La poesia della settimana è l’intesa, commovente, “Nomi cancellati / Nombres borrados” di Juan Vicente Piqueras. La poesia è tratta dal bellissimo libro del grande poeta spagnolo Padre (Multimedia Edizioni, 2021), dedicato a Fermin Piqueras Carcel, suo padre, al suo piccolo paese d’origine, alle sue radici, alla vita contadina, ai rimpianti, alla malattia che colpisce il genitore. Un libro, intenso e commovente, con disegni di José Saborit. La traduzione è di Raffaella Marzano, la registrazione realizzata a Casa della poesia. Prosegue l’impegno di Potlatch e di Casa della poesia per una cultura libera, democratica, condivisa.
Juan Vicente Piqueras
Nomi cancellati
“La mente non è una matita per prendere appunti,
è una gomma per cancellare”.
Marko Vešović
Mio padre andò perdendo poco a poco il linguaggio.
E iniziò dai nomi. La prima cosa
che il suo cervello scordò non furono gli avverbi
né i pronomi o gli aggettivi,
come si sarebbe tentati di credere,
e nemmeno i granelli di polvere delle preposizioni,
ma i sostantivi.
La mela smise di essere mela,
il bicchiere diventò quello
e chi gli si avvicinava smetteva di aver nome.
La morte cominciò il suo minuzioso lavoro
rubandogli i nomi,
cancellandoli, mettendo
al loro posto un questo o un quella cosa,
un dammi, un balbettio, un gesto della mano.
Gli ultimi che si perdono sono i verbi,
i verbi che si muovono nel sangue
come fossero pesci
finché il mondo finisce,
finché il corpo non regge più l’anima.
Gli aggettivi sono affettuosi,
vestono delle loro passioni quel che guardano
e perciò sopravvivono.
I nomi invece svaniscono.
E la sostanza dei sostantivi
è nebbia, inezia, torri di fumo.
La mela smette di essere mela.
Io smetto di aver nome.
La parola dolore non significa nulla.
Traduzione: Raffaella Marzano
Juan Vicente Piqueras
Nombres borrados
«La mente no es un lápiz para tomar apuntes,
es una goma de borrar.»
Marko Vešović
Mi padre fue perdiendo poco a poco el lenguaje.
Y empezó por los nombres. Lo primero
que olvidó su cerebro no fueron los adverbios
ni los pronombres ni los adjetivos,
como uno estaría tentado de creer,
ni las motas de polvo de las preposiciones,
sino los sustantivos.
La manzana dejó de ser manzana,
el vaso pasó a ser eso,
y quienes se acercaban dejaban de llamarse.
La muerte comenzó su labor minuciosa
robándole los nombres,
borrándolos, poniendo
en su lugar un esto o un aquello,
un dame, un balbuceo, un gesto de la mano.
Lo último que se pierde son los verbos,
los verbos que se mueven en la sangre
como si fuesen peces
hasta que acaba el mundo,
hasta que ya no puede el cuerpo con su alma.
Los adjetivos son afectuosos,
visten con sus pasiones lo que miran
y por eso perviven.
Pero los nombres se esfuman.
Y la sustancia de los sustantivos
es agua de borrajas, niebla, torres de humo.
La manzana deja de ser manzana.
Yo dejo de llamarme.
La palabra dolor no significa nada.
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