Ho avuto la fortuna e il piacere di conoscere Ante Zemljar, comandante partigiano e poeta, agli “Incontri internazionali di poesia” del maggio 1999 a Baronissi e negli anni successivi, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2004. Lo ricordo austero ed autorevole (mi rimproverò bonariamente per la mia lettura troppo veloce, che impediva la comprensione dei testi), e, nonostante l’età avanzata, in piena forma col suo fisico asciutto e tonico. Conservo il suo libro italiano del 2003 con la dedica “con amicizia”, succinta e tuttavia per me molto significativa: ritengo infatti che sia un vero onore poter vantare una simile amicizia.
Nelle sue note autobiografiche (A. Zemljar, Note autobiografiche, in Ante Zemljar, “L’inferno della speranza”, traduzione di Stevka Smitran, Multimedia, Salerno 2003, pp.103-107 – in seguito per brevità Inferno. – Il lettore può ritrovare online queste note al link: http://www.casadellapoesia.org/poeti/zemljar-ante/altro) il poeta croato dice che in gioventù il “disagio che derivava dalla coscienza di essere povero, […] mi portò ad assumere un carattere schivo e solitario e un’indole riflessiva”, ma soprattutto che “[…] a prevalere fu la voglia di ribellione, il bisogno di sentirmi, comunque, un uomo contro”. Cosa che effettivamente egli è stato per tutta la vita: dall’avventurosa militanza nella lotta partigiana contro gli invasori nazifascisti, a causa della quale subì numerosi arresti; alla censura delle sue poesie giovanili “d’intonazione surrealista, ermetista, individualista”; alla critica dei metodi del regime di Tito, con conseguente arresto e condanna a scontare quattro anni e mezzo in quello che a quel tempo era il più terribile carcere per prigionieri politici di tutta l’Europa, la famigerata Isola Calva (Goli Otok); all’essere seguito “ad ogni mio passo” dalla polizia; a subire nel 1993 la rappresaglia degli estremisti filo-ustascia che “mi hanno distrutto la casa di pietra e l’atelier per il mosaico che ho costruito con le mie mani”. Un uomo che non si è mai piegato, pagando un prezzo altissimo al suo amore per la libertà e per la pace, alla sua decisa condanna di “ogni forma di dominazione dell’uomo sull’uomo” (per ulteriori notizie bio-bibliografiche rimando ai seguenti link: http://www.casadellapoesia.org/poeti/zemljar-ante/biografia in italiano; http://jadovno.com/arhiva/about-the-author.html in inglese).
Nel 2003, come detto, viene pubblicato in Italia il suo libro (A. Zemljar, Inferno, cit.) che raccoglie le poesie scritte clandestinamente a Goli Otok (“Anche qui, in questa nuova prigione, scrivevo poesie, ma di nascosto, su dei foglietti strappati dai sacchi di carta con cui si trasportava il cemento. Nascondevo poi i foglietti sotto dei sassi. Sapevo di rischiare molto, anche di essere ucciso, ma non m’importava e al termine del periodo di prigionia riuscii a portar via tutti i miei foglietti. Potei pubblicare le miei poesie solamente dopo quarant’anni […]”, in A. Zemljar, Note autobiografiche , cit.) ed altre successive, con una pregnante introduzione del compianto Pedrag Matvejević, dal significativo titolo Per una poetica del martirio (in Zemljar, Inferno, cit. , pp. 5-8; introduzione che può essere letta al seguente link: http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/l-inferno-della-speranza-1334968/introduzione ), dalla quale estrapolerei questa considerazione: “[…] questa opera e questa vita, indissociabili l’una dall’altra […]”(Matvejević , Poetica, in Zemljar, Inferno, cit. , p. 8), ricollegandola ad un’altra che la precede di qualche riga “Il suo autore è rimasto, questo è altrettanto eccezionale, fedele ai suoi ideali di gioventù, opponendosi con un coraggio straordinario alla distruzione della Jugoslavia ed ai regimi ultranazionalisti istaurati in alcune delle sue componenti.” Poche parole sufficienti a darci un sommario ritratto di quest’uomo davvero eccezionale.
Fatte queste premesse, potrà apparire incongruo focalizzare il mio interesse su “Za Jarbol Svezan Ovidije” (Ovidio legato all’albero della nave) e sulla sua appendice costituita da La poesia e L’usignolo (A. Zemljar, Inferno, cit., pp. 79-87), ma credo di avere fondati motivi che vado ad esporre immediatamente:
1) Esistono validi scritti in italiano, oltre alla citata introduzione, che si focalizzano esclusivamente sulla vicenda biografica e sulle poesie di Goli Otok (cfr.: Stefano Magni, Storia di Ante Zemljar, poeta croato perseguitato, L’Opinione 05/03/2003; Giacomo Trinci , Elegie slave dal carcere , Alias – Il Manifesto 03/05/2003; Laura Marchig, Un inferno di speranza grida dall’Isola Calva , La voce del popolo; Gianluca Paciucci, «L’inferno della speranza» di Ante Zemljar Panorama (Croazia) 31/03/2004; tutti consultabili in rete al link : http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/l-inferno-della-speranza/recensioni), a cui va senz’altro aggiunto il magnifico tributo poetico di Erri De Luca Per Ante Zemljar (in Solo andata, Milano 2005, pp. 43-45) messo in musica col titolo “Il prigioniero Ante” da Marco Paolini e il gruppo Mercanti di liquore nell’album “Sputi” cfr. https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=4173&lang=it ;
2) Come si evince anche da questa dichiarazione “Nonostante, oltre ai libri già citati, io abbia scritto sceneggiature, monografie, radiodrammi e una quindicina di libri di prosa, fra romanzi e racconti, continuo a sentirmi fondamentalmente un poeta, un lirico che attraverso il linguaggio della poesia esprime le pulsioni della propria anima e la sua visione del mondo […]” (Zemljar, Note autobiografiche, cit., p. 106), per tutta la vita Zemljar si è considerato un poeta lirico ed elegiaco, è dunque giusto valorizzare pure l’aspetto letterario e specificamente poetico della sua produzione, non dimenticando che il nostro autore si è laureato in letteratura comparata presso la Facoltà di Filosofia di Zagabria, quindi era tutt’altro che un naif;
3) Inoltre, siamo nell’anno del bimillenario ovidiano (Ovidio morì tra il 17 e il 18 d.C.), quindi è legittimo, direi doveroso, un piccolo, indiretto omaggio al grande poeta latino morto in esilio (occasione in parte da me colta nel precedente scritto dedicato a Toni Harrison cfr. https://www.potlatch.it/verso-casa-poeti-lontani-visti-da-vicino/tony-harrison-concordia-discors/).
È preliminarmente necessario sottolineare che la lingua (serbo)-croata, – a proposito delle vicissitudini della quale rimando il lettore a S. Gudžević, “Cuius regio eius lingua.Breve intervento sulla guerra linguistica serbocroata” in: Quaderni Fondo Moravia, numero 1, Roma 1998, pp. 163-170. – la lingua di Zemljar, similmente al latino e a differenza dell’italiano, esprime i complementi mediante i casi, quindi declina nomi e aggettivi, creando al traduttore un’ulteriore difficoltà rispetto al già arduo compito di esprimere la poesia in un’altra lingua. Ma – come afferma sempre Predrag Matvejević, nella citata introduzione – va elogiata “La traduttrice Stevka Smitran, poetessa anche lei, [che] si è sforzata di trovare in italiano un’espressione che convenga allo stesso tempo al lirismo di Zemljar e alla sua parola ansiosa di rendere testimonianza.”
Ma entriamo finalmente in medias res: il poemetto di cui ci stiamo occupando si presenta con una citazione in esergo dalle Epistulae ex Ponto (IV, 13, vv 19-22) di Ovidio, a cui fanno seguito nove sezioni numerate. Immediatamente, attraverso il titolo e la suddetta citazione, al lettore vengono fornite delle informazioni preziose: l’Ovidio a cui si fa riferimento non è quello più noto delle Metamorfosi (Metamorphoseon libri XV ) o l’arguto cantore dell’Ars amatoria, ma quello più cupo dell’esilio a Tomi, di cui ci restano, oltre alle citate Epistulae ex Ponto, anche i cinque libri dei Tristia. Dunque, l’argomento delle poesie che seguiranno avrà, oltre al tono elegiaco, anche una decisa connotazione civile (cifra, peraltro, sempre presente nelle poesie di Zemljar).
La prima sezione inizia con minuscola – suppongo non casualmente, poiché ciò accade anche per le successive – probabilmente a rimarcare un continuum con quanto non presente espressamente, sebbene latente nel silenzio, nel bianco della pagina che precede l’incipit; l’esordio è in prima persona con un io sottinteso “seguo il tuo imbarco” che prefigura, attraverso il contiguo possessivo “tuo”, la seconda persona con cui il locutore (che mi sento di affermare sia il “personaggio” Ante) instaura un dialogo che annulla ogni distanza spazio-temporale, lasciando intravedere un’immedesimazione consentita dal comune sentirsi in esilio (“In patria per circa un cinquantennio mi sono sentito un perseguitato, un esiliato “interno”, Zemljar, Note autobiografiche, cit., p. 105) e dal comune amore per la poesia.
1.
pratim tvoj ukrcaj
zatomljeni jecaj
izgubljeno oko po rubu obale
jogunasti mladac
dok nisi oprobao kako se odvezuje
vez na pramcu
kako se odjeljuje od pupkovine
odgurnuto stasanje
sada znaš
kad nemilice razvezuješ u sebi
perje krilatih riječi
kojima si nadozidavao dostignuto
jedino što si se nadao saviti
u zlatni svitak
za pramac
dok se okreće put nepoznata smjera
postaje ti jasno da nikamo ne smjera
kamo si palio vatre
da mu najaviš pravac
zaljuljani jarbol svoje ustrajnosti
jedini je koga stižeš zagrliti
ali i on tek na očaj naliči
nad prazninom nad kojom si zavapio
kao da se ima koga dozivati
kad se odmaknu obale
[1. // seguo il tuo imbarco/ lamento trattenuto/ l’occhio sperso lungo la riva // ostinato giovanotto tu eri/ finché non hai provato come si scioglie/ l’ormeggio di prua/ come si stacca dal cordone ombelicale/ la crescita scacciata // ora lo sai/ mentre con crudeltà liberi in te/ le piume delle parole alate/ con le quali avevi sopraelevato il già costruito/ l’unico che speravi di arrotolare/ in rotolo da te dorato // mentre la prua/ vira verso l’ignota destinazione/ capisci che da nessuna parte si va/ nonostante i fuochi accesi/ ad annunciarle la rotta // l’incerto albero della nave della tua tenacia/ è l’unico che tu possa abbracciare/ ma anch’esso assomiglia solo alla disperazione/ sul precipizio dove alzasti il tuo grido // come se si potesse chiamare qualcuno/ quando le rive s’allontanano – Inferno, p. 80, trad. Stevka Smitran]
Sei strofe asimmetriche (3, 5, 6, 5, 4, 2) in cui balza immediatamente all’occhio l’assenza di punteggiatura che si connette con la già rilevata assenza di maiuscole (riservate, in tutto il poemetto, ai soli nomi propri: Ovidio, Minerva, Augusto, Tomi). Alcune parole o frasi danno il tono a cui si accorda non solo l’intera strofa, ma tutto l’insieme (lamento, sperso, scacciata, ignota, incerto, disperazione, precipizio, ecc.). La narrazione acquista immediatamente un valore metaforico, evidenziato dal parallelismo nella seconda strofa (kako se odvezuje … kako se odjeljuje – come si scioglie … come si stacca) che adombra la sovrapposizione tra Ovidio e l’isolano Ante (nato a Pago dove ha trascorso l’infanzia: “Iniziai a scrivere versi all’età di dieci anni, travolto dalle emozioni che suscitarono in me alcuni avvenimenti importanti. Mio padre, che, come istruzione si era fermato alla seconda elementare, faceva l’operaio e mia madre era merlettaia. Allora vivevamo sull’isola di Pago che a quei tempi era praticamente isolata dal resto del mondo.”, Zemljar, Note autobiografiche, cit., p. 103). Ovviamente, come preannunciato dal titolo, abbonda in questa prima sezione il lessico marinaresco (“imbarco” e “riva” nella prima strofa, “ormeggio” e “prua” nella seconda, di nuovo “prua”, “vira” e “rotta” nella quarta, “albero della nave” nella quinta e infine “rive” nella sesta), a cui si sottrae solo la terza strofa dedicata al genio letterario di Ovidio (“parole alate/ con le quali avevi sopraelevato il già costruito”), mentre il magnifico distico finale si riallaccia non solo alla strofa precedente, ma anche all’incipit grazie alla ripetizione obale / obale (“riva”/“rive”) così che al doloroso imbarco segue l’allontanamento non solo dalle “rive”, ma anche da koga “qualcuno” (e questo allontanamento sembra anche prefigurare quello definitivo e irreversibile della morte, che effettivamente per il poeta latino giunse nell’esilio di Tomi).
2.
sijevnuli su neki glasi
neke riječi neke slike
proletjele neke ptice
neka stabla neko lice
iskočila neka čuda
maske lude
izmiješali nebo more
vesla ljude
kao da se neke želje neke nade
neke opet nove bude
i te nove odmah čude
zar prostaci da nam sude
vidao si: što sve nisi
vidao si: što sve jesi
bio, htio biti
i ne bio
sretan bijedan tužan čio
sve što živio si
kad si bio dok si bio
jer ovdje se odlijepio
sav taj dio nekad mio
presavio udaljio
bijedom zgnječen ispario
kao ikad
ko da nikad
nikad tvoj i nije bio
[2. // brillarono alcune voci/ alcune parole alcune immagini/ trasvolarono alcuni uccelli/ alcuni alberi alcuni visi // sono avvenuti miracoli/ folli maschere/ confusi mare e cielo/ uomini e remi // come se alcuni desideri, speranze/ si risvegliassero // e queste nuove subito si meravigliassero/ possono forse i villani giudicarci? //
hai visto: tutto quello che non sei/ hai visto: tutto quello che sei/ quello che eri, quello che avresti voluto essere/ e non lo fosti/ felice misero triste vitale // tutto quello che hai vissuto/ quando eri mentre lo eri // perché qui si è distaccata/ quella parte un tempo a me cara/ piegata congedata/ spremuta dalla povertà, sfumata/ come non mai // come se mai/ mai fosse stata – Inferno, pp. 80-81, trad. Stevka Smitran]
Alle prime quattro strofe di questa seconda sezione (due quartine e due distici) fa seguito un marcato artificio grafico che dispone a scalino le successive quattro (due pentastiche e due distici alternate) a formare due parti, una di dodici e l’altra di quattordici versi. Questa disposizione quasi speculare corrobora la contrapposizione tematica che oppone ad un prima metà euforica, in cui želje e nade (“desideri” e “speranze”) sembrano risvegliarsi (e addirittura compare la parola čuda “miracolo” che ritroveremo nell’appendice), una seconda disforica, in cui una parte importante di sé (“quella parte un tempo a me cara”) appare definitivamente perduta.
Ancora lo slittamento del piano temporale, dal passato remoto a quello prossimo e al presente, pervade questa seconda sezione, dominata dal prolungato poliptoto (non sei, sei, eri, essere, fosti, eri) dal ritmo serrato imposto dalle iterazioni (neki, neke, neka “alcune” e “alcuni” ben dieci volte nella prima parte; il distico quasi gemello che apre la seconda e ancora “quello” ripetuto quattro volte, rinforzato da “quella” nella penultima strofa), dal chiasmo (“felice misero triste vitale”, sequenza di quattro aggettivi sostantivati), dai tre “mai” nei tre versi finali (geminatio negli ultimi due: nikad/ nikad) e perfino da frequenti rime e allitterazioni. Una tessitura fitta, che richiama anche i citati versi ovidiani in epigrafe (i “villani” fanno infatti immediatamente pensare ai “Geti crudeli”), mentre ricompare il lessico marinaresco (“[…] mare e cielo/ uomini e remi” anche qui in una sorta di chiasmo) tanto presente nella prima sezione.
Non vorrei in alcun modo che troppe considerazioni tecniche finissero per occultare il grande portato poetico-emozionale di questi versi che, ad esempio, si concentra nel distico finale così nostalgico e dolente, tale da mostrare, pur nella sua concisione quasi lapidaria, una piena adesione dell’autore alla vicenda del “suo” Ovidio.
Non mi è possibile, per evidenti ragioni di spazio, leggere tutte le sezioni del poema; quindi della terza mi limito a segnalare ancora una volta il distico finale “viaggia, Ovidio, nella terra invisibile/ la notte dalla storia ti sottrarrà!” (Inferno, pag. 81); mentre la quarta, articolata in forma di domande rivolte dal locutore, si interroga sui motivi – non del tutto chiariti – che indussero Augusto ad esiliare il poeta di Sulmona “in mezzo ai selvaggi Geti” (Inferno, p. 82), chiudendosi, anche in questo caso, nella terzina finale, con uno slittamento temporale “verso gli scuri canneti d’oltremare/ il tuo navigare perdurerà/ fino ai nostri reiterati giorni” (Inferno, p. 83).
Nella quinta (Inferno, pp. 83-84) assistiamo ad una importante novità: è Ovidio adesso a parlare in prima persona, commentando con amarezza il suo viaggio senza ritorno, come, ad esempio, nella terza strofa: “alla prua della “Minerva” con la quale mi cancellano/ non c’è la banderuola del vento/ malgrado la mia anima la faccia ruotare/ urlando cupamente”.
Ma leggiamo adesso la stupenda sesta sezione:
6.
na rukama mekoći susreta namijenjenim
upoznajem silu mrkih vojničina
kojima nisam dorastao
vezane uprekriž
ruke su nemoćnije od vrapca u šaci siledžije
živčem
da mi ne kvrcnu rebra:
živkanje je ep što sudbinu znači
siledžija se čudi
a ja živčem već zapjenjen
živčem razderana grla
prepečen suncem, solju zariban živčem
da bih ga čudio živčem
što dulje da bih ga čudio
što dulje da bih opstao
u šaci utonuo
šaku da bih nadrastao
živkao
živkao
živčem svoj život, nepostojanje svoje
nitko nisam, sve tanji
živčem u šaci kao u jedinom
ep svoj da bih opstao živčem
u šaci za svagda
u zovu promukao
beskrajno da bih se dao
živčem
[6.// le mani destinate ai saluti amichevoli/ conoscono la forza dei cupi soldati/ dei quali non sono all’altezza// legate a croce/ le mani sono più indifese di un passero nel pugno di un violento// cinguetto/ che non mi scricchiolino le costole:// il cinguettio è canto epico che significa destino// il violento si meraviglia/ e io cinguetto a pieni polmoni/ cinguetto a squarciagola/ bruciato dal sole, attaccato dal sale, cinguetto// per stupirlo, cinguetto/ per stupirlo più a lungo possibile, cinguetto/ per sopravvivere/ nel pugno sprofondato/ per superare il pugno/ cinguetto/ cinguetto// cinguetto la mia vita, la mia non esistenza/ sono nessuno, sempre più esile/ cinguetto nel pugno come se fosse il mio unico/ canto epico per sopravvivere, cinguetto/ nel pugno per sempre/ afono al richiamo/ per offrirmi senza fine/ cinguetto – Inferno pp.84-85, trad. Stevka Smitran]
Anche questa sezione, come la prima, è suddivisa in sei strofe asimmetriche (3,2,2,1,4,7,8), dominate dalla ripetizione martellante della parola živčem (9 volte di cui 4 solo nell’ultima strofa), a cui si aggiunge la geminatio dei due versi finali della penultima strofa (živkao/ živkao), e živkanje in apertura della quarta.
Già nella prima sezione avevamo incontrato il verso “le piume delle parole alate”, nella seconda “trasvolarono alcuni uccelli”, nella quarta “verità pennuta […]”(p. 82) e più avanti “o ti sei solo meravigliato/ quando le tortore per i colpi alla porta/ le ali al vento hanno offerto” (p. 83); ecco che adesso, a compimento di quanto preannunciato, il poeta-uccello (vrapca, passero), che oppone il suo verso alla protervia del potere, diventa figura centrale e decisiva nello svolgimento del poema. E forse, di nuovo, una ripetizione ci fornisce una chiave di lettura: mi riferisco alla parola ep (epico) che compare dapprima nel verso isolato della quarta strofa, per ritornare poi ad inizio del quarto verso dell’ultima. Dunque la resistenza del poeta (Ovidio-Zemljar) al potere assume, nella disparità delle forze che si affrontano, un carattere epico degno di un Prometeo.
La settima sezione è costituita da sette quartine in cui è di nuovo Ovidio a parlare in prima persona raccontando il suo viaggio in mare, in colloquio con Augusto nominato nella prima e nell’ultima strofa. Gli uccelli questa volta sono gabbiani (“i gabbiani diventano miei fratelli scomunicati”, (Inferno, p. 85); abbondano anche qui, come è ovvio, i termini marinareschi (albero, scalmo, voga, onde, nave, marinai, ecc.). Meno scontati, e per questo più significativi, i termini che esplicitano lo stato d’animo amareggiato (“destino”, “sconfitte”, “giacere”, “ammutolito”, “amaro e ancor più amaro”, “inabissassi”, “irrecuperabile”, “amori lividi dal pianto”, “stanca notte”, ad es.) e tuttavia non piegato nell’orgoglio (ad es. il già citato “fratelli scomunicati”, ma soprattutto il verso finale “forse è, o Augusto, l’ora del mio segreto potere”).
L’ottava sezione (Inferno, p. 86), in cui è sempre Ovidio a parlare, ci immerge con un marcato lessico militaresco (perfino l’urlato “s i g n a f e r r e!”, e poi “opliti”, “arieti”, “fortezze”, ecc.) nel contesto della vita in esilio tra “frecce [che] si conficcano negli occhi”, “fuoco e fumo”, “ritiro nelle trincee”, “assalti ad alta voce”; e tuttavia, altri versi di questa stessa sezione riconducono ad unità psicologica, come la seconda terzina “ma il diavolo nemmeno qui mi dà pace/ sputo sugli altari come fossero cripte sospette/ che custodiscono lo spirito maligno della sconfitta” e il distico conclusivo “e alla fine dovrò anche far posto accanto al mio nome/ allo spirito maligno”.
Leggiamo ora la nona ed ultima sezione del poemetto:
9.
toliko široko nebo izgubljeno nebo
toliko široka zemlja izgubljena zemlja
goli pokrov na goleti
toliki lanac besjeda izgubljenih besjeda
toliki lanci drumova izgubljenih drumova
polasci prazni bez odjeka
toliko mora na domahu izgubljenog mora
toliko domaha u maštanju izgubljenih domaha
beznadem samoća dovijeka
[9. // un così grande cielo, cielo perduto/ una così grande terra, terra perduta/ nuda coperta sul brullo terreno // una lunga catena di parole, parole perdute/ tante catene di strade, strade perdute/ vuote partenze senza eco // tanto mare vicino, mare perduto/ tante immagini da toccare, immagini perdute/ solitudine senza speranza in eterno – Inferno p. 86, trad. Stevka Smitran]
Tre terzine strutturate in maniera similare (2 + 1), con una sorta di anafora nei primi due versi, a loro volta suddivisi in due parti sottolineate dalla parola ripetuta al centro del verso (cielo-cielo, terra-terra, parole-parole, strade-strade, mare-mare, immagini-immagini) ed un commento nel terzo verso, che rafforza il senso disforico dato dall’aggettivo “perduto” dei versi precedenti. Si chiude così, “senza speranza” il poemetto. Ma questo finale potrebbe rappresentare il sentimento, lo stato d’animo pervaso di tristezza dell’ultimo Ovidio, non certo quello del partigiano Ante, che sente la necessità ineludibile di un’appendice, costituita da due brevi poesie (p. 89) messe graficamente a scalino come abbiamo già visto nella seconda sezione. Non possiamo non leggerle se vogliamo provare a capire fino in fondo questo poeta:
pjesma
bogova nema
duša ne postoji
povratka nema
ali čuda postoje
Ovidije se vratio iz Tomi
pravo u moje vrijeme
čuda postoje
pjesma dobije dušu
kad ude u pakao
slavuj
i ljudi i nebeski znakovi
podvukli se pod istu strepnju
noć me jedina hrabri
crneći
da me zaštiti
slavuj iz Tomi
iskopanih očiju
do nas bigliše
[La poesia // gli dei non ci sono/ l’anima non esiste/ il ritorno non c’è // però, i miracoli esistono // Ovidio è ritornato da Tomi/ direttamente nel mio tempo // i miracoli esistono // la poesia riceve l’anima/ quando scende agli inferi
L’usignolo // sia gli uomini che i segni celesti/ si son nascosti sotto lo stesso timore // la notte sola m’incoraggia/ col buio/ mi protegge // l’usignolo di Tomi/ dagli occhi strappati/ ci canta vicino – Inferno p. 87, trad. Stevka Smitran]
Non sarebbe necessario aggiungere alcun commento alle parole del poeta, che magistralmente fonde temi e conoscenza dei classici con forme e sensibilità dei moderni. Vorrei sottolineare, non senza una punta di commozione, che l’affermazione (ripetuta due volte in versi singoli) della prima lirica čuda postoje (“i miracoli esistono”) viene da un uomo che è sopravvissuto all’inferno di Goli Otok, riuscendo perfino a portare con sé la poesia, una poesia che di sicuro ha ricevuto “l’anima” dalla sua discesa “agli inferi”. In tal modo anche il mito di Orfeo viene attualizzato nella figura ormai inscindibile di Ovidio-Zemljar. Specularmente, ma stavolta non in contrapposizione, L’usignolo utilizza parole delicate (“incoraggia”, “protegge”) quale rimedio al “timore” universale e mentre ribadisce ancora una volta, attuando una sorta di metamorfosi (parola non casuale riferendosi ad Ovidio) nella terzina finale, – la metafora Ovidio poeta alato, quindi uccello, usignolo per il suo canto bello e complesso, prevalentemente notturno – conclude con un contrasto fortissimo tra il realismo espressionista degli “occhi strappati” ed il “ci canta vicino” del verso finale, che ipotizza un noi (l’intera umanità? o, forse, quella parte di giusti che combatte i soprusi del potere – va comunque sottolineato il passaggio, a mio avviso molto significativo, dal me della seconda strofa al nas della terza) che riceve coraggio dal canto melodioso del poeta-uccello. Appare perfino superfluo sottolineare che ben viva nella coscienza letteraria di Zemljar è la figura dell’usignolo, che da Saffo a Keats, da Catullo a Petrarca a Shakespeare, da Pascoli a Garcia Lorca (senza dimenticare, ça va sans dire, la metamorfosi ovidiana di Filomela e Procne), ha attraversato la grande poesia, assurgendo a simbolo universale della medesima.
In conclusione, dunque, spero che il lettore convenga con me che “i miracoli esistono”, che è possibile sovvertire le leggi dello spazio-tempo, annullando perfino le frontiere invalicabili della morte, e la poesia di Ante Zemljar (come quella bimillenaria di Ovidio), così fragile e resistente al tempo stesso, ne costituisca la testimonianza vivente.
Giancarlo Cavallo
* Nell’articolo opere pittoriche di Alberto Savinio
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