(…) il passato non sta mai fermo. Sollecitato, si rinnova con ciò che lo sollecita.
Luciano Anceschi, (Altre circostanze per il libro, 1978)
Ho avuto il piacere, e l’emozione, di tradurre alcuni testi di Christiane Veschambre tratti dal suo Les mots pauvres (Cheyne éditeur, Le Chambon-sur-Lignon 1996) nel 2004 in occasione del Festival internazionale di poesia di Sarajevo, città nella quale ci siamo incontrati per la prima volta (ed alla quale l’autrice ha dedicato un bel testo La Ville d’après, che, sempre da me tradotto, è apparso in italiano su Potlatch https://www.potlatch.it/scritture/le-citta/christiane-veschambre-citta-dopo/ ). Da allora è rimasto tra noi un sottile filo teso di scrittura e, perlomeno da parte mia, la stima crescente per un lavoro allo stesso tempo tenue e tenace, fatto di parole apparentemente semplici e di riflessioni profonde. Ho avuto in seguito occasione di tradurre altri scritti di Christiane (apparsi in “Rivista di psicologia analitica”, Milano 2004, “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea”, Rimini 2014, ancora per la sua seconda partecipazione al Festival di Sarajevo nel 2010, ecc.), al punto da potermi ritenere uno tra i maggiori conoscitori di questa autrice in Italia. Tuttavia la gestazione di queste pagine non è stata affatto semplice, forse perché giustamente intimorito da quanto la Veschambre dice in apertura del suo A proposito dello scrivere – “Prendere la parola per dire che cosa sia scrivere è una cosa impossibile. Fallita a priori.” (À propos d’écrire in La Ville d’après, Paris 2007, pag. 27 – la traduzione, al pari di tutte le seguenti, è mia), ribadendo quanto già affermato in una precedente intervista (“…una contraddizione essenziale che consiste nel parlare di qualcosa – la scrittura – che non è riducibile alla parola.”, Entretien avec Christiane Veschambre, a cura di Jacques Le Scanff, in Le préau des collines N° 6, Paris 2003, pp. 21-22 – si noti per inciso che questo numero intitolato À propos de Christiane Veschambre è quasi interamente dedicato alla scrittrice, con la pubblicazione di estratti, un inedito e vari interventi critici, oltre alla predetta intervista); o perché non riuscivo a trovare la giusta distanza per inquadrare il suo lavoro, forse a causa di un eccessivo coinvolgimento.
A complicare ulteriormente le cose, va detto che la scrittura della nostra autrice si situa in un territorio di confine tra la poesia e la prosa, tanto che lei stessa definisce “poema narrativo” il suo Robert & Joséphine (Cheyne éditeur, Le Chambon-sur-Lignon 2008): questo forse ha contribuito – insieme alla sua natura schiva – al fatto che le sue opere non abbiano avuto in Italia il successo e la diffusione che avrebbero meritato.
Riguardo alla questione poesia/prosa vorrei proporre quanto detto da Christiane nella suddetta intervista: “(…) ciò non ha niente a che fare con la natura narrativa, o meno, del testo, la sua disposizione apparente, continua o discontinua etc. Ma ha a che fare con il ritmo, se si intende per ritmo ciò che marca l’invenzione di una scrittura singolare. E che non si apparenta in nulla, ai miei occhi, con la “musicalità” di un testo. Si invoca spesso quest’ultima per lodare, in un libro, quel che raggiunge una musica, diciamo confortevole, una musica che si “riconosce”, che sia elegante, spontanea, discreta, veemente o soltanto “piccola”. In breve, le si può attribuire un aggettivo qualificativo. Ma il ritmo, è dall’imprevedibile che sorge, è un contrassegno, nella lingua e nell’essere, che ci riporta in vita – cosa che non è per forza “bella” né confortevole.” (Intervista, cit. pp. 31-32).
Come si vede il territorio nel quale ci si dovrebbe addentrare è estremamente affascinante ma anche davvero complesso, irto di difficoltà, e richiederebbe una strumentazione di grande precisione per evitare di perdersi e soprattutto di perdere quel delicato ecosistema che è la poesia, distruggendolo con procedimenti grossolani. Ma è proprio Christiane, ancora nel predetto A proposito dello scrivere, proseguendo nel suo raffinato argomentare, a dare una motivazione (al tentativo di parlare di una scrittura) che mi ha spinto a proseguire: “Lo faccio tuttavia, pur sapendolo, perché è come parlare di una persona amata ed assente: si fa vivere in noi il sentimento di questo amore e ci commuove che un altro, ascoltando, ce lo permetta.”
Ho scelto di parlare del suo Versailles Chantiers (Éditions Isabelle Sauvage, Plounéour-Ménez 2014) sia perché lo trovo davvero significativo ed esemplare del lavoro del poeta – frutto, come apprendiamo dalla nota di ringraziamento posta nella terzultima pagina, di un’esperienza, la residenza per alcune settimane in una Casa della poesia (del Saint Quentin en Yvelines), alquanto rara in Italia – sia perché ho creduto che avrebbe costituito un’efficace chiave d’accesso anche alle opere precedenti; tuttavia, mi rendo conto della difficoltà che i lettori di questa rubrica potrebbero incontrare visto che si tratta – a differenza degli interventi precedenti – di un’opera ancora non apparsa in traduzione italiana: cercherò quindi di fornire sempre un adeguato supporto testuale per ovviare a tale inconveniente, augurandomi che la pubblicazione in Italia, di questo e di altri testi, sia prossima. Va anche detto che l’elegante edizione francese è corredata da belle fotografie di Juliette Agnel (la Veschambre ha già proposto una simile collaborazione in Haut jardin, Paris 2004, foto di Jacques Le Scanff, e in Après chaque page, Paris 2010, foto di Dominique Cartelier e di Juliette Agnel) di cui però non parlerò, in quanto il testo conserva pienamente la propria autonomia ed io non possiedo le necessarie competenze per occuparmi del linguaggio fotografico.
Nel testo introduttivo in corsivo, riferendosi a Versailles Chantiers (la stazione che dà il nome al volume), Christiane Veschambre dice:
(…) ses rails
se sont enfuis sur les lignes du temps, enfoncés dans les couches du sol
au lieu de s’élancer à sa surface.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un’insolita tridimensionalità dove ad una lunghezza, costituita dai binari, e ad una larghezza, costituita dalle traverse o traversine, si aggiunge una profondità stratigrafica che finisce per attingere una nuova dimensione temporale, storica, della quale in superficie non resta traccia, se non nel nome Chantiers.
Va subito specificato che Christiane persegue, sin dal suo non precoce – come lei stessa sottolinea – esordio con Le Lais de la traverse (éditions des Femmes, Paris 1979), una linea di scrittura che pone al centro della sua poetica le vicende di una famiglia (la sua), il passaggio da una realtà rurale alla periferia della grande metropoli parigina.
In questo libro un filo sottile svolge con apparente semplicità la cronaca familiare, quasi una saga in tono minore, umile oserei dire, che già costituiva il precedente poema narrativo Robert & Joséphine; ma altri fili si intrecciano in senso orizzontale e verticale al principale, tanto che all’inizio quasi si fa fatica a coglierne il tenue legame. Però, se ci si abbandona all’ascolto, se si entra in quel ritmo di cui si parlava nell’intervista sopra citata, ci accorgiamo che tutto in questo testo ci appartiene intimamente, profondamente. Un arazzo, un tappeto vivente dietro il quale si intravede la mano sapiente di una donna, un sapere tramandato lungo il filo del racconto. La storia con la S maiuscola, che fa capolino qua e là (la costruzione della reggia di Versailles, la II guerra mondiale, la guerra d’Algeria), ha un ruolo marginale, ancillare rispetto alla cronaca, al duro lavoro di scalpellini o serve, a due innamorati che si tengono per mano, ad una cornacchia gracchiante nel cuore dell’inverno.
Ma procediamo con ordine e ripartiamo dall’inizio. Va innanzitutto ribadito, per chi non lo sapesse, che il titolo proviene dal nome di una stazione ferroviaria, quella sita nei pressi della reggia di Versailles.
Il testo comincia stabilendo delle coordinate spazio-temporali in una dimensione cosmica (“Guardare lo spazio è guardare il tempo, dice l’astronomo.” – p. 7). Ma questo scenario siderale si esaurisce nei primi cinque versi: il parallelismo che viene istaurato nel sesto verso ci riporta, è il caso di dirlo, coi piedi per terra (“Allo stesso modo, sotto i nostri piedi, il suolo ha vissuto.”).
Nella seconda strofa, non a caso, viene riportata una definizione della stazione di Versailles presa da Wikipedia (che la situa “al centro di una stella ferroviaria”): ecco che il quotidiano ha ripreso saldamente le redini del racconto, e il nostro astronomo trova una ragione ancor più stringente d’essere grazie a questa nuova stella terrestre.
Dicevo in apertura di questo scritto che in Veschambre troviamo parole apparentemente semplici e riflessioni profonde, eccoci dunque (subito dopo i due versi che ho citato in precedenza sulle rotaie che sono, metaforicamente, sprofondate) di fronte ad una fulminante terza strofa, che definisce il proprio lavoro:
J’ai laissé affleurer. C’est un travail d’écoute : l’espace c’est la vue,
le temps c’est l’ouïe.
È quasi superfluo sottolineare la concatenazione ferrea tra queste strofe, un procedimento quasi musicale in cui il tema svolto in precedenza (spazio/tempo) ritorna, ma con significative variazioni: constateremo che questo modo di avanzare, riproponendo quanto scritto in precedenza arricchito da aggiunte e precisazioni, caratterizza l’intera opera (con rimandi intratestuali, ma anche intertestuali). Vorrei anche evidenziare l’atteggiamento delicato della scrittrice nei confronti della propria materia: ad essa è lasciata l’iniziativa, la si attende, senza la violenza dello scavo, senza la fretta impaziente di chi deve raggiungere una meta.
L’ultima strofa è ancora un’indicazione su come si è costituito il testo:
À la traverse, sont parfois venues de ces choses d’un autre
espace-temps, étranger, insaisissable, que sont le rêve, la mort,
la coïncidence et l’oiseau.
La locuzione francese consente un nesso – irriproducibile in italiano – con gli elementi costituenti questa sorta di interludi chiamati traverse (in evidente analogia con gli elementi trasversali che sostengono i binari ferroviari – e, en passant, faccio notare che questa parola, traverse, si trova già nel titolo del libro d’esordio), che, ancora una volta, sono venuti, hanno una loro forza autonoma che mette in secondo piano la volontà dell’autore, ma non il suo ruolo, ovviamente. Nella citata intervista Christiane dice: “Per scrivere non si tratta di impadronirsi di qualcosa, ma, al contrario, di lasciare spazio a questa realtà interiore che ci è propria (e, ancora una volta, che non è sottomessa alle forze riduttrici del «me») di accordarle una completa, attenta, esigente considerazione.” (Intervista, cit. p. 30).
Giustamente, recensendo la già citata raccolta di poemi Après chaque page, Antoine Emaz (http://poezibao.typepad.com/poezibao/2010/08/après-chaque-page-de-christiane-veschambre-par-antoine-emaz.html) parla di “une collection d’épiphanies” [una collezione di epifanie]: apparizioni improvvise e inaspettate di elementi anche minimi che hanno la forza di una vera e propria rivelazione. Ma va pure sottolineato, come appare evidente anche dagli aggettivi in precedenza usati dall’autrice (completa, attenta, esigente), che il suo lavoro di scrittura è estremamente rigoroso e che l’apparente semplicità è frutto di una strenua ricerca del “mot juste” (come sostiene Nicole Fressard-Prost nel suo Juste le mot juste, Le préau des collines N° 6, Paris 2003, pp. 41-47) , di quella parola che possa esattamente esprimere quel che si ha la necessità di dire.
Mi consenta il lettore di compiere un balzo in avanti e portarmi a pag. 41 dove la descrizione di due letture di poesia effettuate nello stesso giorno dall’autrice si conclude con questi versi:
la lectrice est un lieu de passage :
entrent en elle le monde sonore
déployé par Sophie A. sur les cordes,
le bois, l’ivoire du piano devenu
navire, et Robert et Joséphine dans
leur temps retrouvé. Elle est
– la lectrice – comme un hall de gare
construit pour ce qui la traverse.
Ancora una volta l’azione attiva di Christiane (in questo caso la lettura, come prima la scrittura) è posta in secondo piano rispetto agli “oggetti” che affermano la loro essenza soggettiva fino a rivelarsi il costituente, il materiale di costruzione, della “lettrice”. Mi sembra una profonda riflessione filosofica sulla natura della propria identità, che illumina di nuova luce l’intero percorso testuale. Certamente quel “temps retrouvé” non può non far pensare a Marcel Proust (che, con le sue Petites Madeleines, ci ha offerto l’epifania letteraria per antonomasia) ma io vorrei sottolineare come Robert e Joséphine (come detto coppia eponima del libro precedente), che sono anche i genitori di Christiane V. – uno dei personaggi che troviamo in questo libro (e qui ci sarebbe da fare una dissertazione sulla distinzione tra l’autrice Christiane Veschambre e il personaggio Christiane V.; risparmio il lettore e mi chiedo soltanto se, sulla scelta del cognome puntato, non si riverberi il Josef K. protagonista de Il processo di Franz Kafka, autore peraltro citato in À propos d’écrire) – ritornino nel tempo attraverso la poesia affermando il loro ruolo di genitori/costruttori della lettrice. Si noti, di passaggio, che viene usato il verbo “traverser” che non può non rinviare alle traverse di cui sopra, suggerendoci un ulteriore ampliamento semantico in direzione appunto dell’attraversamento.
Ma torniamo indietro, per addentrarci nella seconda poesia che al primo verso, come quasi tutte le successive, comincia con una data e un nome (“Le 24 décembre 1938 Joséphine T.” – p. 9): si afferma in questo modo la storicità degli avvenimenti narrati, mentre utilizzando il cognome puntato – così come sarà per molti di quelli presenti nel testo – si istituisce una sorta di distanza, viene conferito a coloro che di volta in volta entrano in scena lo statuto di personaggi (e non di familiari, amici, ecc.). Immediatamente (vv. 2 e 3) si stabilisce il legame di Joséphine col luogo in questione: “scende dal treno alla stazione/ di Versailles Chantiers”. Ora, questa che sembra un’affermazione elementare, quasi banale, finisce per diventare la pietra angolare dell’intero edificio testuale, l’avvenimento che mette in moto il processo, questa fantastica macchina del tempo che procede a colpi di analessi e prolessi, di continue variazioni sul tema.
Joséphine è una spaurita ragazza di campagna (viene dal villaggio di Landéhen, rispetto al quale pochi realistici tratti ci danno immediatamente conto del contesto sociale – “va a «imparare a lavarsi il culo» / come le hanno gracidato le donne/ del villaggio.” – ovvero, come ci spiega Nicole Fressard-Prost, a pag. 46 dell’articolo citato, “rischiare d’essere una prostituta”, rivelandoci in tal modo che questa stessa espressione era stata usata in uno dei libri precedenti molti anni prima).
La poesia successiva (che inizia parallelamente alla prima con “Le 24 décembre 1938 Robert V.” – p. 10) fa entrare in scena un altro personaggio principale e ci fornisce fondamentali elementi spazio-temporali. Robert V., cameriere al caffè La jeune France, in cui Joséphine sarà la nuova serva, è stato mandato a prenderla alla stazione. La seconda strofa che comincia anch’essa con una data (“Le 30 septembre 1938 ont été signés” – p. 10) ci riporta indietro di qualche mese, ma soprattutto contrappone all’elemento di cronaca uno di Storia: infatti in quella data “sono stati firmati/ gli accordi di Monaco.”. E qui incontriamo uno dei cognomi completi, “Daladier”, primo ministro francese firmatario di quegli accordi: quasi in sordina la Storia fa il suo minaccioso ingresso.
La poesia successiva (p. 11) ci fa fare ancora un passo a ritroso tornando al venerdì 24 giugno 1932, data in cui è aperta “al pubblico la hall, di stile art déco,/ della nuova stazione dei Cantieri/ concepita da André Ventre.” (indicato, come si vede, con nome e cognome)
La quinta poesia (p. 12), stavolta con un balzo in avanti, ci porta nel mezzo della bufera della Storia, infatti:
Le 3 septembre 1939 la France
déclare la guerre au IIIe Reich
de Hitler.
A questo punto mi sembra di poter ipotizzare che, attraverso la distinzione tra cognomi puntati e cognomi interi, si siano volute tenere separate due funzioni: da una parte i personaggi del racconto (Joséphine, Robert, André, Christiane, Robert dit Maurice, ecc.) dall’altra i personaggi storici (Daladier, Colbert, Hitler, ecc.), più o meno noti che siano.
La strofa successiva, che inizia con “Le 25 novembre 1939, Robert V.”, creando in tal modo un effetto di anafora (o meglio di ripetizione differente, in cui la struttura sintattica rimane la stessa, ma la data o il nome del personaggio variano), ci informa che i due (Robert e Joséphine) “se marient” [si sposano]. In rapida successione veniamo a sapere anche che Robert è arruolato e che Joséphine è incinta “de trois mois..” [di tre mesi]. La poesia seguente (p. 14) completa la drammatica vicenda informandoci che nel giugno 1940, mentre milioni di francesi abbandonano la regione di Parigi invasa dai tedeschi, Joséphine partorisce “Robert, dit plus tard Maurice.” e nella strofa successiva che “il 17 giugno 1940 Robert V. è fatto prigioniero”. L’ultima strofa, con una sorta di prolessi ci fa sapere che :
C’est le dimanche 13 mai 1945
qu’ils se retrouveront.
Leur fils Robert, dit Maurice,
va avoir cinq ans.
Questo stesso episodio del ricongiungimento era stato descritto con maggiore dovizia di particolari (abbraccio, riconoscimento del padre da parte del figlio attraverso una foto, ecc.) in Robert & Joséphine (cit. pp. 30-31).
Incontriamo subito dopo, quasi a mo’ di pausa, la prima “Traversa” (p. 19), nella quale l’autrice racconta uno strano sogno avvenuto nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2011, “qui ne me laissait pas tout à fait tranquille.” [che non mi lasciava per niente tranquilla], introducendo una dimensione onirica che ritroveremo più avanti.
Ecco che alla ripresa del racconto – introdotta da un’analogia con Los Angeles, dove Sophie Calle (nota artista e fotografa parigina) chiedeva agli abitanti “dove sono gli angeli” – arriva una domanda fondamentale (p. 20):
Et à Versailles Chantiers où
sont les chantiers ?
Immediata giunge la perentoria risposta “Dessous.”[sotto, nella parte inferiore], seguita da una catena anaforica di cinque “sous” [sotto (i binari, ecc.)], rinforzata da un “en dessous de” [al di sotto di, nella parte più bassa] che specificano come sia composita la stratigrafia della memoria sepolta, attraverso la quale, livello dopo livello, si raggiunge il termine a quo, quel 1661 in cui, in questo luogo, si iniziarono a tagliare le pietre per la costruzione del castello di Versailles. E alla pagina seguente in pochi versi vengono descritti quei 38 anni in cui i lavoratori, sottoposti alla ferrea disciplina imposta da Colbert, malnutriti e flagellati dalle epidemie, lavoravano e morivano (1320 in un solo anno, tra il 1684 e il 1685). Più avanti (p. 31) Christiane ci informerà che dai Cantieri al Castello ci sono 1600 metri di distanza e si chiederà come siano state trasportate le pietre, sottintendendo altre immani fatiche e sofferenze per i lavoratori. Questa “discesa agli inferi” non è dunque solo un viaggio nelle memorie familiari, ma anche un omaggio a quell’umanità anonima e dolente di cui non resta più nessuna traccia.
Ancora un poderoso balzo in avanti di circa tre secoli ed entra in scena un nuovo personaggio e una nuova vicenda storica, che lentamente si intrecceranno alle precedenti (p. 22):
Le 1er décembre 1959 André A. sort
de la gare de Versailles Chantiers.
La vicenda storica che viene a questo punto introdotta è la guerra di Algeria, alla quale in qualche modo sono legati sia André A. che Robert V. detto Maurice, fratello maggiore di Christiane V. , il quale, all’epoca degli accordi di Evian (1962) che mettono fine a questa guerra, festeggia i suoi 22 anni da soldato in Algeria.
Vorrei a questo punto, visto che tutti i personaggi principali sono entrati in scena e si è fatto cenno a ciascuna delle varie vicende, passare a quelli che io considero i due vertici emotivi del libro, anche se di segno diametralmente opposto.
Il primo lo incontriamo nella “Traversa n. 2” (p. 27):
le 24 décembre 2011 Anne C. meurt.
il faut un sang-froid pour écrire une telle phrase trois jours
plus tard. je sens le mien se durcir.
« la vie continue » a dit quelqu’un, parce qu’il faut un préposé
aux sentences éculées.
la mort d’Anne C. m’est un morceau de vie arraché à cru.
une traverse qui barre tout l’être une lourde traverse abattue comme
une arme en travers de la gueule – un moment, l’on n’a plus figure.
j’écris « un morceau », c’est pour dire la chair, mais de même
que toute phrase véritable est un fragment du surgissement Anne C.
est le tout de la vie.
*Il corsivo è dell’autrice; si tratta di una citazione da Pascal Quinaud “Lycophron et Zétès”, Gallimard Paris 2010, come ci viene detto nella terzultima pagina del libro.
Il secondo nelle pagine conclusive (p. 60):
Le 21 novembre 2011 André A.
et Christiane V. vont à pied de la gare
de Versailles Chantiers au château.
Le jour tombe, personne dans
le parc, les buis taillés comme
des flammes consumées en bordure
du ciel qui tient tant de place.
Le château est austère.
Christiane V. ressent un fort bonheur
à être là auprès de André A. Tout
à coup tout est beau. Tel aura été
mon chantier, se dit-elle, être en vie
avec toi.
Mi perdonerà il lettore se nulla aggiungo a questi istanti così perfetti nel dolore e nella felicità, ma ogni commento mi sembrerebbe ridondante e perfino riduttivo, rischiando di sottrarre qualcosa di essenziale, piuttosto che agevolare la comprensione del testo. La poesia – Christiane ce lo insegna (“Ancora di più: scrivere è tacere. E fare tacere. Non prendere la parola, ma perderla. Scrivere è la lingua resa al silenzio, è l’esercizio della parola silenziosa.”, ci dice sempre in A proposito dello scrivere) – la poesia, dicevo, ha bisogno di ascolto e di silenzio ed anche chi prova a farne una lettura critica ha il dovere di ricordarlo.
Parlavo di rimandi intratestuali e intertestuali. Dei primi (considerando il macrotesto Versailles Chantiers e non soltanto i singoli componimenti) ci siamo occupati abbondantemente finora, vorrei fornire un altro esempio dei secondi (molti ed inevitabili, come abbiamo visto, sono quelli riferiti a Robert & Joséphine, di cui Versailles Chantiers si può considerare uno sviluppo – e sarebbe davvero interessante poterne fare una lettura comparata per evidenziare permanenze e variazioni, ma questo ovviamente richiederebbe uno studio a parte); prendiamo quindi in considerazione la “Traversa n. 4” dove, dopo aver raccontato un sogno (in cui la morte non fa paura perché c’è accanto a sé nella caduta verso l’abisso l’uomo amato a cui dare la mano – chiaro rimando all’ultimo brano appena riportato, ma anche riproposizione del racconto onirico già presente nella “Traversa n. 1”), la strofa finale (p. 47) ci dice:
c’est entre le 25 et le 26 janvier 2012 que me visite ce rêve heureux,
deux nuits après avoir revu Mrs Muir et le capitaine Gregg partir main dans
la main, par la grâce de Joseph Leo Mankiewicz, de l’autre côté de la mort.
Il lettore curioso potrà facilmente apprendere che si fa riferimento ad un film The Ghost and Mrs. Muir , apparso nelle sale americane nel 1947 (in Francia circa un anno dopo), e che il citato Mankiewicz ne è il regista; potrà anche facilmente accedere ad una sinossi e stabilire chi sono e cosa fanno i due personaggi in questione. Meno facile gli sarà scoprire che, nel già menzionato À propos d’écrire, Christiane ci racconta in sintesi questo stesso film, utilizzandolo come metafora di quel processo per il quale la scrittura si impossessa di noi, così come il fantasma del capitano Gregg “costringe” la delicata Mrs Muir a scrivere il racconto della propria ruvida vita di marinaio avventuroso. E che questo personaggio rivesta un ruolo non secondario nell’universo letterario della Veschambre è ribadito dalla sua presenza anche nella più recente raccolta di prose intitolata “Basse langue” (2016).
Christiane conferma, anche in questo Versailles Chantiers, la sua straordinaria capacità di riflettere in maniera poetica sulla poesia e sul proprio lavoro di scrittura generando in tal modo una sorta di metapoesie; il suo approccio non è mai arrogante, da detentrice della verità, eppure riesce ad essere illuminante, ad aprire squarci di visioni che ci erano state finora negate, a suggerire varchi verso altri territori, verso un’armonia possibile tra il mondo e la nostra dimensione psichica profonda.
Vorrei aggiungere ancora un paio di considerazioni, prima di terminare rivolgendo un convinto invito al lettore ad abbeverarsi alla fonte primaria costituita dai testi dell’autrice.
Il rapporto tra astrale e terrestre, cui abbiamo fatto cenno in apertura di questo scritto, non è nuovo in Christiane Veschambre: lo ritroviamo infatti in un suo magnifico scritto Orbite [Orbita – pubblicato in traduzione italiana in “Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea”n. 2, Rimini 2014, p. 100], incluso nella citata raccolta Après chaque page, (pp. 9-13). Mai come in questo caso scrivere e parlare di sono incompatibili, come è detto nel più volte menzionato À propos d’écrire, tuttavia cercherò di farlo utilizzando il più possibile le parole dell’autrice, citando una parte del finale di Orbita:
Un giorno, passati alcuni decenni, il mondo mi fece dono del suo risveglio.
Non l’osservavo, ero soltanto più vicina agli animali della terra, raso terra, più sottomessa alla volta celeste. Avevamo dormito fuori, sul prato. Avevamo dormito poco: chiudere gli occhi, rinunciare al cielo stellato, al fiume latteo, alle visioni viscose era quasi impossibile. Il sonno ci aveva di certo alla fine raggiunti poiché avevo riaperto gli occhi su un cielo meno vivo, un notturno impallidito. Mi ero girata sul fianco, verso l´est sempre scuro. Tutto era nell´immobilità assoluta – come se nulla mai fosse stato in movimento. Come se il movimento non fosse stato ancora creato dagli dei. Il mondo viveva, oh come lo sapevo bene, presenza immobile, e quale presenza!
Ecco allora quello che mi fu dato di vedere: ad altezza dei miei occhi, raso terra, lungo il recinto che separava il prato in due porzioni, un filo d’erba – uno solo – oscillò. Delicatamente, e precisamente. Una, forse due, oscillazioni. Io seppi.
L’irrinunciabile visione siderale sembra conferire un alone di mistero alla terra, al prato, a cui la scrittrice è così fisicamente vicina, rendendo possibile questa epifania minima, racchiusa nei due avverbi – che io traslerei senza esitazione sulla scrittura stessa della Veschambre, delicata e precisa al contempo – e compiuta pienamente nella coscienza dell’acquisizione di un sapere che paradossalmente ha una dimensione cosmica, riguardando l’essere e il mondo, in qualche misura il senso stesso dell’essere al mondo.
Quel filo d’erba in un prato potrebbe farci pensare ad un essere umano, le sue oscillazioni ad una individualità, una particolarità minimale ed al tempo stesso determinante: come il cappello verde di Joséphine che consente il primo riconoscimento da parte di Robert, le cui conseguenze abbiamo conosciuto attraverso quanto è venuto in superficie nei Cantieri.
Parlavo, quasi all’inizio di questa disamina, dei tenui fili che si intrecciano, talvolta senza un immediato legame con lo svolgimento principale: è il caso della “Traversa n. 5” (p. 57) in cui si racconta della partecipazione dell’autrice nel 2012 ad un concerto del compianto Gian Maria Testa. Oltre a ribadire il grande apprezzamento che il cantautore italiano riscuoteva in Francia, il motivo dell’inserimento di questo brano lo scopriamo solo alla fine, quando, dopo aver citato quanto Testa diceva in un’intervista in relazione al fatto di avere continuato a lungo “(…) a esercitare/ il suo mestiere, che amava molto (…)”, ci svela soltanto all’ultimo verso che egli “era capostazione”, rivelandoci in tal modo l’associazione di idee con Versailles Chantiers e, allo stesso tempo, uno dei meccanismi con cui è costruito questo libro.
E la cornacchia? Nel testo introduttivo, ricorderà il lettore, si fa cenno, tra le cose che arrivano inattese, all’uccello. Poi scopriamo, nella “Traversa n. 3”, che si tratta, appunto, di una cornacchia vista dall’autrice, nel periodo della residenza nella Casa della poesia, per tre giorni successivi sul tetto del palazzo dirimpetto “sfidare una città che morrà prima di lei”. Ma, ciò che più conta, è che questo brano si conclude con “elle aussi phrase véritable” [anche lei frase vera], che rimanda inequivocabilmente alla citazione che abbiamo incontrato nella “Traversa n. 2”. Che questo uccello abbia un ruolo non secondario ci viene confermato dalla sua ultima apparizione, che coincide con la “Traversa n. 6”, che è anche la pagina conclusiva del libro (ma che allo stesso tempo lo riapre, proiettandolo verso una prossima primavera):
la corneille revient
je l’entends croasser mais ne la vois pas
le 13 février le froid s’éloigne
Lascerei al lettore la libertà di attribuire un preciso valore simbolico a questo gracchiante uccello, della cui esistenza fisica non v’è dubbio a giudicare dalla precisa descrizione che ne viene fatta. Mi sembra di ricordare, continuando il gioco dei rimandi intertestuali, che alcuni uccelli (un piccione, una coppia di passeri) erano presenti anche in Les mots pauvres, confermando la vocazione della Veschambre ad una sorta di sviluppo circolare, con continui ritorni e variazioni sul tema. Forse si adombra il conflitto natura/cultura, simboleggiato da campagna e città, da animali più o meno selvatici (e non è un caso che la nonna materna protagonista dei primi libri venga paragonata ad un orso) ed esseri umani; forse gli uccelli costituiscono la necessaria presenza di una dimensione aerea, di mediatori celesti, che in qualche modo ci consentano di sperare in un’anima immortale. Di sicuro il libro si chiude con il freddo che si allontana, una nota di fiducia nell’approssimarsi della primavera, che ci riporta ad alcuni versi della prima strofa del componimento iniziale “On vient de dégager des glaces les provisions d’un écureuil/ d’il y a trente mille ans: quelques graines qu’on décongèle/ et qui vont refleurir.” [Sono state appena liberate dai ghiacci le provviste di uno scoiattolo/ di trentamila anni fa: alcuni semi che si scongelano/ e che rifioriranno.], una sorta di metafora della resurrezione o, azzardo, della metempsicosi, in ogni caso la conferma della ciclicità, rinforzata dalla presenza di sento e vedo che rinviano anch’essi alla poesia d’apertura del libro (in cui come abbiamo rilevato vista e udito erano correlati rispettivamente allo spazio ed al tempo), dunque di quella ripetizione differente che, come ho cercato di dimostrare, mi sembra una delle chiavi di volta dell’intero libro.
Dunque vorrei concludere – rammaricandomi di aver potuto concedere così poco spazio ad un lavoro letterario, che meriterebbe una ben più vasta considerazione – rimarcando la capacità straordinaria di Christiane Veschambre di tenere uniti, in un insieme coerente, un livello di semplicità elementare (quella cronaca familiare che ognuno di noi potrebbe avere ascoltato dalle labbra della nonna), elementi della vita quotidiana (da Wikipedia, al concerto di Testa, perfino a citazioni da compiti di studenti di un laboratorio di poesia tenuto in occasione della residenza nella Casa della poesia), con una forte complessità spazio-temporale ed un’altrettanto profonda elaborazione concettuale, che generano vertigini di un sapere (o “non-sapere”) che sembra andare oltre la semplice razionalità, sconfinando in un territorio per noi incognito (o inconscio), inquietante, ma al quale ci avviciniamo con la sensazione di rassicurante che ci è data dall’essere tenuti per mano dalla persona amata, dall’essere guidati da una voce amica che proviene dal profondo dell’infanzia.
Giancarlo Cavallo
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