«Nessuno abbraccia l’inabbracciabile» (R. Jakobson, citato in P. Nori, I russi sono matti, Milano 2019, p. 20). Quindi nemmeno io potrò abbracciare quel mondo vastissimo e variegato che risponde al nome di Etel Adnan, anzi direi quell’insieme di infiniti mondi. Questa complessità, ovviamente, si riverbera anche sull’opera poetica, nella quale, tra l’altro, la maggior parte dei componimenti più significativi hanno una struttura troppo ampia per poter essere ospitati integralmente in questa sede. Confesso che sono ormai parecchi mesi che provo senza successo a scrivere questo “pezzo”. Sento che soltanto arrendendomi al fallimento, rinunciando alla pretesa di uno sguardo d’insieme, potrò contribuire, benché minimamente, alla conoscenza di questa artista straordinaria. Dunque, il mio approccio sarà estremamente frammentario, aperto alle molteplici voci che giungono dalle sponde del Mediterraneo (Libano, Grecia, Siria), dal cuore della Francia e dalla California, a costruire un coacervo che tiene insieme vita e poesia, lingue e linguaggi, immaginazione e realtà.
«Sono una persona del presente perpetuo» (E. Adnan, To Write in a Foreign Language, 1996 – Scrivere in una lingua straniera, trad. it. di Raffaella Marzano, www.potlatch.it › scritture › etel-adnan-scrivere-in-lingua-straniera – in seguito per brevità Scrivere), mi piace utilizzare questa affermazione della scrittrice libanese per iniziare questo breve viaggio nella sua scrittura, considerando che il tempo – come giustamente nota Francesco Napoli in una recensione del volume Nel cuore del cuore di un altro paese (F. Napoli, Il “tempo” senza fine di Etel Adnan, Liberal del 11 agosto 2010) – ha nell’opera della Adnan un ruolo centrale (e non potrebbe essere diversamente in una persona con una notevole formazione filosofica come lei, che ha potuto seguire, tra gli altri, corsi tenuti da Sartre e Bachelard in Francia). Però evidenzierei che in Scrivere, sin dal titolo, ci viene proposta una condizione esistenziale esplicitata dall’aggettivo straniera; in effetti, Etel è nata ed ha vissuto il periodo iniziale della sua vita a Beirut, in una famiglia in cui convivevano le due lingue e le due religioni dei genitori (greco e cristiano ortodossa per la madre, turco e islamica per il padre), a cui andranno a sovrapporsi prima il francese delle suore cattoliche, presso le quali frequenterà i primi cicli scolastici, e infine l’americano, a partire dalla prima residenza statunitense negli anni ’50. L’arabo della sua terra d’origine resterà, paradossalmente, per sempre una lingua straniera (anche se la Adnan afferma «Nel tempo libero andavo al Dipartimento di Arte e cominciai a dipingere. Capii immediatamente che questo per me significava una nuova lingua e la soluzione al mio dilemma: non avevo più bisogno di scrivere in francese, avrei dipinto in arabo.» – Adnan, Scrivere, cit.), così come lei non apparterrà né al Libano, né alla Francia e neppure alla California, assumendo in sé tutta la diversità e la ricchezza delle situazioni e dei luoghi che ha vissuto (su questo aspetto rimando il lettore all’interessante intervento di Toni Maraini Etel Adnan poesia, arte, impegno tra Oriente e Occidente in Trasparenze n.3, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2018, pp. 29-37).
L’origine della sopra menzionata complessità è narrata dalla Adnan, col suo stile ricco di fascino, anche in Growing Up to be a Woman Writer in Lebanon (in AA.VV., Opening the Gates. A Century of Arab Feminist Writing, Indiana University Press, 1990 – reperibile in italiano grazie alla traduzione di Raffaella Marzano, E. Adnan, Crescere per essere scrittrice in Libano, Multimedia, 1993 – di seguito per brevità Crescere).
«C’è una relazione dialettica fra la propria vita e il proprio lavoro. Naturalmente la prima influenza il secondo, ma anche il lavoro diventa un’influenza sulla vita. è una strada a doppio senso, un processo misterioso in cui ciò che chiamiamo vita e ciò che chiamiamo creazione, si uniscono e non si uniscono, si incrociano e si nutrono l’un l’altro.» (Adnan, Crescere, cit., pag. 8).
Come si può intuire già dalle poche righe sopra citate, questo piccolo libro potrebbe risultare prezioso per un’aspirante scrittrice/scrittore, pur nella sua esigua densità. Una pagina autobiografica che si apre con «La prima cosa che ricordo …» e si chiude con «Avevo molta strada da fare.» Tra questi due inizi, il formarsi della coscienza di sé e il momento del distacco dalla propria famiglia e dal proprio Paese, c’è un itinerario, il “crescere” appunto, che è il costituirsi di un’individualità, raccontata con il piglio sicuro e coinvolgente di una narratrice di razza, quale la Adnan certamente è. Lo spazio ed il tempo, fin dalla prima immagine della fontana di pietra circolare, acquistano un’evidenza concreta e sembrano disporsi ad accogliere e contenere tutti gli elementi conflittuali che via via emergono: padre-madre, maschile-femminile, cristiano-mussulmano, Beirut-Damasco, occidente-oriente, francese-arabo, tradizione-modernità, ecc.
«Cominciai a scrivere all’età di venti anni: era un lungo poema che intitolai “Le livre de la mer, “Il libro del mare”, una poesia che considera le relazioni tra il sole e il mare in una specie di erotismo cosmico. Ma anche in quel caso, in seguito, il fatto che il poema fosse scritto in francese mi pose di fronte a un problema. Di solito il mio lavoro poetico è tradotto in arabo e pubblicato in due o tre delle maggiori riviste letterarie arabe. “Il libro del mare” non è ancora stato tradotto per la semplice ragione che il mare, come sostantivo, in francese, è femminile, e il sole è maschile. In arabo è il contrario: l’intera poesia si sviluppa seguendo la metafora del mare femmina e del sole guerriero, cioè un principio maschile. Così la poesia non solo non è traducibile, ma è, in senso concreto impensabile in arabo.» (Adnan, Scrivere, cit.).
Una lucida autocoscienza e un forte senso delle dinamiche che pervadono il percorso creativo, dunque, caratterizzano questi due testi della scrittrice libanese, rendendoli preziosi strumenti di conoscenza, anche al di là del caso specifico, perché l’esilio (anche se si vive nella propria città d’origine) e lo scrivere in una lingua straniera (tale è la lingua del poeta rispetto all’uso quotidiano) sono condizioni esistenziali della vera poesia.
Prima di addentrarmi nella lettura dei testi, vorrei segnalare ai lettori di questa rubrica che l’artista e regista greca Vouvoula Skoura ha realizzato un interessante ritratto della poetessa nel documentario «Etel Adnan Words in Exile», basato sia sulla corrispondenza con il professore di storia Fawwaz Traboulsi – dalla quale è stato realizzato un libro dal titolo Of cities and women (Letters to Fawwaz) (Sausalito 1993) – sia sugli estratti dei colloqui tra i due creatori a Parigi e nell’isola greca di Skopelos tra il 2003 e il 2006; e, restando in tema di Grecia e di lingue, mi piace riportare questa commovente dichiarazione della Adnan: “In realtà vado spesso in Grecia con il segreto desiderio di sentire ancora una volta la voce di mia madre, greca di Smirne, con una inflessione che i greci continentali non hanno. Continuo sempre ad aspettare quella voce.” (in M. Fumagallo, Libano napoletano. Intervista a Etel Adnan, di Michele Fumagallo, il Manifesto, 18 luglio 2010).
Ho incontrato per la prima volta Etel Adnan in occasione della pubblicazione in Italia del suo Journey to Mount Tamalpais: An Essay (Post- Apollo Press, Sausalito 1986; traduzione italiana: E. Adnan, Viaggio al monte Tamalpais, Multimedia, Salerno 1993 – di seguito per brevità Viaggio), nel 1993 a Salerno. Sì, sì, proprio a Salerno, perché questo libro bellissimo era stato ignorato dall’editoria italiana, come quasi tutta l’opera della scrittrice libanese, – ad eccezione di Sitt Marie-Rose (Edizioni delle donne, Roma 1979) – e coraggiosamente l’allora nascente Multimedia edizioni volle pubblicarlo.
Quella piccola donna mediterranea, allora già quasi settantenne, aveva tratti somatici così “nostri” che mi sembrava di averla già molte volte incontrata nel centro storico della mia città. Eppure, quanto complessa e poliedrica fosse la sua vicenda e la sua personalità artistica, l’avrei scoperto solo in seguito, anche se gli indizi erano già chiari sin dal Viaggio, perché questo viaggio è una sorta di diario, scritto in una prosa decisamente poetica ed accompagnato da acquerelli dell’autrice, che è anche una, oggi richiestissima in tutto il mondo, pittrice (ha esposto a New York, Londra, Beirut, Parigi, Dubai, nella rassegna Documenta 13 a Kassel, ecc.).
Riporto pochi stralci, nella traduzione italiana, per dare al lettore appena qualche minimo esempio di quella luminosa scrittura:
Una volta davanti ad una telecamera mi hanno chiesto: «Quale è la persona più importante che lei ha conosciuto?» e ricordo di aver risposto: «Una montagna». Ho scoperto così che Tamalpais era al centro stesso del mio essere. (Viaggio, p. 8)
Stamane Tamalpais ha molte ombre, simile ad un animale africano toccato dalla rugiada. Da sinistra, ai suoi piedi, la luce si dispiega come la coda di un pavone. La montagna è persa fra le nuvole e afferma che il cielo tocca la terra e che la materia ha una essenza erotica. C’è translucenza nelle grandi distese di grigio e può darsi che un angelo le attraversi. (Viaggio, p. 11)
I pittori hanno un sapere che va oltre le parole. Come i musicisti. Quando qualcuno suona un sassofono il cielo diventa di rame. Quando dipingi un acquerello sai come si sente il mare, all’inizio del giorno, in prossimità della luce. (Viaggio, p. 33)
Precedentemente, nel 1980, era stato pubblicato a Parigi un vero capolavoro, l’Apocalisse araba (E. Adnan, L’apocalypse arabe. Papyrus Éditions, Paris 1980 – Apocalisse araba, trad. it. di Toni Maraini, Semar, Roma 2001). A proposito di questo libro, nella sua prefazione alla riedizione francese del 2006, Michel Cassir dice: «Etel Adnan è al centro della storia umana nella sua immediatezza, nei suoi contorni sorprendenti, nelle sue disfatte, nei suoi lutti, nelle sue schegge di immaginario, nella sua solidarietà. Lei è al centro della lotta poetica, affina l’arma dell’arte per meglio vivere e apprendere il mondo. La sua poesia è fondatrice alla maniera della Beat Generation, ma con una coscienza più acuta, più radicale. E questo si spiega così: la bellezza senza nome e il martirio del mondo arabo moderno sono nel cuore del suo cantico che attraversa le coscienze e le civiltà.» (le traduzioni, dove non diversamente specificato, sono mie).
L’Apocalisse, composta da cinquantanove parti, era stata inizialmente concepita come un poema astratto sul sole, ma gli avvenimenti mediorientali (la guerra dei sei giorni, il “settembre nero” in Giordania e la situazione palestinese, che preludono allo scoppio della guerra civile libanese nel 1982) lo trasformano in un’ampia e dolente riflessione sui conflitti. Ecco, in proposito, una dichiarazione della stessa Adnan: «In qualche modo posso dire che è la Storia che scrive la mia poesia. Il mio libro in cui questa situazione è più evidente è L’Apocalisse Araba, ed io ne leggo molto spesso dei passaggi.» (Sibila, lugares contemporâneos da poesia: Etel Adnan , 7 aprile 2016, http://sibila.com.br/critica/sibila-lugares-contemporaneos-da-poesia-etel-adnan/12444).
Ne riproduco sotto, a mo’ di esempio la pagina iniziale:
(Etel Adnan, L’Apocalypse Arabe, L’Harmattan, Paris 2006)
Balza agli occhi la particolarità di questo libro, data dall’utilizzo di una serie di segni realizzati a mano dall’autrice; il testo sopra riprodotto sembra quasi uno scioglilingua, il gioco di un bambino che si diverte a scambiare continuamente le parole tra loro o a sostituirle con ghirigori e scarabocchi. Invece, uno sguardo critico rileva che: «L’inserimento di simboli o segni grafici in L’Apocalypse arabe/The Arab Apocalypse, spesso a sostituire parole oppure posti a fianco delle parole stesse come una sorta di ‘eccesso’ della lingua, costituisce una scelta estetica e poetica che indica i limiti della lingua e dei codici a nostra disposizione di fronte alla violenza e al dolore, […]» (Marta Cariello, Etel Adnan: resistenza transnazionale e alleanze anti-(neo)coloniali nel Mediterraneo, in roots§routes Magazine quadrimestrale indipendente di Cultura Visuale, Anno IX, n. 29, gennaio– maggio 2019, https://www.roots-routes.org/etel-adnan-resistenza-transnazionale-alleanze-anti-neocoloniali-nel-mediterraneo-marta-cariello/). E ancora: «[…] è ricorrente un richiamo parallelo e persistente al simbolismo dei Nativi d’America.» (M. Cariello, cit.)
Leggiamone insieme una pagina, scelta, per facilitarne la lettura, tra le poche senza simboli:
III
La nuit du non événement. Guerre dans le ciel vacant. Absence du Phantom.
Funérailles. Cercueil non recouvert de roses. Population sans fusil. Longue.
Longue procession du soleil jaune de la mosquée à la place vacante. Taxis muets.
Armée en civil. Corbillard silencieux. Musique rentrée. Palestiniens sans Palestine
La nuit du Grand Inca n’a pas eu lieu. Avions sans moteurs. Soleil éteint.
Pêcheurs sans barques poissons sans mer barques sans poissons mer sans pêcheurs
Fusils aux fleurs fanées Che Guevara réduit en poussière. Pas d’ombre.
Le vent ne s’est ni levé ni couché. Les juifs sont absents. Pneus crevés.
Les petits feux ne sont pas allumés. Aucun enfant n’est mort. Pas de pluie
Je n’ai pas dit que le printemps respirait. Le mort n’est pas revenu.
La mosquée a lancé sa prière que nul n’a entendue. Perdue dans les vagues.
La rue a perdu ses pierres. Asphalte brillant. Routes inutiles. Année morte.
Eteinte est la rue. Eteindre le gaz. Réfugiés sans refuge et sans cierge.
La procession n’a même pas eu peur. Le temps a passé à côté. Phantom silencieux.
(Etel Adnan, L’Apocalypse Arabe, cit., pag. 5)
[La notte del non evento. Guerra nel cielo vacante. Assenza del Fantasma./ Funerali. Bara non coperta di rose. Popolazione senza fucile. Lunga./ Lunga processione del sole giallo dalla moschea alla piazza vacante. Taxi muti./ Esercito in borghese. Carro funebre silenzioso. La musica è tornata. Palestinesi senza Palestina/ La notte del Grande Inca non ebbe luogo. Aerei senza motori. Sole spento./ Pescatori senza barche pesci senza mare barche senza pesci mare senza pescatori/ Pistole a fiori sbiadite Che Guevara ridotto in polvere. Nessuna ombra./ Il vento non si è alzato né abbassato. Gli ebrei sono assenti. Pneumatici forati./ I piccoli fuochi non sono accesi. Nessun bambino è morto. Niente pioggia/ Non ho detto che la primavera stesse respirando. Il morto non è tornato./ La moschea ha lanciato la sua preghiera che nessuno ha ascoltato. Persa tra le onde./ La strada ha perso i suoi sassi. Asfalto brillante. Strade inutili. Anno morto./ Spenta è la strada. Spegnere il gas. Rifugiati senza rifugio e senza candela.// La processione non era nemmeno spaventata. Il tempo è passato di lato. Fantasma silenzioso.]Come si può facilmente evincere, ci troviamo di fronte ad una scrittura “telegrafica”, come inequivocabilmente conferma la grande frequenza della parola STOP, (cfr.: Cariello, cit.; ma anche Sonja Mejcher-Atassi, The Forbidden Paradise, in Arabic literature: postmodern perspectives, London, Saqi 2010, p 316), sincopata, martellante. I temi sembrano snocciolarsi l’uno dopo l’altro (guerra, Palestina, Inca, morte, rifugiati, ecc.) creando una temperatura surreale alla quale contribuisce non poco la ripetizione di vocaboli (Longue./Longue, soleil/Soleil, mort/mort/morte, mer/mer, Perdue/perdu, il polittoto éteint/ Eteinte/ Eteindre, la rue/la rue) o di formule (Population sans fusil, Palestiniens sans Palestine, ecc.). Una seppure sommaria comparazione con l’esempio precedente ci lascia ragionevolmente supporre che queste considerazioni possano essere estese all’intero poema.
«Quando l’umano e l’equilibrio vitale sono travolti dal turbine della violenza e delle guerre, lo scenario – tra terra, acque, astri e cielo – è apocalittico e surreale. Il testo cerca di renderne l’assurda e mortifera tragedia. I versi sono lunghi, ma le descrizioni sono stringate e il ritmo ansimante. Un vortice di simboli, metafore e allegorie si fa carico dell’impossibile descrizione lineare della realtà. Il testo si snoda come un demenziale messaggio telegrafico. Salmodiato in forma ‘beat’, si presta ad una lettura teatrale.» (T. Maraini, Etel Adnan cit., p. 36).
Antoine Boulad, recensendo la riedizione dell’Apocalisse in Francia, dice con sintesi magistrale: «Questa opera maggiore di Etel Adnan si fa carne nella nostra coscienza. Mai scrittura araba aveva attinto a questo grado di virulenza, di verità, di furia, di rivolta, di denuncia, di messa a nudo… » (A. Boulad, Etel Adnan et l’Apocalypse arabe, in L’Orient Littéraire, ottobre 2006, http://www.lorientlitteraire.com/article_details.php?cid=15&nid=6118 ).
Un aspetto giustamente sottolineato con forza da Sonja Mejcher-Atassi è l’innovatività dell’opera della Adnan nel contesto della moderna letteratura araba: dal lungo poema in prosa Five Senses for One Death (New York 1971) che «potrebbe essere uno dei primi poemi della moderna letteratura araba scritta da una poetessa e indirizzata a una donna» (S. Mejcher-Atassi, cit., p. 314), alle soluzioni grafiche adottate nell’Apocalisse araba, «spazi vuoti, parole scritte in maiuscolo e piccole immagini simili a schizzi» (idem., p. 316), che, se richiamano i testi di Mallarmé, Pound e dei Dadaisti, «Nel contesto della moderna letteratura araba, tuttavia, The Arab Apocalypse è piuttosto eccezionale; rappresenta un approccio altamente innovativo.» (idem), fino agli oltre duecento libri d’artista, prodotti a partire dai primi anni ’60 in un unico esemplare, che possono essere definiti “verbo-visual hybrids”, su “leporello” un’unica lunga striscia di carta ripiegata su se stessa a fisarmonica.
Propongo di parlare adesso del poema Jenin del 2002, originariamente scritto in inglese e successivamente tradotto in arabo (E. Adnan, Jenin – Questa poesia è pubblicata in originale e nella traduzione italiana di R. Marzano, nella rivista multimediale Potlatch, dove si può anche ascoltarla dalla voce dell’autrice, al link: http://www.potlatch.it/poesia/poeti-e-poesie/etel-adnan-jenin/). Dice l’autrice in un’intervista rilasciata a Hans-Ulrich Obrist: «Ho scritto questa poesia durante l’invasione israeliana di Jenin, in Cisgiordania. Come ho detto, scrivo d’impulso, con rabbia — una miscela di emozioni. Ero furiosa e l’ho scritta di getto. Ero triste per le case distrutte. Ho scritto la poesia in due giorni». (Etel Adnan in Hans-Ulrich Obrist, Siamo tracce in un deserto, Corriere della sera – La lettura, 18 agosto 2013, pag.10; l’intervista si può reperire al link http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2013/08/19SIW1201.PDF).
« […] è la testimonianza di uno dei momenti più dolorosi della recente storia palestinese e disvela uno dei tanti drammi civili della storia odierna. Retto da un’espressività drammatica che ha pochi eguali in altre opere poetiche contemporanee, si distingue sia per la straordinaria potenza e per l’autenticità della voce rispetto al mondo che denuncia sia per l’urgenza espressiva nutrita di riferimenti storico-letterari di ampio respiro.» (Luciano Neri, “Avvolgemmo la morte in un’enorme bandiera”. Per una lettura di Jenin nelle scuole, in Trasparenze n. 3, cit., p.119).
Leggiamo l’inizio della seconda strofa del poema:
And the night refused to rain on the sheep’s head,
and we saw lightning mix with clouds fattened on blood and tears,
and matter started to speak directly with the dead, who weren’t anymore listening,
and the people had no voice,
and we walked on brambles, thorns and thistles,
and our eyes exhausted the vocabulary of the shades of death,
and therefore descended – following the rain – angel for whom no one had a name.
He started here and there to count the wounds,
and the amputations performed with kitchen-knives,
and that angel wrote everything on a book of gold and mud.
La sequenza di and, che aveva già caratterizzato la prima strofa sin dall’incipit, oltre a stabilire un ritmo anaforico incalzante, sembra segnalare l’urgenza di tenere tutto insieme un mondo destinato alla deflagrazione e all’estinzione.
Come abbiamo visto la natura (la montagna, il sole, il mare, ecc.) ha un ruolo essenziale nella poesia della Adnan, spesso attraverso un processo straniante che la rende partecipe degli avvenimenti umani: “Anche gli elementi della natura si confondono l’uno nell’altro perdendo memoria della loro funzione come se si disattivassero rispetto al compito per cui sono stati «programmati» («il mare tremò di terrore»; «la brezza si mantiene sveglia», un oceano che «muggisce», «la nebbia inghiotte le zone industriali», «le stelle si battono per la loro vita»).” (Luciano Neri, cit. p.122).
Su questo aspetto, mi sembra interessante una considerazione della Fields, riferita al poema Night:
«Lei chiede: “Si può passare del tempo in un fiore?”, quindi osa tentare, ma non per mezzo della banale personificazione. Invece, libera i confini per confondere la linea tra umano e non umano, tra astratto, corporeo e metafisico.» (Noa/h Fields, “Writing on a window onto the world”: A review of Etel Adnan’s Night, anomalyblog, 28 febbraio 2017, https://medium.com/anomalyblog/writing-on-a-window-onto-the-world-a-review-of-etel-adnans-night-680958feb66b )
Leggiamo ora la strofa finale di Jenin:
But they came – the bastards, to eradicate,
with bombs,
to tell very simply that we didn’t exist.
They started with the olive trees,
then with the orchards,
then, with the buildings,
and when all had disappeared,
they threw, one on top of the other,
the children, the old and the newly-weds,
in a mass grave,
all that to tell the world of the half-dead
that we didn’t exist,
that we have never existed,
and therefore that they were right…
to exterminate us all.
[Ma arrivarono loro – i bastardi, a sradicare,/ con le bombe,/ a dirci molto semplicemente che noi non esistevamo./ Hanno cominciato con gli ulivi,/ poi con i frutteti,/ poi, con gli edifici,/ e quando tutto fu scomparso,/ hanno gettato, uno sopra l’altro,/ i bambini, i vecchi e gli sposi,/ in una fossa comune,/ tutto ciò per dire al mondo dei mezzo-morti/ che noi non esistevamo,/ che non eravamo mai esistiti,/ e che perciò avevano ragione…/ a sterminarci tutti. – E. Adnan, Jenin, cit., trad. it. di R. Marzano]
Parole ancora attualissime, lapidarie, terribili, che rendono superfluo qualunque commento.
Etel ha anche dedicato un lungo poema, una lettera in 14 parti, al grande poeta russo Vladimir Majakowskij (E. Adnan, Letter to Mayakovsky., Oakland, CA, 2003). Suggerisco di leggere quella che segue (rinviando il lettore per una lettura integrale di questa poesia, in originale e nella traduzione italiana di R. Marzano, nonché per ascoltarla dalla voce dell’autrice al link: http://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/etel-adnan-majakovskij/):
11
There was, long before you and I
were born, a woman, with a blue
apron, pouring milk in a
painter’s cup
Then you appeared,
tall, wild and unconcerned,
on the lit stage of her
kitchen
The years were turbulent,
students were reading you in
their beds in their seasons of
high fever
and Vermeer was working on your
portrait.
[11.// C’era, molto prima che tu e io/ nascessimo, una donna, con un grembiule/ blu, che versava latte/ nella tazza di un pittore// Poi comparisti tu,/ alto, selvaggio e indifferente,/ sul palcoscenico illuminato/ della sua cucina// Gli anni erano turbolenti,/ gli studenti ti leggevano/ a letto nelle stagioni/ di febbre alta// e Vermeer lavorava al tuo/ ritratto. – E. Adnan, Majakovsky, trad. it. R. Marzano.]
Per comprendere meglio il senso di questi versi, riporto quanto detto sulla genesi di questo poema dalla Adnan, nel corso di un’intervista: “La Tua poesia dedicata a Majakovskij è ispirata all’opera di George Deem Hands Off Mayakovski (Giù le mani da Majakovskij), nel quale (sic) il poeta russo è rappresentatato all’interno della cucina di La lattaia di Vermeer. (We have wings. Let’s fly. Conversazioni con Etel Adnan. in Trasparenze n.3, cit., pp.25-26) «Ho anche una sorta di amore feticistico per Majakovskij, una specie di eroe fra i poeti. Per cui potete immaginare la mia sorpresa quando ho visto nel suo studio [del pittore George Deem, ndr] una grande tela sulla quale aveva riprodotto scrupolosamente il Vermeer con la donna che versa il latte, ma all’interno della cucina aveva integrato un Majakovskij seduto su uno sgabello che guarda lo spettatore. […] È un quadro che mi ha veramente provocato delle emozioni fortissime.» (We have wings. Let’s fly. Conversazioni con Etel Adnan. in Trasparenze n.3, cit., pp. 25-26).
«Mi piace sempre di più mescolare quel che si chiama filosofia con la poesia. » dichiara Etel Adnan nella citata intervista a Obrist (Siamo tracce in un deserto, cit.); un’ulteriore conferma di questa preferenza ci viene dal poema Night (E. Adnan, Night, Nightboat Books, New York 2016; traduzione italiana di Cristina Viti, Notte, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2018), che «[…] is in equal measure a series of meditations on intersubjectivity and spirituality, and a dialogue between prose poetry and short verse. » (è in egual misura una serie di meditazioni sull’intersoggettività e la spiritualità e un dialogo tra poesia in prosa e versi brevi. – Matt Turner, Etel Adnan: Philosophy at Night, Hyperallergic, New York 2016, https://hyperallergic.com/329418/etel-adnan-philosophy-night/). In effetti, il poema è diviso in due parti: la prima, eponima, in una prosa aforistica (con la significativa eccezione dell’ultima poesia), la seconda, intitolata Conversations with my soul (Conversazioni con la mia anima), composta da brevi nuclei in versi liberi, spesso graficamente disposti a scalino. Propongo qui di seguito la poesia che chiude la prima parte lanciando un ponte verso la seconda:
This morning there was
light,
tomorrow morning there
will be light,
but where is light?
[Questa mattina c’era/ luce,/ domattina ci/ sarà luce,// ma dov’è la luce? – E. Adnan, Notte, cit., pp. 62-63, tr.it. Cristina Viti]
Non potendo dilungarmi oltre su questa raccolta, rimando il lettore all’introduzione di Paolo Senna all’edizione italiana (P. Senna, Introduzione, in E. Adnan, Notte, cit., pp. 7-16)
«Sono allo stesso tempo un’americana ed un’araba e a volte queste due identità sono in conflitto l’una con l’altra; non tutti i giorni ma di tanto in tanto divento una montagna squassata da un terribile terremoto». (E. Adnan, “Nel cuore del cuore di un altro paese”, Multimedia, Baronissi 2010, p. 75 – in seguito per brevità Nel cuore).
Da questo conflitto nasce To Be In A Time Of War (in E. Adnan, In the Heart of the Heart of Another Country, City Lights Books, San Francisco 2005; tr. it. Essere in tempo di guerra, in E. Adnan, Nel cuore, cit., pp.99-113), scritto durante l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003.
Raramente l’artista sfugge alle conseguenze nefaste dell’“eccesso di intenzione intellettuale” (cfr. Wilde, Il critico come artista), che si verifica ogni volta che la necessità e l’urgenza di dire qualcosa di “importante” (sia essa una presa di posizione politica, sociale, psicologica, scientifica, ecc.) hanno il sopravvento sul mezzo artistico, avvilendolo o addirittura annientandolo. Invece, nel caso di Etel Adnan accade questo piccolo miracolo: il fiotto, l’eruzione di parole, che sgorgano incontenibili per denunciare un crimine contro l’umanità, trovano “naturalmente” un alveo poetico pronto a contenerli, a dare loro una forma nuova eppure potentissima.
Non so se questo testo possa essere definito una poesia stricto sensu, ma vorrei considerarlo tale, al pari dei tanti poèmes en prose che, come è noto, dalla fine del XIX secolo hanno costituito un vero genere, con capostipiti di grandissimo valore quali Baudelaire e Rimbaud. D’altronde la Adnan ci ha abituato ad una poesia che non si costringe in convenzioni metriche o forme canoniche, erede in questo anche di una tradizione americana che parte da Whitman e attraverso Williams e Pound arriva almeno fino alla Beat Generation.
Non potendo, per ovvi motivi, riprodurre l’intero testo, propongo tre segmenti, quello iniziale, quello in cui appare più volte la parola guerra a caratteri cubitali e quello finale, consigliandone vivamente al lettore la lettura integrale.
To say nothing, do nothing, mark time, to bend, to straighten up,
to blame oneself, to stand, to go toward the window,
to change one’s mind in the process, to return to one’s chair, to
stand again, to go to the bathroom, to close the door, to then open
the door, to go to the kitchen, to not eat nor drink, to return to
the table, to be bored, to take a few steps on the
rug, to come close to the chimney, to look at it, to find it dull,
to turn left until the main door, to come back to the
room, to hesitate, to go on, just a bit, a trifle, to stop, to
pull the right side of the curtain, then the other side, to stare
at the wall.
[Non dire niente, non fare niente, segnare il tempo, piegarsi, raddrizzarsi, rimproverarsi, mettersi dritto, andare verso la finestra, cambiare idea lungo la strada, tornare alla sedia, rialzarsi, andare in bagno, chiudere la porta, poi aprire la porta, andare in cucina, non mangiare o bere, tornare al tavolo, annoiarsi, fare qualche passo sul tappeto, andare vicino al camino, guardarlo, trovarlo monotono, andare a sinistra verso la porta d’ingresso, tornare in camera, esitare, proseguire, solo un po’, appena appena, fermarsi, tirare il lato destro della tenda, poi l’altro lato, fissare il muro. – www.eteladnan.com › in_the_heart_excerpt ; tr. it. di R. Marzano, in E. Adnan, Nel cuore, cit., p.99]
Ritroviamo la scrittura “telegrafica” che caratterizzava l’Apocalisse araba, in questo caso, a mio avviso, assimilabile ad appunti per una sceneggiatura, data la precisione e la minuziosità dei particolari descrittivi che ci consentono di “vedere” la sequenza di quello che sta accadendo.
To rise early, to hurry down to the driveway, to look for the paper,
take it out from its yellow bag, to read on the front-page WAR,
to notice that WAR takes half a page, to feel a shiver down the spine,
to tell that that’s it, to know that they dared, that they jumped
the line, to read that Baghdad is being bombed, to envision a rain
of fire, to hear the noise, to be heart-broken, to stare at the
trees, to go up slowly while reading, to come back to the front-page,
read WAR again, to look at the word as if it were a spider, to
feel paralyzed, to look for help within oneself, to know helplessness,
to pick up the phone, to give up, to get dressed, to look through
the windows, to suffer from the day’s beauty, to hate to death the
authors of such crimes, to realize that it’s useless to think, to
pick up the purse, to go down the stairs, to see people smashed
to a pulp, to say yes indeed the day is beautiful, not to know anything,
to go on walking, to take notice of people’s indifference towards
each other.
[Alzarsi presto, precipitarsi fuori dalla porta, cercare il giornale, tirarlo fuori dal sacchetto giallo, leggere GUERRA in prima pagina, accorgersi che GUERRA occupa mezza pagina, sentire un brivido lungo la schiena, dire che ecco ci siamo, sapere che hanno osato, che hanno oltrepassato la linea, leggere che Bagdad è bombardata, avere la visione di una pioggia di fuoco, sentirne il rumore, averne il cuore infranto, fissare gli alberi, salire lentamente continuando a leggere, tornare alla prima pagina, leggere GUERRA di nuovo, guardare la parola come se fosse un ragno, sentirsi paralizzati, cercare aiuto in se stessi, conoscere l’impotenza, sollevare il telefono, lasciar perdere, vestirsi, guardare dalla finestra, soffrire per la bellezza del giorno, odiare a morte gli autori di tali crimini, rendersi conto che è inutile pensare, prendere il borsellino, scendere le scale, vedere gente ridotta in poltiglia, dire sì davvero il giorno è bello,non sapere nulla, continuare a camminare, accorgersi dell’indifferenza della gente nei confronti degli altri. – www.eteladnan.com › in_the_heart_excerpt ; tr. it. di R. Marzano, in E. Adnan, Nel cuore, cit., pp. 100-101]
«Sentiamo quando leggiamo questo passaggio un senso di urgenza, una tensione irrisolta che attraversa di fatto tutto il poema e che si stabilisce tra la volontà di fare qualcosa e la sensazione di non poter fare niente, di non avere alcuna presa su quello che succede qui e laggiù, tensione che si addice inoltre al discorso dell’artista. Ne risulta un’impressione di presente senza uscita, uno stato d’animo in preda a forze paradossali che ci neutralizzano e ci spossessano a forza di ripetizioni. Questa sensazione si esprime in particolare con l’uso dell’infinito all’inizio di ogni frase e dà al testo la sua scansione. L’infinito marca la modalità dell’impersonale e dell’atemporale; il soggetto si dissipa a beneficio del linguaggio come evento. Il suo uso suggerisce una sospensione del soggetto in un mondo di eventi puri, in cui la possibilità di agire diventa altrettanto improbabile di quella di emozionarsi.» (Mirna Boyadjian, « “Heureusement, ici il y a la guerre” », Spirale : arts • lettres • sciences humaines, n° 254, 2015, p. 88).
To try to be distracted by poetry, by trees. To see the trees grow,
in a hurry. To appear and disappear. To take refuge from bestial
conquest in false shelters. To chase the refugee, to flush him
out of his new refuge. To lodge a bullet in the head and the back
of a Palestinian. To add Iraqis to the – – butchery. To paint
big canvases with blood then take a night train, then a plane.
To disembark in Paris. To pick up the telephone, dial a number for
Beirut. To hear the friend say that a Palestinian newsman has
been cold-bloodedly shot by some earnest monotheist. To wonder
on the necessity of God. To brush the problem aside. To
think of Cassandra. To remember the Hammurabi Code. To sink in
fat. To look at the narrow and long road which leads the world
to the slaughter-house.
[Cercare di distrarsi con la poesia, gli alberi. Vedere gli alberi crescere, in fretta. Apparire e scomparire. Rifugiarsi dalla conquista bestiale in falsi ricoveri. Inseguire il rifugiato, stanarlo dal suo nuovo rifugio. Conficcare un proiettile nella testa e nella schiena di un palestinese. Aggiungere gli iracheni alla carneficina. Dipingere grandi tele col sangue poi prendere il treno della notte, poi un aereo. Sbarcare a Parigi. Sollevare il telefono, fare un numero a Beirut. Sentire l’amico dire che un giornalista palestinese è stato ucciso a sangue freddo da un fervido monoteista. Interrogarsi sulla necessità di Dio. Scacciare da parte il problema. Pensare a Cassandra. Ricordare il Codice di Hammurabi. Affondare nel grasso. Guardare la lunga e stretta strada che porta il mondo al mattatoio. – www.eteladnan.com › in_the_heart_excerpt ; tr. it. di R. Marzano, in E. Adnan, Nel cuore, cit., p 113]Questo finale mi sembra la magistrale sintesi degli infiniti mondi della Adnan: la poesia e la natura, il dramma della Palestina, la pittura, Parigi e Beirut, la filosofia, la cultura greca e quella mesopotamica. E l’amarissima constatazione dell’impotenza di fronte al macello delle guerre attuali e prossime a cui il mondo, il nostro unico mondo, sembra essere condannato.
Giancarlo Cavallo
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