In questo momento così difficile di isolamento necessario e forzato, di perdita di identità di gruppo, proviamo almeno virtualmente a mantenere insieme la nostra piccola comunità offrendo contenuti nuovi e significativi dal nostro grande archivio. Tutta la “famiglia” di Casa della poesia (poeti, operatori culturali, amici, lettori, appassionati e la redazione di Potlatch) si stringe in un abbraccio virtuale che trova nella poesia una forma di resistenza, di riflessione, di consolazione, d’amore, di aiuto, di lotta e di speranza. Dall’eremo di Casa della poesia, in questa rubrica “la poesia che ci salva”, non poteva mancare Eloy Santos. La poesia scritta e letta proprio per l’occasione è “L’attesa / La espera”. La traduzione è di Giancarlo Sissa. Augurandoci di venir fuori presto da questo incubo, invitiamo come farebbe Izet Sarajlić a stare insieme, uniti e a passeggiare almeno in una poesia. Prosegue l’impegno di Casa della poesia e di Potlatch per una cultura libera e condivisa.
ELoy Santos
L’ATTESA
Da una delle finestre della casa
guardo la torre della chiesa.
La sua schietta geometria celeste
alberga campane che non invocano il cielo
da molti giorni.
Non si sente neanche il pendolo
arrugginito delle altalene nel parco infantile.
Nessun bamino si lancia sullo scivolo, né insegue
la corsa di un altro bambino che fugge e urla la sua paura finta.
Come se il pifferaio della fiaba li avesse portato via
in un luogo che abbiamo scordato
perché non credevamo che esistesse.
Allo stesso Mai se ne saranno andati anche
i pochi venditori ambulanti che passavano ancora,
e qualsiasi viso conosciuto che potesse riconoscerci.
Adesso sono tutti coperti dal velo
di un nuovo culto
che ci troviamo a praticare.
A nulla siamo più chiamati
se non all’immobilità perfetta,
a una più stretta disciplina.
Da giorni
minuziosamente
seguo le tracce dei miei passi di ieri lungo la scorciatoia
dei miei passi di domani,
rintraccio l’eco delle impronte di qualcuno,
di qualcosa
che non è ancora successo
ma che comincia a coincidere, fuori dal tempo
e dalla prospettiva, in una ghiacciata
orma bianca, sotto una nuvola stabile
come quelle che occupano,
dall’alba alla sera,
il soffitto delle botteghe degli stuccatori.
Rinchiuso in quell’orma,
a poco a poco,
ho cominciato a non essere io.
Cammino su un giorno lungo come una vita,
breve come una vita,
inspiegabile
come
una
vita.
Dalla finestra che si affaccia sulla chiesa
non si vedono colonne di fumo, sinistri
bagliori, né palazzi in fiamme in lontananza,
nella città città sotto assedio.
Soltanto lo splendido azzurro di una primavera piena,
una pianura di pura assenza
che nessuna squadriglia aerea avvilisce.
Non si sentono esplosioni,
ma confesso che sono arrivato a sentire
un tamburo che mi trema sotto i piedi,
e come traballano
all’improvviso
le travi della casa,
e i suoi abitanti,
come
a volte
crolla abbattuto un libro
dal suo scaffale.
Viviamo la vita sospesa delle statue.
E dentro una statua un incantesimo ci ha esiliato.
Attraverso i suoi occhi cechi guardiamo
il palcoscenico di una strada deserta,
con i suoi marciapiedi inutili
e i suoi lontani assoli di merlo
e i suoi fantasmi
da una casa-museo
che stranamente è la nostra.
La Bibbia non rivela il nome
della moglie di Lot, ma sappiamo adesso che sotto l’aspra
veste c’era scritto quello di tutti,
e che li nasconde sotto ogni mucchietto
di sale che si affaccia
dalla finestra
al silenzio di fronte.
Da queste vetrine sovrapposte,
custodiamo il pomeriggio e la mattina, tendendo agguati
all’enorme invisibile
che rode lentamente
il fegato di questa città.
Dietro a ogni finestra, in ogni cubicolo
di penombra domestica a cui ci obbliga
questo ritiro alla vita contemplativa,
innumerevoli occhi di marmo
lambiscono
con lacrime di zingara indovina
il cristallo che ci rivela
le apparenze di un mondo appena abbandonato.
Qui, nell’intimo chiostro
di un gesto postumo
rimuginano le nostre menti
l’erba paziente dei minuti.
Qui sono sottoposte
a laboriosa macerazione,
galleggiando nella schiuma di un calderone
cosmico in cui bolle
il magma scarlatto delle metamorfosi.
Siamo vasi di materia nigra e annoiata nelle mani
di un alchemista delle profondità,
un palombaro di nobiltà così transparente,
che non lo si vede,
né lo si sente,
né gli si sospetta un’esistenza.
Ma il suo alito scandisce nelle nostre bocche
oscure vocali inedite,
verbi di cenere,
una scienza muta che balbetta
nell’aria l’arte
di tornare a sapere,
una volta per tutte,
che non dipendiamo da noi stessi.
Che mai abbiamo dipeso da noi soltanto.
Che non occupiamo il centro dell’universo
e che nemmeno esiste un universo solo.
E adesso, che qualcuno si offra volontario
per ospitare l’angelo…
D’altronde, nessuno ha detto mai
che questo sarebbe stato facile.
Sprofondati nel mistero
di un cuore che,
sul punto di battere,
tace,
sogniamo.
Non facciamo altro che silenziosamente sognare.
Un giorno, in un’altra vita, chi sa quando,
un imprevisto sbadiglio porrà
fine al sortilegio.
Spazzeremo in fretta i mucchi
di sale che siamo stati là dentro,
e sul pavimento,
accanto alla finestra.
Rimessi in piedi
davanti alla soglia di una vita
saremo chiamati allora
a dichiarare un’intenzione,
l’unica a nostra portata, l’unica
che legittimamente
ci si può richiedere:
se essere ancora una volta le cariatidi che reggono
l’infinita pesantezza della città,
oppure se, lievi sulla prua di uno sguardo pulito,
avviarci,
questa volta sì,
senza voltare
lo sguardo
indietro.
aprile 2020
Traduzione di Giancarlo Sissa
Eloy Santos
LA ESPERA
Desde una de las ventanas de la casa
veo la torre de la iglesia.
Su escueta geometría celeste
alberga campanas que no invocan al cielo
desde hace muchos días.
Tampoco se oye el péndulo oxidado
de los columpios en el parque infantil.
Ningún niño se zambulle en el tobogán, ni persigue
la carrera de otro niño que huye a gritos con su miedo de mentira.
Como si el flautista del cuento se los hubiera llevado
a un lugar que se nos olvidó
porque no creíamos que existiera.
Al mismo Nunca deben de haberse ido
los pocos vendedores ambulantes que aún pasaban,
y cualquier rostro conocido que nos reconociera.
Ahora a todos los cubre el velo
de un nuevo culto,
que hemos empezado a practicar.
A nada somos llamados ya
sino a la inmovilidad perfecta,
a una más estricta disciplina.
Desde hace días
minuciosamente
sigo las huellas de mis pasos de ayer por el atajo
de mis pasos de mañana,
rastreo el eco de las pisadas de alguien,
de algo
que no ha sucedido aún
pero que empieza a coincidir, fuera del tiempo
y de la perspectiva, en una helada
huella blanca, bajo una nube duradera
como las que ocupan,
del alba a la noche,
el techo de las yeserías.
Encerrado en esa huella,
poco a poco
he empezado a no ser yo.
Camino por un día largo como una vida,
breve como una vida,
inexplicable
como
una
vida.
Desde la ventana que da a la iglesia
no se vislumbran columnas de humo, siniestros
resplandores, ni edificios en llamas allá a lo lejos,
en la ciudad sitiada.
Solo el espléndido azul de una primavera plena,
una llanura de pura ausencia
que ningún escuadrón de aviones envilece.
No se escuchan estallidos,
pero confieso que he llegado a sentir
un tambor tiritando bajo los pies,
y cómo se tambalean
de repente
las vigas de la casa,
y sus habitantes,
cómo
en ocasiones
cae abatido algún libro
desde su anaquel de siempre.
Vivimos la vida en suspensión de las estatuas.
Un ensalmo nos ha exiliado en el interior de una.
Por sus ciegos ojos blancos miramos
el escenario de una calle sin nadie,
con sus aceras inútiles
y sus solos lejanos de mirlo
y sus fantasmas
desde una casa-museo
que extrañamente es la nuestra.
La Biblia no revela el nombre
de la mujer de Lot, pero ahora sabemos que bajo la áspera
túnica llevaba escrito el de todos,
y que lo oculta en cada montoncito
de sal que se asoma
por la ventana
al silencio de enfrente.
Desde estas vitrinas superpuestas
custodiamos la tarde y la mañana, al acecho
del enorme invisible
que roe
lentamente
el hígado de esta ciudad.
Detrás de cada ventana, en cada hueco
de penumbra doméstica a que nos fuerza
esta retirada a la vida contemplativa,
innumerables ojos de mármol
lamen
con lágrimas de zíngara adivina
el cristal que nos revela
las apariencias de un mundo recién abandonado.
Aquí, en el íntimo claustro
de un ademán póstumo
rumian nuestras mentes
la paciente hierba del minutero.
Aquí son sometidas
a laboriosa maceración,
flotan en la espuma de un caldero
cósmico en el que hierve
el magma carmesí de las metamorfosis.
Somos aquí vasos de materia nigra y aburrida en manos
de un alquimista de las profundidades,
un buzo de tan transparente nobleza
que ni se le oye,
ni se le ve,
ni se le sospecha existencia.
Pero su aliento deletrea en nuestras bocas
oscuras vocales inéditas,
verbos de ceniza,
una ciencia muda que tartamudea
en el aire el arte
de volver a saber,
de una vez por todas,
que no dependemos de nosotros mismos.
Que nunca hemos dependido solo de nosotros.
Que no ocupamos el centro del universo
y ni siquiera hay un universo solo.
Y ahora, que alguien se ofrezca
para hospedar al ángel…
Por otra parte, nadie dijo nunca
que esto iba a ser fácil.
Sumidos en el misterio
de un corazón que,
a punto de latir,
calla,
soñamos.
No hacemos otra cosa que silenciosamente soñar.
Un día, en otra vida, quién sabe cuándo,
un inesperado bostezo pondrá punto
final al hechizo.
Barreremos aprisa los montones
de sal que hemos sido aquí adentro
y en el suelo,
junto a la ventana.
Puestos de nuevo en pie,
ante el umbral de una vida
seremos llamados entonces
a declarar una intención,
la única a nuestro alcance, la única
que legítimamente
se nos podría exigir:
si volver a ser las cariátides que sostienen
la infinita pesadumbre de la ciudad,
o si, leves en la proa de una mirada limpia,
echar a andar,
esta vez sí,
sin volver
la vista
atrás.
Abril de 2020
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