Diciotto anni fa, il 2 maggio 2002 a Pistoia ho consegnato alla poetessa Carmen Yáñez la locandina dello spettacolo “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare ” rappresentato al Teatro della Gioventù di Sarajevo. Il poster mi era stato spedito a Zagabria da Izet Sarajlić che mi pregava di consegnarlo a Carmen, moglie dell’autore Luis Sepúlveda. Izet non poteva venire a Pistoia perché tre settimane prima aveva avuto un infarto.
Il libro dal quale è stato tratto lo spettacolo sul gatto Zorba e la gabbianella Fortunata era stato considerato da Sepúlveda un romanzo per persone da otto a ottantotto anni. L’attore Nermin Tulić, nel ruolo del poeta, mi ha raccontato che dopo le prova generale sua figlia Emina di nove anni e il professore e scrittore sessantottenne Zdenko Lešić, marito della regista Kaća Dorić, piangevano.
Il giorno seguente 3 maggio apprendemmo che il giorno precedente Izet aveva lasciato questo mondo, qualche ora prima che Carmen avesse ricevuto da me la missiva per Luis Sepúlveda.
Diciotto anni dopo, il 16 aprile 2020, il vignettista e illustratore Riccardo Mazzoli mi ha inviato il disegno che accompagna questo testo. L’ha fatto poche ore dopo che Luis Sepúlveda aveva lasciato questo mondo, in un ospedale di Oviedo. Il volo di Luis verso il cielo lo osservano il gatto Zorba e la gabbianella Fortunata in lacrime. Izet Sarajlić auspicava l’istituzione di un sindacato che proteggesse i diritti e i sentimenti dei personaggi letterari. Lo stesso Sepùlveda sarebbe stato sicuramente d’accordo, e il disegno di Mazzoli potrebbe essere un esempio di come rendere tale unione più significativa di tante odierne associazioni letterarie.
Luis Sepúlveda è scomparso per gli effetti che il virus chiamato corona ha prodotto nel suo corpo. E’ stato uno dei primi infettati in Spagna, forse il primo nella provincia delle Asturie. Probabilmente lo aveva contratto durante un grande festival letterario di autori spagnoli e portoghesi nella città di Póvoa de Varzim, in Portogallo. Ora ci si potrebbe aspettare che il mostro virale si indebolisca avendo preso questa grande preda, un uomo sopravvissuto alle torture e alle prigioni del criminale Pinochet, ma se questo virus ‘opera’ davvero per quelli che vogliono governare il mondo da soli, Sepúlveda è stato un bottino ancora maggiore perché si opponeva alla loro distruzione della natura e delle sue leggi, combatteva per la giustizia e per il diritto alla vita degli indios, era amico degli umiliati e offesi, protettore dell’Amazzonia, della Patagonia, dei pesci nelle acque e degli uccelli nei monti. La morte di Sepúlveda mette in dubbio la possibilità che un virus dalla natura rapisca un tale protettore della natura.
Conobbi Luis Sepúlveda il 16 dicembre 2000, nella località di nome Aiello alla periferia di Salerno, dove si trovava la prima Casa della poesia. L’ho conosciuto grazie a Sergio Iagulli e Raffaella Marzano, che gestiscono e dirigono questa casa ormai da un quarto di secolo.
Sepúlveda venne a Casa della poesia con sua moglie Carmen Yáñez. Sapevamo che Luis avrebbe letto dai suoi libri di racconti, ma non sapevamo quello che avremmo saputo quella stessa sera: che avrebbe letto anche le poesie. Lui non ha mai detto di scrivere poesie, ma noi l’avevamo saputo da Carmen in un sussurro ‘sub rosa’ e aspettavamo con ansia di sentirne almeno una. La sala era gremita, era arrivata gente da Salerno e da Napoli, e tutti parteciparono alla prima lettura pubblica dei versi del famoso autore del romanzo “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”. Voglio proporre qui “La più bella storia d’amore”*, una delle poesie che Luis ha letto quella sera, scritta nel 1977 e dedicata a Carmen Yáñez chiamata affettuosamente Pelusa, soffice, lanuginosa.
LA PIÙ BELLA STORIA D’AMORE
A Pelusa
L’ultimo suono del tuo arrivederci,
mi disse che non sapevo nulla
e che era giunto
il tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, tra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
implorano la fame dell’udito.
Che le strade e la polvere
sono la ragione dei passi.
Che la strada più breve
fra due punti
è il cerchio che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un brano di Vivaldi.
Che i geni amabili
abitano le bottiglie del buon vino.
Con tutto questo già appreso
tornai a disfare l’eco del tuo arrivederci
e al suo posto palpitante scrivere
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio
non si finisce mai
di imparare e di dubitare.
E così, ancora una volta,
facilmente, così come nasce una rosa
o si morde la coda una stella fugace,
seppi che la mia opera era stata scritta
perché La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.
Dopo la lettura, per quasi due ore Luis era rimasto a firmare libri. Era rilassato, sorridente, loquace, sovrano di tutto il tempo di questo mondo.
Quello che è seguito alla lettura e alle dediche è già stato ricordato nei ricordi di alcuni testimoni, io lo riassumerò qui brevemente per i nostri lettori. Durante e dopo cena, noi, una quindicina di persone, assistemmo a uno spettacolo indimenticabile, del tutto spontaneo di storie, aneddoti e barzellette magiche e irripetibili.
Fino a notte fonda la Casa della poesia tremava dalle risate. Le battute sui personaggi come il Papa o Fidel Castro mai sentite prima producevano mancanza di bocche e di pance a causa delle risate dei presenti. Ognuno dava un proprio contributo, ma quelli di Luis erano i migliori. Si alzava e si sedeva, imitando il pinguino, poi anche qualche sovrano. Abbiamo dormito pochissimo quella notte, ma il giorno dopo mi sentivo talmente riposato, come se fossi tornato da una vacanza al mare e in montagna durata un mese. Da quella sera Luis Sepúlveda risiedeva nel mio cuore. E il sentimento è tale per cui, quando leggo uno dei suoi racconti, come “La cena con i poeti morti” oggi, non lo leggo, ma sento la sua voce che me lo legge. Quando nel 2007 mi trovavo a San Francisco al festival in onore di Jack Hirschman, arrivarono anche Carmen e Carlos Lenin, figlio suo e di Luis. Camminando in tre sul Golden Gate Bridge e parlando di Luis, Carmen mi disse che a Luis non piacevano molto le cravatte. Un forte soffio di vento del Pacifico non le fece finire la storia. In questi giorni il nostro comune amico Juan Vicente Piqueras, poeta e direttore dell’Istituto Cervantes ad Amman, mi ha raccontato al telefono che Luis, una volta che aveva mangiato un hamburger in compagnia di José Manuel Fajard, aveva preso la cravatta dell’amico e si è pulito la bocca dal ketchup. A questo aneddoto Juan ne ha aggiunto un altro raccontato da Mario Delgado Aparain, grande amico di Sepúlveda: una sera in un hotel madrileno Luis gli ha proposto di alzarsi il giorno dopo all’alba e fare insieme una passeggiata per le strade. Quando Aparain gli chiese ‘ma perché così presto?’, Sepúlveda rispose: “Per ascoltare il canto dei semafori”. Juanito mi ha raccontato ancora che un canale televisivo italiano ha diffuso una notizia che sicuramente sarebbe piaciuta a Luis: „E’ morto Luis Sepúlveda, autore del romanzo ‘Cent’anni di solitudine'”!
Questo, quello e tutto il resto, così si è chiuso il cerchio. Alla notizia della morte di Izet Sarajlić eravamo a Pistoia al festival Il cammino delle comete, all’hotel Leon Bianco, e ci siamo confortati a vicenda, anche Luis aveva chiamato Carmen da Gijón per confortarla, ma ora siamo lontani, rinchiusi nelle case e ci consoliamo mediante le tastiere. E Carmen non può nemmeno dare la sepoltura a Louis. Terrà l’urna con le sue ceneri nella casa a Gijón e quando i voli per il loro paese d’origine, il Cile saranno ripristinati, potrà adempiere la sua volontà di essere sepolto in Patagonia, terra che lui amava immensamente. In questi giorni ho sentito più volte Sergio e Raffaella, ho scritto anche a Carmen, ma non ho trovato una coperta per nascondermi e proteggermi da questa tristezza.
Sinan Gudžević
* NdR. Proponiamo qui la traduzione della poesia di Sepúlveda fatta da Raffaella Marzano proprio in quell’occasione.
Il disegno di copertina “L’ultimo volo di Sepúlveda” è di Riccardo Mazzoli, la foto dell’archivio di Casa della poesia.
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