“Sinan Gudžević è ormai una leggenda”. Con queste lapidarie parole inizia la prefazione di Boris A. Novak a Epigrammi romani (B.A. Novak, Epigrammi Sinan qua non, in S. Gudžević, Epigrammi romani, Multimedia, Salerno 2006, traduzione di S. Gudžević e Raffaella Marzano, p. 5).
Vista tale premessa non posso esimermi – contravvenendo al mio solito modo di procedere che lascia in ombra la biografia a tutto vantaggio delle opere – dal provare a raccontare il formarsi di questa leggenda, con cui, dallo scorcio finale del secolo scorso ho avuto il privilegio di incontrarmi ripetute volte, sino ad una recente visita agli scavi di Elea/Velia con foto ricordo accanto all’erma di Parmenide.
Sinan nasce nei primi anni ’50 a Grab nel Sangiaccato, all’epoca parte integrante della Jugoslavia di Tito, “un villaggio alto e sperduto che durante la mia infanzia aveva 35 case piene di gente e ora ne conta quattro, e anche esse stanno per svuotarsi.” come ce lo descrive lo stesso poeta (in Manuela Palchetti, Intervista a Sinan Gudžević, writers.it, 2007; ora in http://www.casadellapoesia.org/poeti/gud-evi-sinan/altro). Il già citato Novak racconta: “Da ragazzo doveva camminare per oltre dieci chilometri per andare a scuola e altrettanti per tornare a casa, cosa non facile e a volte anche pericolosa, soprattutto d’inverno a causa della neve e dei lupi.” e aggiunge “Deve essere stata una passione davvero insolita a portare il ragazzo Sinan da quel luogo sperduto alla dedizione e all’amore per le lingue classiche e la letteratura greca e latina! (Novak, cit., pp. 5-6).
In quegli anni dell’infanzia nasce anche un’altra grande passione, quella per il calcio (che Sinan ha praticato con discreta fortuna, seguito da tifoso – del Partizan, del Napoli di Maradona – e, pare, anche da radiocronista o commentatore per una radio polacca): “Se l’abile giocatore di calcetto Sinan avesse giocato per il Partizan contro la Roma, ci sarebbe forse stata qualche probabilità di batterla.” (Igor Lasić nel risvolto di copertina di Epigrammi romani, cit.). Studi di elettrotecnica mai portati a compimento (“I miei studi partirono dall’elettrotecnica e poi parallelamente mi avvicinai alla filologia. In elettrotecnica non mi sono laureato mai.” – in Davide Speranza, Gudzevic, il poeta delle due patrie, La Città di Salerno, 6 marzo 2016). Prime prestigiose pubblicazioni negli anni ’70, con poesie profeticamente critiche dei mali che cominciarono ad evidenziarsi in quegli anni nella (ex) Jugoslavia: il culto della personalità e quello dell’identità (etnica e religiosa) da cui tanti disastri sarebbero scaturiti.
La leggenda prosegue fuori dai confini: un periodo di due anni in Svizzera, “da dove (…) è partito per il Brasile, dove per alcuni mesi ha insegnato in una scuola di lingue straniere a Bento Conçalves nel Rio Grande do Sul. In questo periodo conosce la futura moglie, Sanja Roić, professoressa di letteratura italiana e traduttrice in serbo-croato delle opere di Giambattista Vico.” (B.A. Novak, cit. p. 10). Si dice che lì in Brasile Sinan abbia insegnato il russo!
Si trasferisce quindi a Berlino, dove nasceranno i figli (gemelli, come lo stesso Sinan).
Quindi l’importante soggiorno romano: “C’è un mio periodo romano, ma c’è anche un mio ‘preperiodo’ romano. Uno dei miei nonni, che viveva su Pešter, il grande, bello e gelido altipiano del Sangiaccato, era un grande cavallerizzo, e anche mercante di cavalli. A cavallo aveva percorso molte volte tutta la Serbia e Montenegro. Una volta è andato a cavallo persino ad Istanbul, in trenta giorni. Una volta, ero ragazzo, qualche anno prima della sua morte, l’ho sentito dire: “È da tanto che vorrei andare a cavallo a Roma, vorrei vedere ‘sta Roma! Ma ho sentito che lì non c’è un posto adatto per allacciare cavalli.” Pensa! Questo desiderio del nonno non mi ha mai abbandonato. Io la città di Roma l’ho vista non a cavallo, l’ho percorsa a piedi e in bicicletta, ma ho pensato sempre al mio nonno Ramo, che non aveva mai visto Roma. Quando sono arrivato a Roma per la prima volta ero abbastanza preparato: conoscevo bene il Viaggio in Italia di Goethe e le sue Elegie romane le sapevo a memoria tutte e venti. Poi, naturalmente, avevo letto e riletto Le figure romane di Ferdinand Gregorovius, poi Il Cicerone di Jakob Burkhardt, così che in linea di massima sapevo (permettimi un po’ di immodestia) quello che vedevo.” (Gudžević in M. Palchetti, cit.). La lunga citazione appena riportata serve, oltre ad evidenziare la particolarità del rapporto con l’Italia e specialmente con la capitale tutto intessuto di riferimenti culturali, anche per mettere in luce il gusto per l’aneddoto che (insieme a quello per i motti di spirito e i giochi di parole) è una caratteristica del fluente eloquio del nostro autore.
Infine si stabilisce a Zagabria, ma frequenti sono i soggiorni in Italia, dove nel 2004 consegue la laurea in lingua e cultura italiana a Pisa, con una tesi dal titolo “Gli epigrammi latini di Giovanni Pascoli”. La consegna al poeta ed intellettuale slavo del diploma (come testimonia una foto) fu fatta dall’allora Presidente della Repubblica, Azeglio Ciampi.
A questo va aggiunta la “mitica” traduzione tra le tante – Anthologia Palatina, Teognide, Callimaco, Gregorio Nazianzeno, Ovidio, Marziale, Properzio, Petrarca, Vives, Giano Pannonio, Pico della Mirandola, Opitz, Logau, Czepko, Goethe, Schiller, ecc. – delle Metamorfosi di Ovidio (“Ho impiegato dodici anni per tradurre le Metamorfosi di Ovidio in questa lingua nel metro originale. Molti amici e numerosi editori chiedono quando, finalmente, potranno leggerla. Come noto, si tratta di dodicimila esametri. Li ho composti nel patrimonio lessicale che ritengo l’unico per me possibile per fare versi. E questa era la koiné serbocroata, quelle erano le parole serbe, croate, bosniache, montenegrine – chi mai le poteva distinguere e tanto meno separare! Durante il lavoro – lo ammetto – l’idea di veder pubblicata la mia traduzione mi rallegrava infinitamente. Poi è scoppiata la guerra. E la pubblicazione del mio Ovidio nella forma che mi auguravo da sempre, con la guerra linguistica è stata resa impossibile.” – in M. Palchetti, cit.).
Sulla guerra linguistica serbo-croata Sinan ha scritto pagine di analisi piene di amarezza e di sarcasmo, che mettono alla berlina la stupidità dei nazionalismi, l’ottuso, anacronistico vagheggiare un passato mitico ed inesistente.
Mi sembra a questo punto, pur senza avere minimamente esaurito gli elementi di originalità, a volte al limite dell’incredibile, di avere apportato motivi sufficienti a suffragare l’alimentarsi della leggenda Gudžević e di poter quindi rivolgere l’attenzione alla sua opera poetica.
Se è stato impossibile prescindere dalla vicenda biografica di Sinan Gudžević, ritengo tuttavia che quanto sopra detto possa rivelarsi senz’altro utile anche per affrontare l’analisi di Epigrammi romani. Sin dal titolo il libro ci dice chiaramente cosa ci aspetta: dunque degli epigrammi scritti a Roma (“Durante e tra parecchi soggiorni romani scrivevo le poesie epigrammatiche. Giunto a quattrocento componimenti, ne ho scelto centodieci e li ho pubblicati come raccolta, a Spalato nel 2001.”, Gudžević in M. Palchetti, cit.); ma già questo semplice elemento comunica che ci troviamo in un contesto iperletterario, che il lettore è chiamato a leggere le poesie sapendo che l’autore le colloca e si colloca coscientemente all’interno di un sistema letterario nel quale la tradizione classica è costantemente operante. Per dirlo con altre parole: lo scrittore si dichiara poeta in base all’autorità conferitagli dalla tradizione, ma allo stesso tempo pretende la collaborazione/complicità del lettore chiamato a riconoscerla.
Sentiamo ancora l’autore: “Personalmente ritengo che l’Europa epigrammatica sia più bella di quella epica. Sinceramente, io amo molto più l’Antologia Palatina dell’Iliade e anche dell’Odissea. Purtroppo il nostro continente non è stato costruito dalla stoffa epigrammatica o quella dell’amor cortese, ma dalle armi e dall’ira di Achille. L’epigramma è un vero figliastro della filologia e dell’educazione letteraria. Alcuni critici considerano il genere letterario epigrammatico persino non un genere poetico. Richard Reitzenstein, nella sua celebre opera Epigramm und Skolion, considera l’epigramma una specie poetica non ben definibile, perché non ha un ambito stabile di contenuto, non ha il proprio metro e sta sotto l’influsso dell’epica, dell’elegia e della lirica. Oggi gli epigrammisti vengono raramente inseriti nei programmi di educazione letteraria. La poesia epigrammatica è, citando Thomas Stearns Eliot, “quel genere di poesia che si legge soltanto nelle antologie”. Io ho tradotto centinaia degli epigrammi greci, latini, tedeschi ed anche italiani, e quest’attività mi ha anche fatto scrivere degli epigrammi.” (Gudžević in M. Palchetti, cit.).
Conferma, in maniera esplicita, tutto quanto sopra detto l’epigramma 34 (per motivi pratici, citerò sempre la traduzione italiana realizzata dallo stesso autore con Raffaella Marzano, l’originale solo se strettamente funzionale all’argomentazione; d’altronde il lettore che volesse potrà consultarlo nell’edizione italiana citata):
Marziale, Goethe, Palada, Lucilio, Callimaco, Puškin,
Nicarco, Laerzio, Basso, Luciano, Archia, Flacco,
Archiloco, Nosside, Anita, Crinagora, Catullo, Erasmo,
Vjazemskij, Zamagna, Floro, Cunicchio, Pannonio, Moro:
Se, o lettore, a loro aggiungi numerosi ignoti,
Saprai dove cercare del mio epigramma il sale.
Questo libretto quindi non ti piacesse affatto,
Rimproverami, lo merito, ma rimprovera anche loro!
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 33)
Notiamo – oltre alla professione di modestia (knjižica “libretto”, ma anche l’attribuzione del slani “sale” ai predecessori), che ritroviamo anche nella seguente dichiarazione: “I miei epigrammi non portano e non offrono nulla di nuovo. Tutto quello che c’è in essi, c’è da sempre negli epigrammi: qualche iscrizione tombale, qualche componimento scoptico, qualche distico arguto e malinconico, autoironico o pungente.” (Gudžević in M. Palchetti, cit.) – un altro tratto frequente in questi epigrammi, cioè il rivolgersi direttamente, e con un confidenziale tu, al lettore, creando in tal modo una comunità di cui proveremo più avanti ad individuare le caratteristiche. Inoltre va sottolineato anche il gusto per i lunghi elenchi, anch’esso ricorrente.
Ritengo a questo punto necessario giustificare il titolo da me scelto per questo intervento, leggendo l’epigramma 32:
Mato mi loda e dice, fra tutti i serbo-croati
Son io colui che i distici migliori compone.
Rispondo io a Mato che fra tutti i serbo-croati
Son io colui che i distici peggiori compone.
Chi ha ragione, lettore? Entrambi abbiamo ragione,
Dato che son l’unico io che i distici ora compone.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 31)
L’epigramma appena citato esplicita un altro fondamentale elemento formale utilizzato dall’autore: il distico elegiaco, strofa di due versi (un esametro e un pentametro) della metrica classica (per una più esauriente trattazione tecnica rimando il lettore alla citata introduzione di Novak, pp. 12-15).
Chi ha potuto ascoltare i reading di Sinan (ma chi vuole può farlo, grazie alla meritoria documentazione dell’Associazione Achille Basile Le ali della lettura di Castellammare di Stabia al link https://www.youtube.com/watch?v=YY969hdvyzc) ha sicuramente udito la scansione ritmica dei versi, che spesso si riesce ad evincere anche nella traduzione in italiano. A tal proposito, non sfuggirà al lettore la portata delle difficoltà affrontate per rendere nella nostra lingua una poesia tanto metricamente strutturata, nonostante l’esperta partecipazione dell’autore stesso alla redazione della versione italiana, come detto realizzata a quattro mani con Raffaella Marzano.
In questa prevalenza della metrica si potrebbe scorgere un ritorno all’originaria prevalente oralità della poesia, conservatasi, anche per intuibili motivi pratici, almeno fino all’invenzione della stampa. Ma cerchiamo di capire in che modo queste poesie di Gudžević riescano ad unire gli elementi della classicità con quelli della modernità in un insieme fortemente originale, unico direi, nel panorama internazionale.
Riguardo alla loro classicità, Burgaretta dice: “Del genere classico hanno: la struttura formale del distico, la brevità, la pregnanza semantica, la battuta brillante e scherzosa, il risvolto scoptico, il fulmen in clausola di frequente, la punta cosiddetta o pointe alla francese.” (Sebastiano Burgaretta, Gli Epigrammi romani di Sinan Gudžević, http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/epigrammi-romani/gli-epigrammi-romani-di-sinan-gud-evi/recensioni , 2007).
Mentre Paciucci così si esprime a proposito della loro modernità: “L’epigramma di Sinan non è forzato o stravolto dal contatto con la modernità (del soggetto poetante, e dei temi), ma è accompagnato nella modernità, necessariamente barbara ma proprio per questo da attraversare in lungo e in largo, e rappresentabile.” (Gianluca Paciucci, Sinan Gudžević, Epigrammi romani, http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/epigrammi-romani/sinan-gud-evi-epigrammi-romani/recensioni, 2007).
Come sintesi mi sembrano particolarmente efficaci le parole del compianto Predrag Matvejević: “Sinan Gudžević è uno dei rari poeti contemporanei che unisce una vasta cultura moderna a una profonda cultura classica, prevalentemente greco-latina. Questa fusione dà alle sue poesie un’impronta straordinariamente originale… La sua poetica è radicata formalmente nell’epigramma, quel genere letterario, ormai quasi abbandonato, e stilisticamente in un uso molto esigente della litote e della pointe. Nei suoi versi in poche parole egli esprime un mondo, tutto suo, che si innesta poi nel nostro mondo comune.” (P. Matvejević nel risvolto di copertina di Epigrammi romani, cit.).
Dobbiamo ancora a Paciucci il tentativo di catalogare temi e situazioni che si ritrovano all’interno degli Epigrammi romani: “Proviamo a censirle: -gli amori alla Marziale e alla Catullo (n. 23); -lo spirito balcanico (nel divertentissimo epigramma 28); – la bellezza ingloriosa ma salvifica del quotidiano (n. 50); – la classicità (in numerosissimi testi, quella greco-latina-rinascimentale, fino allo sguardo puntato dritto nel cosmo da Giordano Bruno, verso l’infinità dei pianeti e delle vite – n. 85); -il calcio ‘classico’ (dal Maradona dell’epigramma 57, al caro Partizan di Belgrado dei nn. 75-76-77); – i due mondi dell’unica Europa, le due culture integrabili costruite su ‘religioni disarmate’ (il Sacro Corano degli epigrammi 79 e 87, tra i più belli dell’intera raccolta); – la follia bellica jugoslava negli anni Novanta del secolo scorso (nn. 15 e 98); – i cimiteri e la morte (anche qui in numerosissimi testi).” (G. Paciucci, cit.).
Propongo, sulla scorta di quanto finora detto, una prima conclusione: ferma restando l’inscindibilità dell’oggetto poetico, a cui si deve il carattere di forte originalità dell’opera, possiamo attribuire alla tradizione classica la forma (epigramma in distici elegiaci, uso strutturale delle figure retoriche), mentre per il contenuto si riscontra un’alternanza (quando non una miscela) di motivi classici e moderni, nonché di “alto” (profonda spiritualità, vasta cultura, ad es.) e di “basso” (realismo, temi popolari, motti di spirito, ecc.) che rendono straordinariamente vivaci e godibili questi versi.
Vorrei adesso rimarcare all’interno dell’opera la presenza di due protagonisti (oltre a vari comprimari): la città di Roma, con l’ovvio corollario dei suoi abitanti, e il personaggio Sinan, alter ego letterario dell’autore.
Della prima credo nessuno si meravigli, dato che è dichiarata sin dal titolo, a garanzia di una forte unità tematica dell’intero libro. Ma è interessante il contrasto tra l’antico e il moderno, tra la città conosciuta attraverso gli studi classici e quella del vissuto quotidiano, condito da sottile, pregnante ironia. Ad esempio nell’epigramma 4:
Nelle terme a Roma c’erano una volta biblioteche:
Affinché fresco e pulito potessi leggere i libri.
Oggi fra libri polverosi, che sporcano e danno starnuti,
Sarebbero più salutari le terme nelle biblioteche.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 19)
Oppure l’epigramma 24:
Roma è rovine e cimiteri, e i romani son gente allegra.
Vivendo al cimitero dolor diventa riso prima o poi.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 29)
O l’epigramma 72:
Applausi in chiesa a messa, il vescovo in porpora tace,
Applausi quando il palmo il Papa sul popolo leva,
Applausi nel tribunale proclamata la massima pena,
Applausi quando la salma per l’ultimo viaggio si parte.
Tutti sono usi romani: straniero, non ti stupire
Quello che Roma insegna: la vita è un batter di mano!
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 53)
Qui l’anafora dei primi quattro versi (Pljesak “Applausi”) crea, attraverso il ritmo iterativo, un’assuefazione, a cui segue una sospensione nel penultimo verso rafforzata dal primo emistichio dell’ultimo (nei quali non a caso troviamo l’aggettivo romani e il sostantivo Roma) che si scioglie nella rapida e al tempo stesso lapidaria sentenza finale. L’interlocutore a cui il poeta si rivolge, lo stranče “straniero” (che in fin dei conti è anche lo stesso Sinan) risulta in qualche modo incastonato – e frastornato – tra gli usi romani e l’insegnamento della città eterna.
Quanto al personaggio Sinan, direi che, a parte colui che sin dall’inizio si pronuncia in prima persona (“Ciò che da tanto bramavi, rimira, anima mia: Roma che splende nel sol autunnale eterna città. Anima, godi a fondo il giorno che vivi e Roma, Anche se questo piacere domani dolore sarà.”, S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p.19 – sottolineerei che questa formula del piacere dell’oggi che si tramuta in dolore il giorno successivo è ricorrente), possiamo incontrarlo spesso, protagonista di vicende dall’alterna, ma più spesso cattiva, fortuna, per esempio nell’epigramma 28:
Ieri per tutto il giorno ho chiesto alla gente a Belgrado:
“C’è nessuno che vola per Roma? Vorrei spedire qualcosa”.
Oggi mi fanno impazzire quelli cui ieri chiedevo:
Chiamano, chiedono tutti : “L’hai poi spedita a Roma?”
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 29)
O nel 50:
Momče i devojko, koji po Maximo hodaste Circo
Svadeć se nešto zbog čeg, osmog decembra pred mrak,
Onaj na biciklu čovek, u selenoj vetrovci,, čupav,
Kojega suluda žud stavila beše pod vlast,
Pa se u obesnu dao i mahnitu trku po stazi,
Sve ne primećujuć vas, brže iz kruga u krug,
Onaj te nesklon brzini i kvašnjavoj južnoj krivini
Pade sa bicikla svog hrptom o trkačko tlo
(Vi se nasmejaste uglas i svakako toga trenutka
Njegov je presmešni pad posve izmirio vas)
Onaj te dvaput se triput na peskuši koprcnu dobro,
Ne bi l’ ulovio zrak, jedva povrativši dah,
Onaj te najzad se diže, pa jedva na biciklo sednuv,
Pokunjen šmugnu kraj vas – Jova mi, bio sam ja!
[Voi, ragazza e ragazzo, che al Circo Massimo passeggiavate,/ L’otto dicembre al tramonto, litigando non so su cosa,/ Quell’uomo in bici, spettinato, la giacca verde addosso,/ Quello che sembrava preso da desiderio folle/ E lanciatosi in corsa furibonda e pazza/ Non accortosi di voi, ad ogni giro accelerando,/ Quello non uso alla velocità e all’umido della curva sud,/ E che sul famoso terreno dalla bici cadde di schiena,/ (Ne avete riso in coro e di certo in quell’istante/ Il suo ridicolo tonfo mise pace tra voi)/ Quello che due o tre volte rotolò sulla sabbia,/ Annaspando in aria e riprese fiato a stento,/ Quello che rialzatosi poi rimontò a fatica in sella,/ Fuggendovi per la vergogna, per Giove, ero proprio io!]
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 41)
Anche in questo caso l’uso anaforico del deittico Onaj “Quello” (ripetuto per ben quattro volte su quattordici versi, di cui tre negli ultimi otto) serve a rilanciare con successive precisazioni la descrizione dell’evento, dilatato con successive digressioni – di cui esemplare appare la parentetica che interrompe il flusso descrittivo, proponendo la soluzione del litigio tra innamorati presentato nei primi due versi – e, creando una sorta di suspense (termine che, in questo caso più che mai, deriva dal latino «Suspensum») che acuisce l’attesa, rinviare la conclusione fulminea dell’epigramma racchiusa nelle cinque brevi parole dell’ultimo emistichio.
I suddetti due protagonisti (Roma e Sinan) si incontrano, con uno sfoggio di grandissima autoironia, nell’epigramma numero 100 (che, non a caso, Sinan ha messo in posizione topica e spesso letto in chiusura dei suoi reading):
Calcoli, reuma, artrite li ereditai da madre
Sonno inquieto e lieve da parte paterna mi viene,
Sudore notturno, prurito li presi dal nonno materno,
L’indole a pianto e uggia dono della nonna materna,
Flemma, facondia, fiacca dalla nonna paterna,
Il digrignare notturno traccia del nonno paterno.
Se a tutto aggiungi anche i miei propri tributi
Due prolassi dorsali, ulcera, vitiligine e pressione
Forse infine avrai un’ idea più chiara di quale
Misero essere vuole burlarsi di Roma in versi.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 71)
Il catalogo (ancora una volta un lungo elenco) di malattie e malanni, squadernato nell’albero genealogico molto sui generis dei primi sei versi, serve a costruire una figura di ritmo davvero originale, una sorta di ripetizione differente su base simmetrica, in cui nella prima metà del verso si ritrovano le varie malattie e nella seconda i parenti ai quali esse vanno attribuite. Inoltre, respingendo l’idea che esistano parole poetiche e non poetiche, Gudžević ci dimostra come, possedendo l’arte di costruire versi, si possa fare poesia perfino con termini che ci aspetteremmo di trovare esclusivamente in qualche trattato scientifico o nell’enciclopedia medica.
Dicevamo che Sinan Gudžević tende anche, nella sua opera ed in particolare in questi epigrammi, a costituire una comunità ideale: lo fa, a mio avviso, attraverso meccanismi di inclusione e di esclusione molto evidenti e, a suo modo, politici. Di questa Polis utopica e al tempo stesso reale, come abbiamo visto, viene chiamato a far parte esplicitamente il lettore (cfr. epigrammi 32 e 34 sopra citati), preferibilmente un lettore in grado di dialogare con gli altri appartenenti a questa comunità, in primo luogo quell’Europa degli epigrammisti che abbiamo visto accomunare gli antichi greci e latini con Goethe, Schiller, fino ai contemporanei (e come dimenticare, anche se non epigrammista, il grande amico Izet Sarajlic che a lui indirizzò la videolettera da Sarajevo assediata), e quelli che noi definiremmo “uomini di buona volontà” a prescindere dalla fede professata o dall’etnia di appartenenza.
A proposito di esclusioni, invece, vediamo ad esempio l’epigramma 109:
Matija, scrissi una volta che tu e Vasko siete immortali,
Certo che Vasko e tu potreste accostare i versi.
Vasko è morto e tu diventasti con la guerra canaglia:
Le tue parole e versi fomentano coltello e sangue.
Anche se in te un giorno lo stesso Milton parlasse
Mai più ti leggerò e mai sentirti vorrò.
Fossi stato immortale, per la tua reità saresti morto.
Tuoi malefici versi saranno privi di immortalità.
Dovessi essere immortale in qualche barbaro stuolo,
Tale immortalità dovrai goderla solo da solo.
Bene conoscevo Vasko: preferirebbe essere morto
E dimenticato che star immortale insieme con te.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 75)
A questo fa eco l’epigramma 98 (“[…] Sia dannato colui che questo silenzio ci impose, […]”, p. 69); in proposito sentiamo ancora Novak: “Questa coscienza viene realizzata principalmente attraverso un umorismo mite, ma talvolta anche attraverso i toni di una delusione amarissima accompagnata da forti condanne morali.” (Novak, cit., p. 15). Fuori dalla comunità ideale di Sinan dovranno, quindi, per sempre restare i signori della guerra, e con loro i poeti e gli intellettuali che hanno fomentato le divisioni religiose ed etniche, che hanno contribuito a distruggere la ex Jugoslavia e a sgretolare artificialmente la lingua serbo-croata. Insomma, forzando un po’ quanto Sinan ha detto in un’intervista sopra citata, dalla sua comunità resta esclusa l’Europa epica, gli eroi guerrieri ed i loro cantori. Forse con un’unica eccezione, che leggiamo nell’epigramma 80:
Fabio, chiedi perché per Napoli parto ben spesso,
Qualche domenica, solo, sempre a mezzodì.
Provi a voce a pensar: Pompei, l’antro della Sibilla,
Bacoli, Capo Miseno, Vesuvio, Posillipo forse.
Fabio, non è per questo: Maradona mi spinge al viaggio.
Sappi che scendo dal treno sempre a Campi Flegrei.
Tutti i giorni vedere Vesuvio, Bacoli posso,
Ma Maradona, ben sai, solo domenica c’è.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 57)
Qui la passione per il calcio raggiunge l’apice, arrivando a porre uno dei suoi massimi protagonisti, il genio (e sregolatezza) calcistico argentino Maradona, in antitesi con i tesori dell’archeologia e della natura napoletani, al punto che Campi Flegrei è qui citata non come la sin dall’antichità famosa area vulcanica, ma come la stazione ferroviaria vicina allo stadio San Paolo di Napoli.
Quest’ultima considerazione mi consente di mettere in luce le figure dell’antitesi e del paradosso, che sono caratteristiche di gran parte dei componimenti del libro. In realtà abbiamo già incontrato la coppia (oppositiva) molto spesso: sia dal punto di vista formale – il distico è per definizione una strofa di due versi, ma spesso ogni verso si suddivide in due contrapposti emistichi – che nel contenuto degli epigrammi citati (32, 4, 24 , 28, 109 a cui molti altri se ne potrebbero aggiungere). Che l’antitesi miri all’invenzione del paradosso (cfr. G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974, p. 80) risulta evidente ad esempio nell’epigramma 24 in cui l’antitesi Roma-cimitero/romani-allegri genera il paradossale verso “Vivendo al cimitero dolor diventa riso prima o poi”. Mi sembra che si realizzi un’ammirevole coerenza stilistica e tematica, come possiamo rilevare ancora nel delizioso epigramma 25:
Cantando la ninna nanna ha addormentato il bambino
E il suo canto ha svegliato ogni adulto vicino
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 29)
O ancora nel successivo metapoetico – come del resto i già citati 32 e 34 – epigramma 27:
Tutti gli inizi son duri. Ma nell’epigramma è diverso:
Facili tutti gli inizi, duri e aspri i finali.
(S. Gudžević, Epigrammi romani, cit., p. 29)
Vorrei concludere considerando che, a fronte di tanto sciatto versoliberismo che pretende di essere il nuovo ed è soltanto mediocrissimo, se non pessimo, epigonismo di quella che con una fortunata formula Mengaldo definisce “la tradizione del Novecento” – fatte salve le lodevoli ed importanti eccezioni, alcune delle quali sono state presentate anche in questa rubrica – questa robusta iniezione di tradizione letteraria classica degli Epigrammi romani finisce per colorarsi di grandissima originalità, indicando una strada che non è ovviamente quella di rifare l’antico, assurdo e impraticabile anacronismo, ma piuttosto quella di avere una forte consapevolezza della dialettica che da sempre esiste “fra l’esigenza del nuovo e le strutture tradizionali” (G.B. Conte, cit., p. 69), tensione dinamica che, a mio modesto avviso, costituisce una condizione necessaria per generare la grande poesia, quella destinata a resistere nel tempo come gli epigrammi di Sinan Gudžević .
Giancarlo Cavallo
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