbattiamo nella dedica (p. 10, il numero in corsivo tra parentesi si riferisce, salvo diversa indicazione a La sabbia dell’esilio, op.cit.):
à ma femme Marcelle,
souveraine des sables de l’exil
et des quatre saisons
E qui, oltre all’evidente conferma attraverso l’uso del plurale (sables) della locuzione presente nel titolo, entrano in gioco altri due motivi fondamentali di questa poesia (ma potrei dire ricorrenti in tutta l’opera poetica di Laraque): la donna/moglie sovrana, – l’amatissima Marcelle per la quale Paul coniò il neologismo “Mamour” – dunque l’amore fisico e quello idealizzato; le quattro stagioni, l’elemento ciclico, che è al tempo stesso portato della natura, ma anche allegoria della vita dell’uomo.
Venendo al testo, il primo dato che si evince, visivamente, è che ci troviamo in presenza di un poema che alterna la scrittura in versi (in genere si tratta di versi liberi organizzati in strofe asimmetriche) a quella in prosa, i cui modelli potrebbero essere alcuni poemi di André Breton o di Aimé Césaire, nomi non casuali, ma sui quali mi riservo di ritornare in seguito.
Restiamo ancora all’evidenza grafica del testo: riscontriamo un primo verso programmatico Le poète est l’organisateur des rêves. ( “Il poeta è l’organizzatore dei sogni”, p. 10) seguito da quattro distici la cui particolare rilevanza è rivelata dalla loro riproposizione in ordine inverso, isolati in corsivo quasi come titoli di successivi capitoli / ripartizioni del poema o una sorta di ritornello. Eccoli dunque:
au seuil de l’éternité
l’homme rêve son passé
la frontière entre rêve et réalité abolie
le poète se fait l’ordonnateur de sa folie
l’épi d’une voix gravit
l’extrême pointe du cri
j’annonce l’âge d’or
où l’on garde aussi la jeunesse du corps
[alla soglia dell’eternità/ l’uomo sogna il suo passato// la frontiera tra sogno e realtà abolita/ il poeta si fa ordinatore della sua follia// la spiga di una voce cresce/ fino all’estrema punta del grido// io annuncio l’età dell’oro/ in cui si conserva anche la giovinezza del corpo – p. 10].
Ci troviamo di fronte a delle assonanze e rime, eccezionalmente baciate, quasi una filastrocca per introdurci ipnoticamente in un mondo di sogno.
La dimensione onirica, immaginaria, era stata già introdotta da quel primo verso che in maniera lapidaria definiva il poeta e il suo lavoro di “organizzatore”; qui ritorna con la parola “rêve” ripetuta nel secondo e terzo verso, ma oltre a diversi evidenti segnali di attraversamento, quasi di commistione tra il reale e l’immaginario, incontriamo anche una modalità che Laraque usa molto spesso e che definirei di ripetizione differente: infatti in questo caso “il poeta”, da “organizzatore dei sogni”, “si fa ordinatore della sua follia”.
Queste due parole, organizzatore ed ordinatore, segnalano un deciso scostamento dalla scrittura automatica cara ai surrealisti (e tornata in auge negli anni ’60 con alcuni poeti della beat generation), compagine letteraria con la quale il poeta aveva avuto dei rapporti significativi (basti leggere in proposito la sua cronaca “André Breton ad Haiti” – op. cit. – nella quale racconta con partecipazione l’evento dai pregnanti risvolti culturali e politici avvenuto nel 1945) e di cui conserva rilevanti nuclei nella sua poetica.
Tuttavia bisogna porsi una domanda: si possono organizzare i sogni? Se ci riferiamo all’attività onirica che si sviluppa durante il sonno degli individui, siamo portati a considerarla (almeno a partire da Freud in avanti) un tipico prodotto inconscio e come tale non assoggettabile ad un processo volontaristico di razionalizzazione, tutt’al più analizzabile attraverso l’interpretazione. Cosa dunque vuole intendere Laraque con la parola “sogni”? Io propenderei per un duplice significato: da una parte sogno inteso come fantasticheria, dall’altro sogno in senso lato, nell’accezione di cosa vagheggiata, utopia. Tra i due c’è una fondamentale differenza: il primo è rivolto al passato, all’infanzia principalmente, il secondo (realizzabile o meno che sia) si pone molto spesso nel futuro. Proverò a fornire adeguati riscontri a questa mia ipotesi nel prosieguo dell’analisi del testo.
Mi sia consentita un’apparente digressione in relazione a quello che vorrei definire vincolo di comunicabilità; Francesco Orlando nel suo “Per una teoria freudiana della letteratura” (Torino 1973, p. 58) ci dice: “Eseguendo il confronto più ristretto fra «lavoro del motto di spirito» (Witzarbeit) e «lavoro del sogno» (Traumarbeit), Freud osservava che i procedimenti comuni ad entrambi – «condensazione», «spostamento», «rappresentazione indiretta», «non senso» – possono nel sogno venire esagerati «oltre ogni limite», «fino a una deformazione non più rettificabile». Non c’è infatti, a far da limite, nessuna esigenza di comprensibilità: tutt’al contrario. Il motto di spirito invece «deve attenersi alla condizione di esser comprensibile, e non può ricorrere alla deformazione resa possibile nell’inconscio da condensazione e spostamento, se non entro una misura che resti rettificabile dalla comprensione della terza persona».”. Accosterei a questa precisa distinzione tra sogno e motto di spirito (e, quindi, formazione letteraria), quanto ci dice Frank Laraque (op. cit. p. VII-VIII) a proposito della metafora in Paul: “La metafora utilizzata scaturisce dal ravvicinamento cosciente di due realtà più o meno distanti mentre il surrealismo concepisce la metafora come il ravvicinamento fortuito di due realtà distanti.” Ad ulteriore chiarimento di quanto sostenuto, Frank riporta questa considerazione di Caillos:
Conviene che lo spirito provi una gioia specifica nello scoprire una relazione inattesa, una connivenza nuova nel reticolo dell’inestricabile universo. Ma mi parrebbe necessario che lo spirito fosse condotto ad accogliere e non potesse rifiutarsi di farlo senza cattiva fede, mentre la concezione surrealista dell’immagine lo porta ad estasiarsi a vuoto e per partito preso davanti a metafore la cui unica virtù consiste nello scoraggiare la minima giustificazione. In altre parole, ammetto che la forza dell’immagine cresca con l’allontanamento dei termini, ma pongo come principio che il rapporto debba continuare ad essere riconosciuto; certo un’immagine è tanto più efficace quanto essa è sorprendente in un primo tempo, ma non è efficace se non perché, innanzitutto, essa è giusta. (in Caminade 1970: 152)
Mi sembra di poter evincere che la metafora dei surrealisti tenda all’incomunicabilità del sogno, mentre la metafora di Paul salvaguardi il limite della comprensibilità del motto di spirito (assimilato da Orlando alla letteratura), continuando ad esprimere seppur nascondendo. Aggiungerei, se il lettore me lo consente, che questo limite o soglia non è immutabile, ma progredisce grazie alle nuove acquisizioni letterarie ed extraletterarie, e che uno scrittore originale, come è il nostro caso, tende ad esperire sempre nuove, audaci soluzioni, sfidando l’arguzia del lettore. Spero che, a questo punto, il senso di questa mia divagazione risulti chiaro e contribuisca ad agevolare ed arricchire la lettura delle poesie di Paul Laraque.
Vorrei sottolineare ancora due cose rispetto ai versi iniziali sopra citati: la prima è il passaggio dalla terza persona (il poeta, l’uomo) alla prima del penultimo verso (io annuncio); la seconda è quell’ “extrême pointe du cri” che immette un inquietante senso di tragedia in un contesto tutto sommato euforico nel quale si arriva ad annunciare “l’età dell’oro in cui si conserva anche la giovinezza del corpo”.
Quindi l’attraversamento, l’abolizione, di soglie e frontiere consente di passare dalla realtà della vecchiaia, della prossimità della morte (eufemisticamente “eternità”), alla giovinezza fisica e spirituale (quanto conta quell’ “aussi”, anche!) dell’età dell’oro (primo indizio di cosa vagheggiata o utopia).
La prima parte del poema, tutta in versi, si apre con la parola “exil”, che costituisce anche l’incipit delle tre strofe che concludono questa sezione. Mi sembra che l’uso della ripetizione oltre ad esigenze di ritmo risponda anche a quel principio di coesione che forse costituisce uno dei problemi principali che si presenta a chi si accinge a scrivere una poesia che travalichi le misure contenute (sonetto, canzone, ecc.) che si sono affermate nel corso dei secoli.
Ma alla dimensione esistenziale, autobiografica, dell’esilio corrisponde una traslazione allegorica in cui il regno animale (aquila, lupo, dragone, piovra, asino, elefante, scimmia, ecc.) si impone con le sue valenze simboliche, a cui però si affiancano elementi della modernità (la fantascienza, i grattacieli, le autostrade, i treni, ecc.). Individuerei dunque un dualismo, che già si era rilevato nel prologo (vita/morte, sogno/realtà, giovinezza/vecchiaia), ma che in questo caso concorre attraverso una serie vertiginosa di immagini a compiere un salto spazio-temporale dalla New York dell’esilio all’Haiti dell’infanzia e della giovinezza (primo indizio di fantasticheria).
Non a caso il poema è preceduto, nell’edizione francese, dalla prosa di “L’exil et la mémoire”, un’ampia rievocazione dell’infanzia e dell’adolescenza del poeta, che il lettore italiano può trovare nella mia traduzione al link: https://www.potlatch.it/scritture/storie/paul-laraque-lesilio-memoria/ .
Prendiamo adesso in considerazione un’altra strofa (p. 12):
du pont de pierres blanches
dont l’arc relie
les deux rives de la vie
je vois
en sens inverse du réel
un autre village sous l’eau
miroir que traverse
nageuse des rêves
la sym’bi d’Haiti
[dal ponte di pietre bianche/ il cui arco congiunge/ le due rive della vita/ io vedo/ nel senso inverso al reale/ un altro villaggio sotto l’acqua/ specchio che attraversa/ nuotatrice di sogni/ la sirena di Haiti].
Ecco dunque un indizio del procedimento che porta, a partire da un elemento concreto e reale (il ponte di pietre bianche) ad elaborare un percorso fantastico che attraverso elementi simbolici (lo specchio d’acqua, la sym’bi – nella mitologia vudù (o vodou) sirena dei mari e delle fonti il cui canto trascina per sempre in fondo alle acque quelli che l’ascoltano) conduce al paese perduto dell’infanzia (altro indizio di fantasticheria).
A supporto di quanto detto in precedenza relativamente all’elemento ciclico riscontrato nella dedica, troviamo quest’altra strofa (p. 14 ):
Les mots
grimpent les racines
de l’arbre de la parole
et deviennent
feuilles
fleurs
fruits
et à nouveau
semences en terre
pour grimper les racines
de l’arbre de la vie
[Le parole/ risalgono le radici/ dell’albero della parola/ e diventano/ foglie/ fiori/ frutti/ e di nuovo/ semi in terra/ per risalire le radici/ dell’albero della vita]
Ritroviamo anche quel processo che ho definito di ripetizione differente, visto che l’“albero della parola” si trasforma nell’ “albero della vita”, creando, quasi impercettibilmente ma assai significativamente, una corrispondenza tra parola e vita. Quindi possiamo dire che esiste una dialettica tra la ciclicità della natura (ripetizione) e la tensione alla trasformazione, al cambiamento (differenza). Questa interpretazione è rafforzata dalla presenza di un poliptòto (grimpent – grimper), figura che si ritroverà spesso nelle strofe seguenti.
Non potrò, per evidenti motivi di spazio, analizzare l’intero poema, ma posso indicare con certezza al lettore la ricorsività di questi processi sottolineati da alcuni segnali stilistici quali l’anafora, l’iterazione, il poliptòto, ecc.
Vorrei adesso prendere in considerazione un punto di vista particolare, apparentemente periferico, ossia l’uso dell’allitterazione, che mi sembra di poter affermare faccia decisamente parte della “cassetta degli attrezzi” di Paul Laraque. Ne abbiamo già incontrate alcune nei versi citati in precedenza, ma una in particolare ha attirato la mia attenzione: “femme fauve/ fleur féline” (p. 26 – femmina ferina/ fiore felino). In essa, mentre la prima coppia, per quanto forte sia l’accostamento, non appare del tutto inconsueta in ambito letterario, anzi direi che è un topos ben presente nella letteratura di lingua francese (Baudelaire, Balzac, i surrealisti, Senghor, ecc.), la seconda sembrerebbe quantomeno stravagante e, benché i singoli termini (fleur e féline, ambedue femminili) possano ritrovarsi entrambi riferiti alla donna, potrebbe apparire frutto di una volontà estetizzante. Ma se procediamo nella lettura degli altri versi che compongono la strofa, possiamo renderci conto di come questo ardito accostamento generi una stratificazione di significato complessa e tuttavia coerente (p. 26):
femme fauve
fleur féline
dont la fibre dansante
enroule le serpent du désir
autour du tronc de ma vie
ta clarté végétale
de bête marine
mêlée à la panthère ailée
pénètre le mystère
de nos contrées inexplorées
[femmina ferina/ fiore felino/ la cui fibra danzante/ avviluppa il serpente del desiderio/ intorno al tronco della mia vita/ la tua luminosità vegetale/ di bestia marina/ unita alla pantera alata/ penetra il mistero/ delle nostre contrade inesplorate].
Adesso diventa palese come l’allitterazione dei primi due versi sia la chiave che consente di proseguire in questo alternarsi di termini vegetali (fibra, tronco, luminosità vegetale) ed animali (serpente, bestia marina, pantera alata). C’è un evidente piano metaforico con chiare connotazioni erotiche, a cui bisogna affiancare una lettura allegorica specifica correlata alla religione vudù. Infatti in questa religione (un sincretismo di credenze africane e Cattolicesimo romano fortemente radicato ad Haiti) esiste un dio-serpente che con le sue spire avvolge e crea il mondo, ma è anche quello che (insieme ad una personificazione dell’arcobaleno, Aida-Wedo) insegna agli uomini e alle donne come procreare. Anche la pantera ha un ruolo in questa religione in quanto una delle divinità (Agassu) è generata dall’accoppiamento di una pantera con una donna.
Sottolineerei, appena di sfuggita, l’esistenza in questa strofa, in aggiunta ad altre allitterazioni, di una rete di rime (ailée/ inexplorées), rime interne (ad es.: panthère/ mystère) ed assonanze che creano un effetto di grande musicalità e coesione.
Non mi dilungherò sull’erotismo, che pure in Laraque riveste un ruolo fondamentale e conduce ad esiti di grande rilevanza letteraria, perché mi sembra (mai fidarsi delle apparenze, comunque!) davvero esplicito (bastino queste due citazioni, in cui peraltro ricorre insistentemente l’allitterazione: “filles aux fesses fastueuses comme à la plage” p. 26 – ragazze dalle natiche fastose come alla spiaggia; “éblouissant épanouissement de la fleur des fesses/ mouvant manège de tes merveilles/ envol suspendu des seins rebelles/ sous les ailes déployées des bras” p. 30 – abbagliante schiudersi del fiore delle natiche/ mobile maneggio delle tue meraviglie/ volo sospeso dei seni ribelli/ sotto le ali spiegate delle braccia) ed apparentemente privo di nuclei problematici.
Mi soffermerò invece sull’altro aspetto, quello della religione e in esso specificamente del Vudù. Mentre infatti esiste un nucleo poetico sostanzialmente stabile nella poetica di Laraque (che all’incirca coincide con quello individuato nella citata introduzione di Frank Laraque (p. VII) in riferimento a Ce qui demeure (1973) – “Il poema della prima sezione si compone di sei parti: l’amore (pp. 9-10), la famiglia (pp.11-13), il territorio haitiano (pp. 14-15), la poesia e l’arte (pp. 16-20), un affresco storico di Haiti (pp. 21-25)”) – in questo poema, in cui ritroviamo i temi predetti benché in maniera meno schematica, emerge invece un conflitto dialettico tra l’adesione all’ateismo marxista e l’esaltazione di valori culturali (e religiosi) propugnati dall’Indigenismo.
L’Indigenismo è una presa di coscienza dei propri valori culturali in contrapposizione alla illusione dell’élite haitiana di considerarsi francese; tale fenomeno, scaturito in parallelo alla guerriglia guidata da Péralte e Batraville contro l’occupazione militare americana di Haiti (1915-’34), si manifesta attraverso “La Revue Indigene” (1927-8) diretta da Emile Roumer e il saggio di Jean Price-Mars “Ainsi parla l’oncle” (1928).
Mi perdonerà il lettore la lunga citazione (pp.20-22) che segue, ma la ritengo indispensabile per chiarire quanto vado argomentando:
j’en ai marre
de tes loas
qui se nourrissent de toi
de tes chants
qui distillent leur souffrance dans mon sang
de tes danses
qui laissent l’empreinte de tes pas dans la poussière
de ma vie
j’en ai marre
de rats de ta misère
des cafards de ta peur
des serpents de ta magie
des corbeaux de ton désespoir
des crapauds gluants de ta résignation
des crabes dévorants de l’exil
j’en ai marre
de tes fuites dans l’imaginaire
de tes fuites à travers la frontière et la mer
de tes fuites folles d’enfer en enfer
j’en ai marre
de tes zombis
qui hantent mes jours et mes nuits
Mi sembra che si possa parlare di una sorta di preterizione, infatti il poeta “ne ha abbastanza”, non sopporta più, ma di fatto parla dei loas, della magie, degli zombis (ed in altri luoghi della sym’bi, ancora dei Loas, dei carrefour); inoltre sottolinea l’origine africana di questa religiosità che ha rappresentato una forma di resistenza degli schiavi provenienti dal golfo di Guinea all’annichilimento del lavoro nelle piantagioni. E d’altronde Laraque, in un suo scritto apparso sulla rivista “Left Curve” (Oakland, 1993) dal titolo “Africa in America”, rivendica le origini africane dei neri d’America, il loro originale apporto alla cultura ed il primato di Haiti in riferimento alla “Négritude” di Césaire, Damas e Senghor.
Ma vediamo cosa dice in proposito lo stesso Paul Laraque in “La rugiada della speranza” un testo apparso in un numero speciale del bollettino “L’ouverture” (ottobre 1982), in omaggio, a Jacques Roumain, in occasione del 37° anniversario della morte: “L’alienazione religiosa: transfert delle responsabilità sociali ed umane agli dei; contraddizione interna del vodou: allo stesso tempo parte integrante della nostra eredità culturale popolare, speranza che permette di sopravvivere e fuga davanti ad una realtà crudele attraverso la creazione di un universo immaginario”.
È appena il caso di sottolineare, ancora una volta, la rete di animali allegorici che impregna la seconda di queste strofe; nonché il tragico riferimento alle fughe da inferno ad inferno che apre uno squarcio sulla disperata condizione del popolo haitiano.
Ma ancor più rivelatore mi sembra l’uso insistito dell’anafora, quasi una litania, come abbiamo appena visto; un ulteriore esempio è costituito da quella che, partendo dal grido “terra terra” della vedetta delle caravelle di Colombo, si ripropone in maniera ossessiva per ben dieci quartine (pp. 32-34), sfociando poi addirittura in una reiterata citazione dal “Vangelo secondo Giovanni” (Au commencement était – In principio era):
au commencement était l’Indigène
peuple qui avait la couleur de cette terre
dont il connaissait les secrets et les mystères
au commencement était la liberté
arche d’alliance du rêve et de la réalité
dont l’amour était roi et la poésie reine
[in principio era l’Indigeno/ popolo che aveva il colore di questa terra/ di cui conosceva i segreti e i misteri/ in principio era la libertà/ arca dell’alleanza del sogno e della realtà/ di cui l’amore era re e la poesia regina – p. 34]
Questa analisi è rafforzata da quanto ci dice Frank (op. cit. p. XIX) in relazione ad alcune poesie dell’ultimo periodo: “Il poeta non credente tenta malgrado tutto di invocare la resurrezione, fenomeno ultra-religioso.” Si veda in proposito, nel volume pubblicato in Italia che stiamo esaminando, “La croix de Guevara” (p. 66) che appunto si conclude con il distico “et quand tu meurs/ nous ressuscitons” (e quando tu muori/ noi resuscitiamo – operando una palese sovrapposizione di Guevara a Cristo).
Individuerei in questo nodo tematico non una contraddizione, quanto piuttosto un rapporto dialettico ed un atteggiamento antidogmatico, che sono componenti fondamentali dell’irriducibilità di cui parlavo all’inizio di questo intervento. A tal proposito, sempre Frank Laraque (op. cit. p. XV) parla di: “Superamento ideologico nel senso che il poeta militante, al servizio del socialismo che converte il sogno in realtà, non transige in difesa della rivoluzione. Ma all’interno di una tale lotta, resta intero il diritto alla creazione senza alcun controllo burocratico di leaders avidi di potere assoluto e tirannico. È il contributo che scrittori rivoluzionari ed umanisti quali Breton, Sartre, Fanon e Paul intendono apportare al marxismo per impedirgli di sclerotizzarsi in un dogma rigido che viola i diritti umani sotto il fallace pretesto di lotta contro il riformismo.”
Vorrei infine suggerire che questo poema, come sostanzialmente tutta la poesia di Laraque, appartiene a quello che, nel succitato “La rugiada della speranza”, lo stesso Paul individuava come: “il realismo meraviglioso degli Haitiani, preconizzato (…) da Jacques Stephen Alexis in un saggio teorico che porta giustamente questo titolo”.
Un capitolo a parte meriterebbe il generoso tentativo, compiuto con altri letterati della sua generazione, di scrivere e pubblicare in lingua creola (“Fistibal” 1974, “Sòlda mawon” 1987, “Lespwa” 2001), mi limiterò invece a specificare, con Elisabeth Mudimbe-Boyi, che il Creolo haitiano è “una lingua sincretica il cui vocabolario integra vocaboli essenzialmente francesi con altri provenienti da varie lingue africane un tempo parlate dagli schiavi di San Domingo. Considerato per lungo tempo una lingua orale inferiore e popolare, e ripudiato dalla borghesia, il creolo è stato oggi rivalutato e viene considerato un elemento della cultura nazionale haitiana.” (E. Mudimbe-Boyi, “Introduzione” in J.S. Alexis, “Gli alberi musicanti”, Roma 2004, pag. XV – a cui rinvio il lettore per un approfondimento sugli aspetti socio-politici e culturali di Haiti e per ulteriori suggerimenti bibliografici).
Per chiudere il mio intervento, che è una dichiarazione d’amore per questa poesia ed allo stesso tempo di inadeguatezza dei miei strumenti critici rispetto alla sua complessità, voglio proporre una poesia, “Fillette à la marelle” (p. 64) che sembra farci cambiare completamente registro:
Ton pied unique
Buté
Cognant la pierre plate
En mesure l’élan
Parapluie
Sur l’aube de ta cuisse
Ta jupe gonflée
Comme une boussole folle
Et le vol suspendu des ailes
Pour l’équilibre de la jambe ramenée
Ta cadence hésite et s’affirme
Tout pas vers moi porte le risque d’une chute
Et chaque seconde de hasard est notre chance balancée
[Bambina (che gioca) alla campana// L’unico piede/ d’appoggio/ urta la pietra piatta/ ne misura lo scatto/ ombrello/ sull’alba della coscia/ la gonna gonfia/ come una bussola folle/ e il volo sospeso delle ali/ per bilanciare la gamba ripiegata/ la cadenza esita e si assesta/ ogni passo verso me comporta il rischio di una caduta/ ed ogni secondo di azzardo è la nostra fortuna in equilibrio]
Come ben vede il lettore, siamo in presenza di una “fotografia” di una bambina (forse la figlia o una nipote dell’autore) intenta al popolare gioco della “campana” o “settimana”: ha la freschezza di un bozzetto impressionista, con l’aggiunta però di una partecipazione emotiva data dalla presenza nel quadro dello stesso autore.
Tuttavia c’è qualcos’altro: in quell’alternarsi di esita e si assesta, in quel volo sospeso, mi sembra di poter leggere il conflitto di sentimenti (ansia, gioia, timore, orgoglio) di un padre che vede la propria bambina crescere e vorrebbe simultaneamente conoscere il suo futuro di donna (rimarcherei la metafora ali/braccia che abbiamo già trovato in precedenza, riferita alla donna/moglie Marcelle, con connotazioni esplicitamente erotiche, ma anche il sintagma l’alba della coscia) e fermare lo scorrere del tempo in questo momento ludico dell’adolescenza; ma, e non vorrei sbagliarmi, mi sembra di poter cogliere in quel rischio di una caduta e in quella combinazione di hasard e chance dell’ultimo verso, un riferimento che travalica il contingente per attingere ad una dimensione esistenziale, quella dell’esule che teme e spera, ma, ancor più in generale, quella dell’uomo (in fondo siamo tutti esuli, da Adamo in poi) in bilico tra la consapevolezza del suo destino mortale e una vagheggiata “età dell’oro/ in cui si conserva anche la giovinezza del corpo”.
Concluderei – dopo aver segnalato l’importanza delle date delle ultime poesie della raccolta (Port-au Prince, le 15 septembre 1990, “Un nouveau continent”, p. 76; New York, le 12 janvier 1993, “La saison des comptes”, pp. 78-80) che rimarcano l’illusorio rientro in patria sotto Aristide ed il nuovo definitivo esilio sotto Cédras – con alcuni fra gli ultimi versi di Paul Laraque che testimoniano ancora una volta la sua irriducibile fedeltà ad Haiti, l’isola dell’infanzia e della giovinezza, della poesia e della lotta politica: “se morirò in esilio/ le correnti sottomarine mi riporteranno alle rive natali/ dove il mio fantasma invincibile ai balli/ si unirà agli uomini e alle donne della mia isola” (“Oeuvres incompletes”, cit. p. 277): il mio invito, rivolto a tutti noi lettori, è di trasformarci almeno per qualche ora in “correnti sottomarine” per riportare questo grande poeta ed il suo (M)amour sulla bionda sabbia della sua isola nativa.
Giancarlo Cavallo
Paul Laraque (in creolo, Pòl Larak) è nato a Jérémie. Haiti, il 21 settembre 1920. Dopo gli studi a Jérémie e Port-au-Prince, entra all’Accademia militare nel 1939 e si diploma nel 1941. Insieme ad un gruppo di scrittori ed intellettuali haitiani incontra André Breton a Port-au-Prince nel 1945. Nel 1951 si sposa con Marcelle Pierre-Louis. Nel corso della sua carriera militare viaggia in tutto il paese dove si rende conto delle intollerabili condizioni di vita dei suoi connazionali poveri. Con Morisseau-Leroy, Émile Roumer, Franck Fouché e Claude Innocent, Laraque fa parte della prima generazione di scrittori haitiani che insieme al francese utilizzano letterariamente la lingua creola.
Poeta nell’esercito, nutre l’ambizione di esserne la coscienza. Nel 1960, resta neutrale durante gli avvenimenti politici del 25 maggio, ma sarà messo “a riposo” a novembre durante lo sciopero degli studenti e dopo l’arresto dello zio della moglie.
Laraque va in esilio nel 1961, a New York, in Spagna e poi di nuovo a New York dove vive già suo fratello Franck con la sua famiglia. La moglie lo raggiunge nel 1961 e i loro tre figli nel 1962. Laraque ottiene una cattedra di lingue romanze (Fordham University) e diventa professore di francese. Parallelamente combatte all’interno di organizzazioni progressiste, perdendo la nazionalità haitiana nel 1964.
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