Agli inizi degli anni ’90, la grande Etel Adnan, la più bella voce della diaspora araba, la Grande-Dame della letteratura mediorientale, la scrittrice più importante e innovativa della cultura araba-americana e una delle maggiori scrittrici del Secondo Novecento, iniziò la sua collaborazione e la sua amicizia con Raffaella Marzano e Sergio Iagulli (e poi con Multimedia Edizioni e con Casa della poesia). In occasione di una sua visita la straordinaria scrittrice franco-libanese-americana ebbe occasione di incontrare Mario Ranieri. Rimasta impressionata dall’opera del pittore salernitano, nato a Terzigno, scrisse nel 1993, questo testo che doveva far parte di un catalogo che non fu mai realizzato. In quest’opera di ricostruzione dei nostri legami con Etel Adnan, abbiamo tradotto quel testo e vogliamo offrirlo agli amici che la amano come noi.
Etel Adnan
Mario Ranieri: figlio del fuoco
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È stato un bambino nato su una terra incerta. Ha visto fiamme erompere da una montagna e fumi caldi avvolgere la sua casa. Ha imparato prima di ogni altro che il fuoco era dappertutto: sotto terra, nell’aria che respirava, nel cielo. Sapeva che nessuna cosa era sicura e che tutto poteva esplodere in qualsiasi momento. Ma sapeva anche che c’erano leggenda e mito nel suo paesaggio, che il fuoco che lo circondava era allo stesso tempo un fuoco spirituale, un fuoco rapido e leggero che non poteva aspettare il ritmo delle parole. Il mondo per lui era esplosivo, in maniera naturale, e ne dedusse che dunque la bellezza era esplosiva, che la verità era in un movimento di creazione e di distruzione. Quel bambino era destinato ad essere un pittore.
È nato sotto il segno di un vulcano che decora un paesaggio del Mediterraneo, in una casa ai piedi del Vesuvio, di fronte al mare. e che mare! È nato dunque tra due colori, il nero e il blu, fra due luci, quella del fuoco e quella del sole, fuoco lontano e potente che a volte illumina a tal punto che tutto ridiventa nero. È dunque venuto al mondo in un universo nero, ma in cui il nero non è il simbolo della morte e del lutto ma quello di un’energia saturante, di un fuoco attivo, di una danza della materia.
Mario Ranieri agisce nel nero, lavora a partire dal nero, fa emergere dal colore nero tutti gli altri colori. Ciò dà ai suoi quadri la forza della notte, di una notte-caos, notte primordiale. Comincia dal principio. Possiede qualche cosa dei titani del Mediterraneo, la loro forza, la loro generosità, il loro bisogno di creare.
Ho avuto l’occasione, indimenticabile, di fargli visita nel suo atelier nei pressi di Salerno. Mi piace conservare nella memoria l’immagine di questo atelier quasi immateriale, attraversato dalla luce, che si affaccia su una costa che discende fino al mare, da un lato, e dall’altro, su un giardino circondato da terreni incolti, una terra simile all’infanzia, perché è fatta per essere abitata da bambini e popolata dai loro giochi.
Ho guardato i grandi quadri e ho cercato di individuare in questo immenso lavoro qualche linea direttrice per orientare lo sguardo.
Molte delle sue opere sembrano organizzarsi intorno ad una linea d’orizzonte, quell’orizzonte che si vede dal suo balcone italiano. È un orizzonte verso il quale si sale, verso il quale si alzano energie, per calmarsi su una linea eterna e illusoria.
“Terre vesuviane” è il nome che Mario ha voluto per le sue tele. La terra. La terra mobile. Stranamente simile all’immagine della terra vista dalla luna, perché dalla luna è evidente che la terra è mossa da vertigini, percorsa da correnti, e che sono i movimenti che le danno le vertigini.
Mario dipinge sotto il segno dello sconvolgimento delle cose, riproduce i gesti delle forze della natura. Lacera, sconvolge, come fa il fuoco quando cola sul Vesuvio, ma sa anche, perché lo ha visto con i suoi occhi, che dopo il fuoco c’è il raffreddamento della lava, gli squarci. Dunque, sulle tele, la disorganizzazione diventa ordine, il fuoco si disperde in colori, i colori ne fuoriescono, gli appartengono per sempre.
Alcuni quadri sono veri e propri baratri. Ho sentito davanti a loro il bisogno di entrare nel loro mondo, nel loro segreto. Sono minacciosi, ma fanno venire voglia di conoscerli, di esplorarli, perché non fanno mai paura: posseggono l’innocenza della terra stessa, perché, io credo, con umiltà di vero artista, Ranieri non impone idee a questa natura che lo affascina e non gli fa paura. Al contrario. Ha con essa una familiarità che noi non abbiamo. Sembra dire, con i suoi quadri: guardate il mondo! Egli è fiero della bellezza di questo mondo.
Possiede allo stesso tempo una capacità di grafismo che in lui è assoluta: la scrittura lo ossessiona per una doppia ragione, mi sembra. Perché il fuoco quando cola è una scrittura sul suolo fumante e bruciato e perché per un artista “dire” è sempre “scrivere”, scrivere direttamente, senza formulare parole, scrivere con i segni, come la tempesta scrive un fulmine. Il mondo di Ranieri è percorso da fulmini, i fulmini di Zeus sulla sua tela.
Questi fulmini, questi grafismi, stabiliscono una lacerazione trionfante. Ranieri è il pittore della gioia, della forza, della vita. Questa gioia, questa forza, questa vita, si esprimono attraverso il gesto e il colore. Il suo gesto è così sicuro che non ha bisogno di preoccuparsi di problemi tecnici. Il suo corpo e la sua tela sono un tutt’uno e l’equilibrio naturale del primo si trasmette nell’equilibrio del secondo. Raramente ho visto un’opera che sia così vicina al corpo e allo spirito dell’artista che l’ha dipinta.
Ho cercato qua e là, ho frugato negli angoli, ho guardato a lungo questa o quella tela. Nei suoi quadri più recenti insiste ossessivamente la costa, la terra che corre verso il mare, le zone intermedie in cui l’una e l’altra si confondono. Allora, quella macchia rossa diventa fuoco che esce dall’acqua, come per miracolo, o un’onda rossa litiga con il resto del mare. Poco importa: il quadro danza davanti agli occhi. Un’altra tela laggiù, contro il muro, e gli elementi della pittura, l’olio e il bitume trasformano il quadro stesso in muro e gli strati di colore in grafiti selvaggi. Ci si dimentica di essere nell’atelier di Mario Ranieri, che lui è ancora là, che non è andato via. Quel che è andato via, quel che è scomparso, è ciò che abita un paesaggio, sono le basi della verità; e non restano nell’atelier (davanti a me) che delle tele trovate a caso che forse nessuno ha dipinto, delle verità della materia così “materiali”, così apparentemente “impersonali” come la stessa terra vesuviana. La mia visita è dunque divenuta un’illuminazione, uno di quei momenti privilegiati in cui l’arte sembra essa stessa, infine, essere nata non dall’uomo ma dalla natura.
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Sausalito, California 1993.
Traduzione: Raffaella Marzano