Continua e prosegue fino al 22 gennaio 2023, alla Pinacoteca Provinciale di Salerno (via Mercanti, 67), l’esposizione “Little Kaddish. Jack Hirschman 1933-2021”, un omaggio al grande poeta, pittore, traduttore, in occasione di quello che sarebbe stato il suo ottantanovesimo compleanno. In mostra opere pittoriche, disegni, letture, filmati, audio, video, approfondimenti, ricordi e versi. Jack Hirschman è stato una leggenda della poesia e della controcultura americana e compagno, amico, fratello, fondatore del progetto di Casa della poesia e pilastro per 30 anni della nostra comunità poetica internazionale.
E per l’occasione vogliamo offrire un altro testo straordinario “L’Arcano di Molly”, un ritratto di Molly Dannemark Hirschman, nonna del poeta, nata a Kamenetz in Russia e giunta negli Stati Uniti a 16 anni nel 1899 e morta nel 1956 nel Bronx. Jack ricorda le sue visite da bambino, la lingua hyddish, le strane storie familiari. La traduzione e le note sono di Raffaella Marzano, la registrazione del 2019 è stata realizzata nel corso di un reading a Salerno. Con Jack Hirschman, Aldo Vigorito al contrabbasso.
Continua l’impegno di Potlatch e di Casa della poesia per una poetica del dono e della condivisione.
Jack Hirschman
L’ARCANO DI MOLLY
Il turbante a spirale dei suoi capelli d’argento
che lei scioglieva ad ogni vigilia dell’Anno Nuovo
per me e mia sorella Cynthia arrivava
fino al pavimento al nostro: “Rapunzel, Rapunzel,
manda giù i capelli!”
Io 7,
Cyn 5,
e nonna Molly arrossiva
mentre noi afferravamo i suoi capelli e giravamo
e passavamo uno sotto l’altro intrecciando
l’albero del primo maggio in cui lei, volteggiando lentamente,
si trasformava. Non avevo mai visto la nostra babysitter così felice.
Certo
non
nelle scale puzzolenti di piscio e infestate da scarafaggi dell’appartamento
al sesto piano di Longwood Avenue,
dove sono arrivato ogni sabato per sette anni
per ascoltare una lingua che a malapena capivo
e guardarla, in un shmata1 vestito da casa,
raggiungere
il
vecchio armadio di legno scuro vicino al tavolo
pieno di Stelle d’Argento, Cuori Viola, medaglie
e insegne, un orologio da polso nazista, un machete
giapponese, trofei di guerra dei suoi figli, una foto del
Presidente Roosvelt a cui lei parlava,
e tirare
fuori
una bottiglia di schnaaps2 per il collo, aprirla, gettare indietro
la testa e prendere un lungo sorso, pulendosi
la bocca col dorso della mano continuando
a parlare con me scavando nei cassetti per trovare cose,
con lei broch, broch ahf zai, broch ahf zai3.
O lingua
di veyzmirs4!
Il suo yiddish mi graffiava dentro e mi carezzava
con abrasioni ruvide-dolci come quelle della lingua
del gatto, con le sue continue lamentazioni, kvetching5,
i suoi vergehargets6, shleppers7, paskudnyakes8, le sue litanie
di maledizioni che suonavano come rubate
dalla natura
stessa
e fino a tanti anni dopo a mala pena riuscivo
a capire una parola: che lei aveva allevato nove figli ma che
quello che lei amava di più era il decimo, che era nato
dopo che nonno Morris era morto e lei andava a letto con
il macellaio Portoricano di Rivington St.,
e, in
Shanda9
che lui l’aveva messa incinta, i suoi stessi figli
avevano rapito il bambino appena nato dall’ospedale, l’avevano portato
in un orfanatrofio come un vuoto a rendere, ricavato
un po’ di soldi, e l’avevano chiamata “Kurveh”10 e “Tsitsikes”11
Meshugah ahf toyt!12 Gottenyu!13 Roboynoy shel oylom!14
Possano
essi
gaien in drerd arein15, i suoi bambini, possano i loro figli
nascere nani, possano essi e le loro mogli e
i loro figli non trovare mai pace, non un solo giorno, non
un minuto, e possano essi morire subito per aver
venduto il suo bambino, quei vantzn16. Shreckliche zach17!
E
andava
nella stanza in cui c’erano nidi di scarafaggi e una
pila di giornali Forvits18 color seppia, mi indicava
l’ultima pagina: la foto di un giovane portoricano ucciso
nella guerra di Corea disteso a terra e, col dorso
della mano, colpiva la pagina e diceva
che era
il figlio
che i suoi figli avevano rapito tanti anni prima:
Oy, oy, hartsvaitik19! Com’era impazzita
la mia Bubba20! Ed ora, oggi, ho fatto un passo sulla mia
bocca ed ha morso le mie dita dei piedi facendomi
inciampare e cadere nel pozzo di coscienza blu
in cui
io
per la prima volta vidi lo splendore di Molly Dannemark
prima ancora di sapere che era proprio la mia nonna
e la sentii sollevarmi su su fino alle sue guance, e sentii
le sue dita correre sul mio petto, ascoltando
la mia risata mentre la sua voce mi baciava la pancia gridando
kitsel, kitsel21,
oy, shainer22!
(2009)
Note
1 shmata, straccio. / 2 schnaaps, whiskey. / 3 a broch, una maledizione; a broch ahf zai, una maledizione su di loro. / 4 veyizmirs, povero me. / 5 kvetching, lamentarsi. / 6 vergehargets, perditempo. / 7 shleppers, fannullone. / 8 paskudnakes, teppisti. / 9 Shanda, una grande vergogna. 10 Kurveh, puttana. / 11 Tsitsikis, tette. / 12 Meshuganah ahf toit, mortalmente folle. / 13 Gottenyu, O Dio. / 14 Roboyna shel oylom, Dio del cielo / 15 gaien in drerd arein, andare all’inferno. 16 vantzen, pulci. / 17 Schreckliche zach, cosa terribile. / 18 Forvits, quotidiano yiddish . / 19 Oy, oy, hartzvaitik, Oh, oh, tristezza. / 20 Bubba, in yiddish, nonna. / 21 kitsel kitsel, solletico. / 22 shayner, O splendore.
Jack Hirschman
THE MOLLY ARCANE
The whirling turban of her silver hair
that she undid every New Year’s Eve
for my sister Cynthia and me reached
to the floor at our: “Rapunzel, Rapunzel,
let down your hair!”
Me 7,
Cyn 5,
and how Grandma Molly would blush
as we took grabs of her hair and went over
and under each other like making a braid
of the Mayday tree she’d, slowly spinning,
turn into. I never saw our babysitter so happy.
Certainly
not
in the pissy staircase and roach-infested 6th
floor tenement flat on Longwood Avenue,
where I arrived every Saturday for 7 years
to listen to a language I barely understood
and watch her, in a shmata of a housedress,
reach
into
the old brownwood shift-robe next to the table
filled with Silver Stars, Purple Hearts, medals
and insignias, a nazi wristwatch, a Japanese
machete, war trophies of her sons, a photo of
President Roosevelt that she’d talk to,
and yank
out
a bottle of schnaaps by the neck, open it, throw
back her head and take a deep swig, wiping her
mouth with the back of her hand and continuing
talking to me digging into drawers to find things,
with her a broch, a broch ahf zai, a broch ahf zai.
O tongue
of veyzmirs!
Her Yiddish grated down into me and licked me
with coarse-sweet abrasion like that of a cat’s
tongue, with her continuous lamenting, kvetching,
her vergehargets, shleppers, paskudnyakes, her
litany of curses sounding as if stolen from
nature
itself
and hardly a word did I understand until years
later: that she’d raised nine children but the
one she loved most was the 10th, who’d been
born after Grandpa Morris died and she went to
bed with the Puerto Rican butcher on Rivington St.,
and, in
Shanda
that he had knocked her up, her very own children
kidnapped the child at birth from the hospital, took
him to a foster home like a deposit bottle, got some
cash for him, and called her “Kurveh” and “Tsitsikes”
Meshugah ahf toyt! Gottenyu! Roboynoy shel oylom!
May
they
gaien in drerd arein, her children, may their kids
be born dwarves, may they and their wives and
their children never find peace, not a day, not
a minute, and may they die suddenly for having
sold her baby, those vantzn. Shreckliche zach!
And she
went
to the room where there were nests of roaches and a
stack of the sepia Forvits newspapers, showed me
the back-page: a photo of a young Puerto Rican killed
in the Korean War on the ground and, with the back
of her hand, she slapped the edge of the paper and said
he was
the son
her children had kidnapped years and years ago:
Oy, oy. hartsvaitik! How mad my Bubba had
been driven! And now, today, I’ve stepped on my
own mouth and it’s bitten my toes and made me
stumble and fall into the pit of blue conscience
where
I
first beheld the radiance of Molly Dannemark
before I knew she was my very own grandmother
and felt her lift me up up up to her cheek, and felt
her fingers scurry along my waist, hearing my scream
of laughter as her voice kissed my belly crying
kitsel, kitsel,
oy shainer!
(2009)
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