Quando muore un poeta il cielo dei perdenti diventa più scuro e lontano. Quando muore un poeta la lingua in cui ha scritto resta orfana di un inventore di nuove forme, un trasgressore che le offriva un più ampio respiro. Quando muore un poeta la sua opera si cristallizza, diventa definitiva, e nessuno, in tutta onestà, potrà più cambiare una parola, spostare una virgola, decidere il destino di un verso. Quando muore un poeta, un poeta vero, ci lascia in eredità un immaginario unico ed irripetibile, un testamento consegnato all’eternità. La sua poesia continua a vivere nelle letture e nelle traduzioni, nella bocca, nelle orecchie, negli occhi e nel cuore di tutti quelli che continuano ad amarla.
Josip Osti, il poeta Josip Osti, è morto alla fine di giugno del 2021, dopo aver combattuto per sette anni contro un male terribile; ma la consapevolezza dell’inevitabilità della fine anziché fiaccarne le energie, ha moltiplicato la sua produzione, la volontà di utilizzare tutto il tempo che restava a sua disposizione per portare a compimento il suo percorso di ricerca poetica. Ricerca d’altronde interminabile poiché “[…] tutto ciò che ho scritto fino a oggi,/ e gli altri hanno accolto come poesia, non era che/ l’impronta delle mie dita sulla carta, su cui la poesia ha/ lasciato la dorata polvere delle sue ali, prima di sparire/ chissà dove. Ignoro che senso abbiano questi misteriosi/ segni per gli altri, per me erano sempre solo dei nuovi/ messaggi di continuare a cercare. (Cerco dovunque la poesia – esplicito e significativo titolo-incipit – in Osti J., Rosa Mystica, Multimedia, 2008, pp.8-9).
Ho conosciuto Josip Osti nel 2001 quando, insieme a molti poeti di varie nazioni, partecipammo all’incontro “Poesia contro la guerra” tenutosi a Baronissi e Salerno dal 30 novembre al 2 dicembre di quell’anno. Da allora ci siamo incontrati molte volte in occasione di suoi reading in Italia o di incontri internazionali (fino al più recente “Le molte lingue della poesia”, Desenzano del Garda, luglio 2019) sempre scambiandoci calorosi, fraterni abbracci a testimoniare affetto e stima reciproci, ma senza mai poter comunicare direttamente a causa della barriera linguistica costituita dalla mia ignoranza delle lingue slave e dalla sua di quelle occidentali.
Vorrei iniziare il percorso che ci condurrà ad una conoscenza dell’opera di Osti – molto parziale vista la prolificità di questo autore, la cui bibliografia ormai assume proporzioni considerevoli anche in traduzione italiana – con un’affermazione banale, lapalissiana: la poesia è un atto linguistico e, in quanto tale, ha bisogno di una lingua (e di un linguaggio). Nella maggioranza dei casi, la lingua è quella materna: rari – ma ultimamente sempre più frequenti a causa delle migrazioni e della globalizzazione – i casi di autori che hanno scelto di scrivere in un’altra lingua (e, non a caso, mi torna in mente “Scrivere in una lingua straniera” di Etel Adnan – https://www.potlatch.it/scritture/etel-adnan-scrivere-in-lingua-straniera/), ma quasi sempre molto significativi a causa delle motivazioni (politiche, culturali, familiari, ecc.) che hanno indotto a compiere questa scelta radicale.
Il caso di Osti, tuttavia, appare singolare: pubblica i suoi primi libri in lingua materna (quella che all’epoca si chiamava serbocroato e che una guerra civile scellerata ha artificialmente scisso in serbo, bosniaco e croato – cfr. in proposito Sinan Gudžević, Cuius regio, eius lingua. Breve intervento sulla guerra linguistica serbocroata., in “Quaderni” del Fondo Moravia, l, Roma 1998, 163-170) – si trasferisce in seguito per motivi sentimentali in Slovenia, adottandone la lingua e pubblicando, con grande successo, i propri libri successivi in sloveno. Va sottolineato che, per la presenza del duale, lo sloveno è denominato “lingua dell’amore” e, dunque, si presta particolarmente bene alla poetica di Osti che, come vedremo, dell’amore si fa vessillifero (anche se non mancano, com’era forse inevitabile, poesie che parlano dei disastri della guerra). “Ad un tratto sembra che con il passaggio a un’altra e diversa lingua la voce poetica di Osti abbia subìto certi cambiamenti nella sua tonalità: le poesie diventano più soavi, come se lo sloveno lo avesse aiutato a istaurare una distanza nei confronti della tragedia della sua patria bosniaca distrutta dalla guerra.” (Boris A. Novak, poeta sloveno, nella recensione de Il Narciso carsico).
Come è mia consuetudine in questa rubrica, intendo verificare attraverso la lettura di alcune poesie le riflessioni e i rilievi teorici che sono scaturiti dalla lettura dei libri di Osti e di testi critici e interviste apparse in Italia (tra le quali segnalo l’ottima recensione di Gianluca Paciucci a L’albero che cammina, – con l’affermazione, tra l’altro, che il “tema della nudità attraversa tutta l’antologia” e l’individuazione dei poeti amici/complici Borges, Poe, Pessoa, Srečko Kosovel, Izet Sarajlić, Paul Celan, Hart Crane, Attila Joszef, Majakovski e Esenin – che si può leggere al seguente link: https://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/l-albero-che-cammina/i-libri-creano-massacrati-e-massacratori/recensioni).
Cominciamo con una poesia particolarmente significativa, visto che il suo titolo ha generato quello del primo libro apparso in Italia (Osti J.,L’albero che cammina, Multimedia Edizioni 2004):
DREVO SEM, KI HODI, TEČE, LETI…
Drevo sem, ki hodi, teče, leti… Drevo,
ki se je, še samo ne vedoč kako, ker v
resnièni ljubezni ni nič razložljivo,
z juga našlo na severu, obkroženo z
drugačnim drevjem. Šele potem ga je s
koreninami iztrgala vojna nevihta. Nikdar
ne bo izvedelo, ali v snu ali
v resničnosti, ki je bolj morasta od
najbolj morastih sanj. Drevo sem, ki hodi,
teče, leti… Drevo, ki se ni prenehalo
čuditi prelepi kraški pokrajini in se
hkrati zgražati nad tistim, kar se je
dogajalo v njegovem rojstnem kraju.
Z ljudmi, drevesi, rožami, psi, mačkami…
Z domačimi in divjimi živalmi…
V mestih, vaseh, gozdovih… Drevo,
ki se je potilo, obsuto s poljubi sonca,
zmrzovalo in drhtelo pod močnim šibanjem
burje. V katerega krošnji, čez noč
posiveli, so se zbirale mnoge ptice,
da bi videle in slišale samotno, v kletko
zprto, po barvi in glasu do takrat njim
neznano, eksotično ptico. Ptico pevko,
ki je dan in noè tiho pela. V drugem
jeziku, vsem pa razumljivo, žalostno
pesem. Drevo sem, ki hodi, teče, leti…
Drevo, ki hodi po rokah in se ogleduje
v zrcalu neba. Ki golo teče po travnikih,
med dvema resničnostma in dvema snoma.
Ki leti enkrat nad Sarajevom, drugič
nad Tomajem. Ki, razen ljubezni nerazumne,
nima ne domovine ne rojstnega kraja. Ki,
tudi ko brsti in cveti, ne neha veneti in
umirati
appassire e di morire. – Osti J., L’albero che cammina, cit. pp. 88-89. Traduzione Jolka Milič]
In proposito faccio mia questa considerazione di Igor Divjak: “[…] i critici […] hanno rimarcato spesso che i suoi versi sono ingannevolmente semplici e che in essi sia sempre nascosta qualche cosa che viene rivelata solo in seguito a reiterate letture.” (Igor Divjak, Nel giardino magico di Josip Osti, in Osti J., Rosa Mystica, cit., pag. 145).
In effetti, ad una prima lettura che ne rileva il carattere autobiografico e lo sviluppo sostanzialmente narrativo, si sovrappone il rilievo di molteplici aspetti tematici che vanno dalla metamorfosi (il poeta che diventa albero, ma anche uccello esotico), agli echi della guerra, alla compresenza di amore e morte, – “Riguardo a Osti, non si tratta sicuramente di idealizzazione acritica e superficiale dell’amore. Eros non è soltanto un idillio, è anche tensione, non è solo felicità, è anche sofferenza, non è solamente vita, è anche presentimento della morte.” (Boris A. Novak, Poesia scritta nella “lingua dei ricordi”, in Osti J., Barbara e il barbaro, Multimedia, Salerno 2020, p.13. Traduzione di Jolka Milič) – simbiosi che esalta il finale della poesia culminante nel ciclo vitale della natura che è una dei protagonisti principali della poesia. Come accade quasi sempre in Il sigillo di Salomone (1995 – di cui la poesia sopra trascritta è parte, ma in seguito anche in Il sudario di Veronica, 2002 e in Rosa Mystica, 2005), il titolo è costituito dalla prima frase della poesia e qui, ripetendosi ciclicamente nei versi successivi (identico o variato) concorre a creare una struttura ritmica particolarmente efficace. Vedremo in seguito la particolare evoluzione dei titoli, che finiscono per diventare uno stilema della poesia del nostro autore.
“L’amore assurdo è stata la sua unica patria, e la ragione della sua poesia amaramente condita, negli ultimi decenni, dallo scandalo della guerra.” (Gianluca Paciucci, Addio a Josip Osti, l’amore assurdo e la contestazione, in Il Manifesto del 29/06/2021, p. 11). I versi a cui si riferisce Paciucci, “Che tranne l’amore assurdo,/ non ha né patria né paese natío” sono un’affermazione particolarmente forte in un contesto come quello della ex Jugoslavia, dove i nazionalismi hanno devastato la federazione creando alcuni piccoli stati in cui ancora sono attivi pericolosi focolai di rivendicazioni etniche e rigurgiti fascisti. Ma il non avere né patria né paese natìo non significa essere alieno dai luoghi, anzi, Sarajevo e Tomaj sono luoghi particolarmente amati dal poeta-albero “che non ha cessato di lasciarsi/ incantare dal bel paesaggio carsico e nello/ stesso tempo di scandalizzarsi per ciò che/ accadeva nel suo paese natío”.
Infine, rileverei l’atmosfera chagalliana determinata da quest’albero che vola e che “corre nudo/ tra i prati, tra due realtà e due sogni.”, atmosfera onirica ma non senza inquietudini e perfino angosce.
Un altro fattore caratteristico della poesia di Osti, come sopra accennato, è dato dai titoli (Per comprendere la varietà e l’importanza di questo aspetto nella poesia contemporanea consiglio: Mengaldo P.V., Come è la poesia, Roma 2018, che dedica un intero capitolo ai titoli poetici e sempre di Mengaldo, ma con specifico riferimento alla poesia italiana del novecento Titoli poetici novecenteschi in La tradizione del novecento. Terza serie, Torino 1991). Il funambolismo verbale dei lunghi titoli non è affatto fine a se stesso ma crea vortici in cui il lettore è immediatamente preso (ad es.: Non io nella casa, ma la casa in me, insonne, dorme; Poesia in cui, tranne nel titolo, non nomino la morte – entrambi in Rosa Mystica).
In Tutti gli amori sono straordinari/ Vse ljubezni so nenavadne (Multimedia edizioni, 2016) “assistiamo al prevalere graduale del titolo sul testo (si veda «Allora avevo cinque anni», oppure «Sta invecchiando»); eppure il testo resiste a tanta invasività e dice cose da cui Osti non tornerà mai indietro: innanzitutto la potenza di ciò che è usuale (basti un titolo: «Un altro pomeriggio consueto in cui tutto è straordinario») e poi la bellezza infinita di un altro consueto-straordinario, è cioè l’eros, nella carnalità di un amplesso di gioia: «nudi sul letto/ sulle bianche lenzuola gocciola il vino rosso// il tenue rossore di ciliegie precoci / ci imperla i volti» (in «Non abbiamo abbassato le tende,/ non abbiamo spento la luce»).” (Paciucci, Addio a Josip Osti, cit.).
Leggiamo quindi una delle poesie tratte dall’opera appena citata da Paciucci:
OD PREVELIKE ŽALOSTI SVA SE SMEJALA GLASNEJE KOT KDAJKOLI ALI SAMO NA RAZGLEDNICAH JE LJUBLJANICA ZELENA IN GLOBOKA
nekega dne ti je telefoniral mož
da bo
tam in tam
takrat in takrat
zaradi tebe
skočil v ljubljanico
ti si telefonirala meni
in skupaj sva ga šla rešit iz vode
drugi dan sem ti telefoniral
da bom
tam in tam
takrat in takrat
zaradi tebe
skočil v ljubljanico
ti si telefonirala možu
in skupaj sta me prišla rešit iz vode
tretji dan si telefonirala možu in meni
da boš
tam in tam
takrat in takrat
zaradi naju
skočila v ljubljanico
midva sva telefonirala drug drugemu
in te šla skupaj rešit iz vode
in to se je ponavljalo
dan za dnem
ob istem času
in na istem kraju
imeli smo že stalno občinstvo
ne da bi se zmenili za aplavze in žvižge zbranih
smo skupaj hodili na vrt gostilne ob ljubljanici
pili
nazdravljali drug drugemu
na soncu sušili obleko
in se dolgo in glasno smejali
postajali smo legenda
čeprav je ljubljanica plitva
in se v njej že dolgo nihče ni utopil
Il corposo titolo, non tra i più lunghi di questa raccolta, introduce la paradossale vicenda (il paradosso e l’iperbole sono caratteristiche tipiche dell’umorismo slavomeridionale) sottolineandone l’elemento della tristezza che fa scaturire le rumorose risate (rimando di nuovo a Novak per la compresenza di Eros e Thanatos). La narrazione è strutturata nella prima parte in tre variazioni, costituite da una strofa di sei brevi versi e un refrain di due versi più lunghi, e nella seconda parte con tre strofe asimmetriche (5, 6, 3 versi). La vicenda di questo triangolo amoroso, che con la catena di tentati suicidi e di presunti salvataggi in extremis potrebbe avere un carattere tragico, viene completamente ribaltata e messa in ridicolo, con grande autoironia, nei due versi finali (fulmen in clausola, non insolito in Osti), vagamente suggeriti dalla parte terminale del titolo. La partecipazione del “pubblico assiduo”, con applausi e fischi, colora il racconto di un’ulteriore tonalità di realismo assurdo, che spiazza il lettore disincantato lasciandolo incredulo e divertito al tempo stesso. In realtà, si può dire che il titolo illumina il testo che, a sua volta, chiarisce il senso delle “cartoline illustrate” del titolo stesso. Una sorta di gioco di parole, un motto di spirito da non sottovalutare assumendo la lezione freudiana e i successivi sviluppi.
Altro elemento che balza immediatamente agli occhi è la consapevolezza del proprio ruolo di poeta e la riflessione sul proprio fare: sono molte le poesie che parlano di questo (ad es.: Come nasce la mia poesia, Il più delle volte parlo coi morti, Mi chiedi spesso, la già citata Cerco dovunque la poesia, Il poeta è padre e madre di figli non nati, ecc.). Divjak nella postfazione a Rosa Mystica ci dice che il primo nucleo tematico di questo libro è un “ripensamento autopoetico” (Divjak, cit. pag. 146). Per meglio mettere a fuoco questo argomento leggiamo L’amore mi ha fatto poeta:
LJUBEZEN ME JE NAREDILA PESNIKA
Ljubezen me je naredila pesnika…
Ljubezen, ki mi je s strupeno zlato
puščico v zgodnji mladosti prebodla
srce in odprla neozdravljivo rano,
v kateri se razrašča èrn kristal
z ostrimi robovi. Kristal, lep in boleč,
ki se blešči na križišču duše in telesa.
In mi kaže pot, po kateri se nenehno
vračam tja, od koder pravzaprav nikdar
nisem odšel. V rojstno mesto in v čas
otroštva. V prazgodovino mojih ljubezni…
Ljubezen me je naredila pesnika…
Ljubezen, ki mi je dala moči, da ne spim
noč za nočjo ter v dnevnik nespečnosti
zapišem na tisoče žalostnih pesmi o
življenju in, upam, vsaj eno veselo pesem
o smrti.
Ancora una volta ritroviamo la ripetizione (identica o variata) del titolo, che unisce significativamente due parole fondamentali nel lessico di Osti, amore e poeta, attribuendo al primo l’origine della seconda, rendendoli in tal modo indissolubili. Amore che in questo caso viene personificato in una sorta di Cupido che scaglia la sua freccia d’oro. Davvero felice l’immagine del “cristallo, bello e doloroso,/ che brilla al bivio dell’anima e del corpo.”, dove vediamo una coppia contrapposta di aggettivi (bello e doloroso), un bivio (incontro di due strade) e un’altra coppia classica (anima e corpo) dicotomica ma anche inscindibile. L’iterazione è figura ricorrente in tutta la poesia (Ljubezen/ Ljubezen all’inizio dei primi due versi, ma anche all’inizio del dodicesimo e tredicesimo verso preceduti da ljubezn alla fine del verso precedente; Kristal nel quinto e sesto verso; le varie declinazioni della parola poeta/poesia) fino al gioco di parole finale (“poesie tristi sulla vita” vs “poesia allegra sulla morte”) che, in ripetizione differente, si configura quasi come un doppio ossimoro. Anche qui, come nei casi precedenti, il verso si presenta irregolare, spesso spezzato in enjambement, con un movimento ampio e variato, che crea un ritmo costante e piacevole. Ritorna anche in questo testo come nell’albero che cammina la “città natìa” questa volta in coppia con il tempo dell’infanzia, una precisa collocazione spaziotemporale della nascita dell’Osti poeta, lontana ma al tempo stesso presente.
Ancora Novak, riferendosi alle raccolte Il libro dei morti di Sarajevo del 1993 e Il sigillo di Salomone del 1995, dice: “[…] con la forza artistica di un terremoto esprimono poeticamente l’orrore della violenza; ma un valore speciale in queste due sillogi rappresenta la ribelle e accanita, anche se offuscata e angosciosa voglia di vivere, con cui il poeta contrappone la vita al predominio della morte.” (Novak B., in Barbara e il barbaro, cit. pag. 13). Leggiamo dunque una di queste poesie tratta da Il sigillo di Salomone:
MOJA MAJKA KOJA JE STALNO GLANCALA ESCAJG
Moja majka koja je stalno glancala escajg,
sada, sama usred Sarajeva, mada su u gradu
bez vode, hrane i elektrike, kašike, viljuške i
noževi, kao i mnogo šta drugo, izgubili negdašnji
smisao, ćini isto. Pomete srću razbijenih prozora
i prah gelerima okrunjenih zidova, stavi našeg
veæ prestarjelog sijamskog maćka u krilo i
glanca escajg. Glanca sve dok je njegov sjaj
ne zablješti i smorenu, od dugotrajnog bdijenja,
ne uspava. Pucnjem, stvarnim ili sanjanim,
probuðena, u ulaštenoj kašiki ugleda svoje
izoblièeno, prerano ostarjelo i izmućeno lice.
Lice koje je danima sastavljala, slažuæi, klećeči
na podu, kao u crkvi, komadiče razbijenog ogledala.
I nastavljala glancati escajg. Escajg koji je,
u prošlom ratu, na isti način, glancala njena majka,
vjerujuči da če doči dan kada če se u zrcalu kovine
oglïdati nasmijana lica ukučana, okupljenih,
do posljednjeg, kao u vrijeme njenog vjenčanja.
Molte delle considerazioni fatte per le poesie precedenti (titolo dal primo verso, versi irregolari, enjambement, ecc.), potrebbero essere ripetute anche per questa. Passerei ad evidenziare quindi la maniera singolare scelta da Osti per parlare di una guerra terribile, una maniera direi obliqua, che mette al centro, sin dal titolo, un gesto della quotidianità, lucidare le posate, compiuto dalla persona, la madre del poeta, che si trova nel mezzo della guerra. Un gesto che potrebbe apparire assurdo, ma che, al contrario, nella prima parte della poesia segna una continuità con la propria esistenza anteguerra, mentre nella parte finale rimarca una continuità con la madre della madre e la “guerra precedente”. Lo scenario non è il campo di battaglia, la città assediata, i morti per strada, l’orrore esterno della guerra, ma è la casa, il luogo dell’intimità, dove essa si insinua con i suoi effetti (senz’acqua, cibo ed elettricità; schegge delle finestre/ in frantumi; pareti sgretolate dagli shrapnel; sparo/ reale o sognato). Sembra crearsi ancora una volta una sorta di dicotomia tra ciò che va in frantumi – le finestre, lo specchio, lo stesso viso, le pareti, quasi una metafora della nazione che si sta sgretolando – e ciò che, quasi miracolosamente, si ricompone nello specchio del metallo: la famiglia, la festa, la speranza del ritorno alla normalità del quotidiano.
La casa è un altro topos della poesia di Osti; in proposito basta scorrere i titoli nell’indice dei suoi libri per incontrare Costruisco di nuovo una casa, Pian piano si sgretola e sta andando in rovina una vecchia e bellissima casa carsica, Dopo la guerra ci costruiamo la casa, la già citata Non io nella casa …, La porta della mia casa vi è aperta, amici, ecc. Va detto che spesso la casa è associata alla rovina, alle macerie (anche se ci rendiamo conto che stiamo costruendo/ le macerie di domani è la conclusione, sconsolata, di Dopo la guerra ci costruiamo la casa in L’albero che cammina, cit., pag. 127). Non avendo la possibilità di approfondire questo interessante argomento rinvio il lettore che ne avesse voglia a La poetica dello spazio (1957) di Gaston Bachelard e anche a Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti (1993) di Francesco Orlando.
Prima della conclusione di questo intervento vorrei segnalare un altro singolare aspetto della produzione letteraria di Osti, ossia l’haiku; in questa forma egli ha scritto “un’infinità di versi”, come ci dice Sinan Gudžević nell’introduzione a Nella terra di nessuno (Multimedia edizioni 2015, traduzione di Jolka Milič) il volume che ne raccoglie una parte in traduzione italiana. Va specificato che si tratta di Haiku occidentali, codificati con la tripartizione in versi di cinque/sette/cinque sillabe, approssimativamente corrispondenti all’originario canone giapponese.
Vorrei concludere questo intervento – palesemente insufficiente, per limiti di chi scrive ma anche per ovvi motivi di spazio – con la lettura di un altro piccolo capolavoro del nostro Josip Osti:
UMRLA JE MAGNOLIJA
Umrla je magnolija. Podrobnosti ne bom omenjal.
Te zameglijo bistvo. Umrla je magnolija, bela,
zvezdasta. Tista, ki sem jo pred leti posadil
v vrtu za hišo. Ki me je že zdavnaj prerasla
za glavo. Umrla je tako, kot umirajo otroci pred
starši. Nepričakovano. Mlada in zdrava. Vsaj
ni bilo videti, da bi bolehala. Umrla je pred
mojimi očmi. Ne dobesedno, kajti v tistem trenutku
sem bil pogledal proč. Na zlato rajsko jabolko
in njegove rdeče liste. Skratka, umrla je
magnolija. In če obstaja duša, bo njena, močno
dišeča, tavala do konca življenja. Če sploh
obstaja konec na tej krožni poti, na kateri je vsak
začetek hkrati konec. In morda obratno …
Umrla je magnolija. Kje bo zdaj njen duh
zapeljeval čebele? Po katerem dečku, čez noč
dozorelem v mladeniča, bodo snežili beli listi
njenih cvetov, ko se pred svitom zbudi ves
prepoten, z razpokanimi, krvavečimi ustnicami,
žejen ljubezni? Tako kot sem ljubezni, duša,
žejen jaz, ki nocoj ne morem spati. Kajti
umrla je magnolija.
è morta la magnolia. – Osti J., Rosa Mystica, Multimedia edizioni 2008, pp. 130-131. Traduzione Jolka Milič]
Stavolta il titolo (Umrla je magnolija) coincide non solo con il primo ma anche con l’ultimo verso e si ripete altre tre volte nel testo, in cui si registrano altri due “è morta” (umrla je) che ovviamente sottintendono la magnolia. La natura, in particolare il giardino “magico” di Tomaj con la sua magnolia e il suo cachi, è assoluta protagonista di questa poesia. Ma, come ci dice Igor Divjak, “[…] dietro la leggerezza intimistica e vitalistica dello stile poetico di Osti si nascondono vortici ontologici magici che si ampliano in un labirinto infinito.” (Divjak I., cit. pag. 151). E in effetti, se ci si sofferma su questi versi, l’episodio della morte della magnolia consente al poeta di esprimere alcune profonde riflessioni: sulla morte inattesa dei bambini prima dei genitori; sull’esistenza o meno dell’anima (ma immediatamente troviamo la sua, anima della magnolia, intensamente profumata: dunque non solo esiste, ma è appannaggio anche degli alberi) e sull’esistenza della fine “in questo cammino circolare”, quindi una visione della vita in cui “ogni principio è assieme fine”, evidentemente vicina alle filosofie orientali. La struttura stessa della poesia conferma questa circolarità: l’inizio e la fine coincidono. È morta la magnolia, un’affermazione, una constatazione, che nel suo stile lapidario, nella sua apparente semplicità, ci coinvolge in un vortice in cui vita e morte, natura e amore, anima e corpo, si alternano e si fondono. Questa è la magia della grande poesia di Josip Osti, di cui per fortuna restano al lettore italiano ben cinque libri, tutti tradotti dall’infaticabile e indimenticabile Jolka Milič, e anche le videoregistrazioni delle letture di alcune poesie – tra cui quelle qui analizzate – visibili in questo stesso sito web.
Giancarlo Cavallo