Credo sia doveroso, ma anche corroborante, in questi tempi così tragicamente segnati dall’odio, dalla violenza, dalle guerre, dal terrore diffuso, ricordare un grande poeta che a tutto questo si è opposto in nome dell’amore, pur essendo stato più volte colpito negli affetti più cari. Ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente e il piacere di conversare con Izet Sarajlić, posso aggiungere di aver avuto l’onore della sua amicizia, anche se la nostra frequentazione è stata molto limitata nel tempo (dalla sua prima venuta a Salerno nel 1997 fino alla sua inestimabile perdita nel maggio 2002). In occasione della prima edizione di Qualcuno ha suonato, nel 2001, scrissi una recensione che Izet commentò in una lettera con queste parole: “È poco, caro Giancarlo, dire che il tuo articolo su “Qualcuno …” è bellissimo. Ho letto tante recensioni, quella tua, dal tuo cuore, è più cara. Italia deve vergognarsi se non sarà pubblicata in qualche giornale!”. In realtà la recensione è rimasta confinata nell’ambito del sito di Casa della Poesia (http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/qualcuno-ha-suonato-cd-audio/anche-i-versi-sono-contenti-giancarlo-cavallo/recensioni) , anche se l’Italia, con buona pace del compianto Izet, ha ben altro di cui vergognarsi.
Vorrei provare in questa sede, trascorsi ormai così tanti anni (pur considerando che l’antologia è stata ristampata nel 2009, sempre da Multimedia con il supporto di un cd audio in cui l’ autore recita i suoi versi in lingua originale e un componimento, Cambio d’indirizzo, in italiano, nel quale ricorda Alfonso Gatto), a proporre una rilettura di questo poeta che tanto ci ha dato e tanto continua ad offrirci attraverso la sua poesia.
Non mi soffermerò sulla biografia, pur interessantissima, di questo poeta, rinviando il lettore al sito www.casadellapoesia.org dove potrà trovarne una abbastanza esauriente; tuttavia, alcuni aspetti saranno riflessi imprescindibilmente dalle opere che analizzeremo.
Direi innanzitutto che, sul piano diacronico, pur in presenza di una notevole omogeneità della poetica di uno scrittore che ha pubblicato oltre 25 libri in circa 50 anni, bisogna parlare almeno di due Sarajlić (ma Gudžević nella Postfazione al libro propende per tre), uno ante ed uno post guerra civile della ex Jugoslavia (1991-1995) – o, forse, uno ante ed uno post mortem dell’amata moglie Ida – a quest’ultimo fanno capo i tre libri più importanti della produzione finale del poeta bosniaco (Raccolta di guerra di Sarajevo, 1995; Il libro degli addii, 1996; Il 30 febbraio, 1999). Ricorderei, per consolidare questo spartiacque, almeno la Lettera a voce dalla Sarajevo assediata, che è la registrazione, effettuata nel febbraio 1994 durante una tregua dell’assedio di Sarajevo, da due giornalisti tedeschi, Marina e Andreas Achembach, in visita a casa di Izet Sarajlić, di una commovente lettera a voce indirizzata all’amico poeta Sinan Gudžević. Questa “intervista” diventa una drammatica testimonianza: sul progetto del “Libro degli addii”, sulla situazione intellettuale nella città assediata, sul modo di vivere in quella situazione estrema, sulla carestia, sulle famiglie divise, sull’amore che doveva, secondo lui, vincere sull’odio dei bombardamenti. Il poeta stila un bilancio controverso del suo rapporto con la letteratura mondiale, considerando che alcune opere nella tragedia della guerra hanno rappresentato per lui un’oasi di umanità e di forza per resistere. Infine, Sarajlić conclude interrogandosi sulla sorte di quei poeti che, come lui, non si sono schierati con le ideologie nazionaliste.
Ribadirei che, almeno nel primo Sarajlić, assistiamo ad una, se vogliamo sorprendente, compresenza di situazioni ed oggetti della vita quotidiana con riferimenti ad autori ed opere della grande letteratura, soprattutto europea, con una dichiarata passione per quella russa (Tolstòj, Pasternak, Čechov, Turgenev, Achmatova, Esénin, ecc.). Rileverei che, attraverso le sue poesie viene a costituirsi una “ideologia” antiprogressista, antiepica, ma soprattutto permeata da un idealismo umanistico europeo e schierata in difesa della poesia d’amore. Tuttavia questo non deve far pensare ad un conservatorismo o, peggio ancora, ad un atteggiamento reazionario. Tutt’altro: direi che Izet sia stato invece decisamente anticonformista e abbia pagato per questo motivo un prezzo in termini di isolamento da parte dell’apparato politico-culturale della ex Jugoslavia. Aggiungerei che questo poeta va incontro al pubblico confidenzialmente, a differenza di tanti altri che se ne allontanano con atteggiamenti di superiorità ieratica o elitaria. A tal proposito vorrei riportare quanto mirabilmente detto da Sinan Gudžević nella sua Postfazione a Qualcuno ha suonato (che a mio avviso, pur in presenza di numerosi interventi italiani su Sarajlić – alcuni dei quali leggibili in http://www.casadellapoesia.org/e-store/multimedia-edizioni/qualcuno-ha-suonato-cd-audio/recensioni – resta lo scritto che meglio di ogni altro ci restituisce il mondo del poeta di Sarajevo, insieme alla corrispondenza tra Sarajlić ed Erri De Luca raccolta in Lettere fraterne, Napoli 2007): “In un certo senso i versi di Izet diventano un’emancipazione della “realtà” nella poetica. Questa realizzazione e la concretizzazione materiale della lingua rendono i suoi versi comunicativi, comprensibili e semplici. Questa semplicità rende le poesie più facilmente memorizzabili e indimenticabili. Una volta lette, non si dimenticano più. Esse ricompaiono all’improvviso, a tavola, al volante, in cucina, in bettola. Esse rendono drammatici anche i motivi poeticamente noiosi come l’umanesimo e il pacifismo.” (178 – il numero in corsivo tra parentesi si riferisce, salvo diversa indicazione, a Qualcuno ha suonato, traduzione e cura di Sinan Gudžević e Raffaella Marzano, Multimedia, Baronissi, 2a edizione 2009)
Vorrei, per inciso, confermare quanto detto da Gudžević, attraverso una mia dolorosa esperienza personale: nei mesi successivi al decesso di mia moglie spesso mi sono ritornate in mente alcune delle struggenti poesie che Izet aveva dedicato all’amata moglie prima e dopo la sua morte, e mi è sembrato che nessuno meglio di lui avesse saputo esprimere quel groviglio di sentimenti (nostalgia, innamoramento, fedeltà, memoria, lutto, perdita di identità, ecc.) che questa penosa situazione esistenziale comporta.
Credo che ad illuminare ulteriormente le caratteristiche singolari di questo poeta contribuisca questa affermazione di Predrag Matvejevic, in una lettera indirizzata ad Izet: “Come vedi, ho tentato di imitare lo stile delle tue poesie, ma non va. Solo tu ci riesci bene.” Quello che l’intellettuale slavo tenta di imitare, nello specifico, è lo stile colloquiale unito all’uso frequente della citazione e perfino dell’autocitazione.
Ma, come è mio costume in questa rubrica, non vorrei limitarmi a delle affermazioni apodittiche, dunque proverei ad entrare nel merito leggendo qualcuna delle tante poesie antologizzate in Qualcuno ha suonato.
Credo che Nati nel Ventitré, fucilati nel Quarantadue (13-14) del 1953 (suffragato anche dal ricordo di quanto Izet tenesse a questa poesia, letta pubblicamente più volte e citata nelle interviste) sia un testo imprescindibile per la conoscenza del nostro poeta:
Questa sera amiamo per loro.
Erano 28.
Erano cinquemila e 28.
Ce n’erano più di quanto amore ci sia mai stato in una poesia.
Ora sarebbero stati padri.
Ora non ci sono più.
Noi, che sui binari di un secolo abbiamo condiviso
le solitudini di tutti i Robinson del mondo,
noi, che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno,
mia piccola grande,
questa sera amiamo per loro.
E non domandare se sarebbero potuti tornare.
E non domandare se sarebbe stato possibile tornare indietro mentre per l’ultima volta,
rosso come il comunismo, bruciava l’orizzonte dei loro desideri.
Sui loro anni che non hanno conosciuto l’amore, coperto di ferite e dritto,
è passato il futuro dell’amore.
Nessun segreto di erba appiattita.
Nessun segreto di camicette sbottonate.
Nessun segreto di mano stremata e giglio caduto.
Ci sono le notti,
c’è il filo di ferro,
c’è il cielo che si guarda
per l’ultima volta,
ci sono i treni che tornavano vuoti e tetri,
ci sono i treni e i papaveri,
e con essi, con i tristi papaveri
in un’estate da soldati,
con una mirabile voglia d’imitarli,
gareggia il loro sangue.
E intanto sui Kalemegdan e sulle Prospettive Nevskij,
sui Boulevards del Sud e i Quais degli Addii,
sui Campi dei Fiori e sui Ponti Mirabeau,
meravigliose anche quando non baciano,
aspettano le Anne, le Zoje, le Jeanettes.
Aspettano il ritorno dei soldati.
Se non tornano,
daranno ad altri le loro spalle bianche mai abbracciate.
Non sono tornati.
Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati.
Sui loro occhi fucilati,
sulle loro Marsigliesi mai cantate fino in fondo.
Sulle loro illusioni crivellate.
Ora sarebbero padri.
Ora non ci sono più.
All’adunata dell’amore aspettano ormai tombe.
Mia piccola grande,
questa sera amiamo per loro.
Quasi dispiace commentare una poesia così intensa da togliere il fiato! Ma credo sia giusto provare a capire qualcosa in più spingendosi oltre il pur ineludibile portato emozionale.
Dal punto di vista formale ci troviamo di fronte a versi liberi, organizzati in quattro strofe asimmetriche. Il ritmo è scandito dalle iterazioni, quasi sempre anafore (Erano, Erano; Ora, Ora; ecc.). Ben quattro versi dell’ultima strofa sono una ripresa, direi un rilancio, dalla prima (Ora sarebbero padri/ Ora non ci sono più/(…)/ Mia piccola grande,/ questa sera amiamo per loro).
Sembra davvero singolare che un testo il cui titolo è inequivocabilmente tragico si presenti al lettore con un incipit decisamente spiazzante “Questa sera amiamo per loro”, verso che si ripete per ben tre volte ed apre e chiude la poesia, quasi a formare un cerchio chiuso. Evidentemente il rapporto dialettico tra la ferocia della guerra (in questo caso, come si deduce dal titolo, si parla della seconda guerra mondiale e dell’occupazione nazifascista della Jugoslavia), l’odio che ha portato all’uccisione di tutti quei ragazzi non ancora ventenni (tra cui Ešo il fratello maggiore del poeta), e l’amore nelle sue implicazioni sentimentali ed erotiche è il perno su cui ruota l’intera poesia: ci viene proposta una sorta di parallelismo tra noi (la coppia Izet-Ida “mia piccola grande”) e loro (i giovani fucilati), quasi un’impossibile risarcimento per sostituzione.
Ecco come Sarajlić racconta, nell’intervista rilasciata ad Umberto Mangani nel 2001 (Io e il mio popolo, alla periferia del mondo, Fucine Mute, 2001), la nascita di questa poesia: “Nel 1952 sono stato con la mia ragazza e futura moglie nella bellissima isola di Loput vicino a Dubrovnik. Ero molto innamorato, ma ho avuto vergogna per noi due che potevamo amarci mentre mio fratello che aveva diciotto anni non ha mai baciato nessuna ragazza prima di essere ucciso. Allora scrissi una poesia (…)”. Una semplicità disarmante per una poesia che racchiude nei suoi 47 versi una incredibile molteplicità di elementi, fusi tra loro con grande maestria. Infatti, oltre alla tragica vicenda che dà il titolo alla poesia, ecco che con un semplice richiamo a Defoe vengono descritte, anzi condivise, “le solitudini di tutti i Robinson del mondo”, e poi la guerra ed il pacifismo di chi non ha “ucciso nessuno”, il comunismo e il desiderio inappagato, i treni delle deportazioni ed i papaveri con cui gareggia il sangue, ci sono le grandi città (Belgrado, Mosca, Roma, Parigi), ci sono gli ideali (Marsigliesi) e le “illusioni”, c’è la proiezione sul futuro mancato e l’amoroso risarcimento del presente.
Della ricezione di questa poesia ci parla ancora l’autore nella citata intervista: “In Jugoslavia, influenzata da una forte corrente epica, antifascista, questa poesia rivoluzionaria è stata la prima ad entrare nelle case della gente… e la gente si è riconosciuta in questa poesia. Ancora oggi non si sa se questa è poesia rivoluzionaria o poesia d’amore.”
Magnifiche figure retoriche (“occhi fucilati”, “illusioni crivellate”) collegano la penultima strofa, forse la più tragica, alla prima (“cielo che si guarda /per l’ultima volta”). Ma la strofa finale alterna vertiginosamente nei primi tre versi eros e thanatos, per concludere con il trionfo dell’amore.
Questa semplice lettura di una sola poesia dimostra che l’opera di Sarajlić meriterebbe un trattato che forse, nonostante sia stato uno dei più amati e rinomati poeti jugoslavi, mai nessuno scriverà per le ragioni esposte da Gudžević nella citata postfazione: “Perciò, questo è il libro di un poeta famoso, il cui Paese quasi non esiste e la cui lingua non ha quasi un nome. I versi di Izet non si trovano nei manuali scolastici dell’odierna Bosnia ed Erzegovina. Le ortodossie scioviniste hanno creato tre sistemi scolastici in quel Paese: quello serbo, quello croato e quello bosniaco, o per meglio dire: quello cristiano ortodosso, quello cristiano cattolico e quello islamico. I nazionalisti serbi e croati rifiutano Izet, perché egli per loro risulta essere un musulmano, e i musulmani lo rifiutano perché non ha mai appoggiato i nazionalisti islamici. Per cui egli si trova oggi in una specie di purgatorio letterario bosniaco e serbocroato.”(177).
Numerose le poesie che ho sentito magistralmente recitare da Izet (Qualcuno ha suonato 46-47, Non abbiate fretta ragazzi 57, Cerco una strada per il mio nome 73, Soggiorno a Istanbul 77, Elenka Votipkova 108, Un’altra volta saprei 113, Sorelle 146, e come dimenticare la sublime invenzione del 30 febbraio 72) e tutte meriterebbero una rilettura, un’interpretazione, un commento, ma non è possibile dilungarsi tanto in questa sede.
Propongo dunque, in quanto emblematica della seconda stagione del poeta, quella conseguente alla guerra civile dell’ex Jugoslavia, Ultimo tango a Sarajevo (164) del 1994:
Il novantaquattro, 8 marzo.
La Sarajevo degli amanti non si arrende.
Sul tavolo l’invito per il matinè di danza allo Sloga.
Naturalmente ci andiamo!
I miei pantaloni sono un po’ logori,
e la tua gonna non è proprio da Via Veneto.
Ma noi non siamo a Roma,
noi siamo in guerra.
Arriva anche Jovan Divjak. Dagli stivali si vede
che viene direttamente dalla prima linea.
Quando ti chiede un ballo sembri un po’ confusa.
Per la prima volta ballerai con un generale.
Il generale non immagina l’onore che ti ha fatto,
ma, a dire il vero, anche tu al generale.
Ha ballato con la donna più celebrata di Sarajevo.
Ma questo tango – questo è solo nostro!
Per la stanchezza ci gira un po’ la testa.
Mia cara, è passata anche la nostra magnifica vita.
Piangi, piangi pure, non siamo in Via Veneto,
e forse questo è il nostro ultimo ballo.
Il titolo non può non farci ricordare il film di Bernardo Bertolucci Ultimo tango a Parigi del 1972 (che, peraltro, non è l’unico riferimento cinematografico: si pensi almeno a Silvana Mangano in Riso amaro celebrata a pag. 102), a cui questo testo può essere accomunato solo da una generica presenza di amore e morte, ma il richiamo suona in qualche modo sarcastico vista l’enorme differenza di contesto ed etica. Passando al testo, si rileva che in questo caso i versi liberi sono organizzati in cinque quartine, di cui solo la prima presenta un’anomalia nell’ultimo verso a scalino (anomalia che enfatizza la portata dell’interiezione in esso contenuta). I primi due versi precisano il tempo ed il luogo in cui avviene la vicenda narrata nella poesia. Siamo dunque nella Sarajevo assediata ormai da lungo tempo (l’inizio dell’assedio risale infatti all’aprile del 1992). Ma immediatamente la città viene connotata in maniera affatto diversa da quella che ci si attenderebbe: c’è, incredibilmente, una città “degli amanti” che “non si arrende” e addirittura va a ballare! Anche la seconda strofa ci sorprende con i dettagli degli abiti dei protagonisti (ancora una volta la coppia Izet-Ida) ed un parallelismo quasi ossimorico tra la Roma mondana rappresentata per antonomasia da via Veneto (quella della Dolce vita felliniana degli anni ’60) e la Sarajevo in guerra. La terza strofa ci propone una variazione, un secondo tema, con l’ingresso del generale Divjak (straordinario difensore della città multietnica e multireligiosa – lui di nazionalità serba – dall’assedio dei serbi), sempre sottolineando attraverso un dettaglio, gli stivali, il contrasto tra l’anormalità dilagante della guerra che viene ad insidiare quel residuo di normalità perduta costituito dalla danza. La sorpresa e la confusione generati nella donna dall’invito vengono in qualche modo ribaltati nella quarta strofa, attraverso un’indiretta esaltazione del ruolo della (propria) poesia, strofa che si conclude, quasi bruscamente con un’avversativa (“Ma questo”), per ritornare alla situazione precedente, al tema principale, della coppia inscindibile dei protagonisti. Infine, nell’ultima quartina, si alternano rilievi contingenti (“stanchezza”, “gira un po’ la testa”) con considerazioni esistenziali (“è passata la nostra vita”), un rimando alla seconda strofa (“non siamo in Via Veneto”) che fa ritornare l’intera frase “musicale” pre-Divjak (coppia malandata/Sarajevo assediata vs vita mondana/Roma, via Veneto) e l’amaro presagio del verso conclusivo (“forse questo è il nostro ultimo ballo”). Aggiungerei che si può individuare una specularità tra la coppia di versi iniziali e quella finale, poiché nella prima si apre con il dato temporale (“Il novantaquattro” ecc.) per passare a quello spaziale (Sarajevo), mentre nella seconda è il dato spaziale al penultimo verso (“Via Veneto”) a cui segue quello temporale (“ultimo”). Il piccolo miracolo è compiuto, in soli venti icastici versi: sono qui, vivi davanti ai nostri occhi, l’anziana coppia coi vestiti stropicciati, il generale che danza con gli stivali, la città stremata che non si arrende e cerca di salvaguardare un brandello di normalità, l’incertezza di un futuro incombente con le sue catastrofi annunciate.
Questa meravigliosa poesia mi dà anche l’occasione di rilevare come l’opera di Sarajlić sia votata alla celebrazione (con l’esclusione forse dei suoi testi più ironici o decisamente sarcastici); infatti, oltre al libro pubblicato nel 1988 intitolato Slavim (Celebro) che contiene una serie che inizia ogni poesia con “Celebro …” (alcuni esempi alle pp. 102-104), possiamo dire che quasi tutte le poesie sono dedicate (e quindi celebrano qualcuno o qualcosa) in tre diversi modi: o attraverso una vera e propria dedica (a Mihail Dudin, 22, alla memoria di Nazim Hikmet, 23, ecc.) o includendo la dedica nel titolo (Alla memoria di Cedomir Minderovic, 37, Per i miei cari Bajevic, 82, ecc.), oppure includendola nel testo stesso, come nel caso dell’Ultimo tango.
E qual è il rito che si celebra in questo modo? È presto detto: il rito dell’amicizia (24 occorrenze) e dell’amore (80 occorrenze). Ecco dunque che attraverso questa celebrazione la donna amata, la figlia Tamara, e i tanti amici diventano “celebri”, vengono sottratti all’anonimato per diventare letteratura; ma anche il pubblico (Le ragazze che ieri si affollavano alle mie serate letterarie, 28, Non abbiate fretta, ragazzi, 57, Ragazzi, 59 ecc.) i lettori, entrano in questo meccanismo letterario e vengono direttamente coinvolti e in una certa misura celebrati.
Un apposito capitolo meriterebbe il ruolo della città di Sarajevo (29 ricorrenze) all’interno di questa celebrazione: ma, oltre ai brevi cenni sinora dedicati a questa che è forse l’unica rivale della donna amata, mi limiterò a rilevare un ossimorico neologismo in grado, a mio parere, di mettere in luce il rapporto specialissimo tra l’uomo e la sua città: “megalopolina”. Questo è infatti il termine che viene coniato nella poesia Jekovac (33) del 1966, preceduto, nelle due occorrenze, rispettivamente da due diversi aggettivi, “silenziosa” e “crudele”; tuttavia, in entrambi i casi, i sintagmi sono preceduti dal possessivo “nostra”, quasi a sancire l’indissolubilità della coppia nel suo luogo di appartenenza, questa polis affettuosamente vista allo stesso tempo come grande (mega) e piccola (ina), così come abbiamo visto definire la futura moglie in Nati nel Ventitré….
Caratteristico della poesia di Sarajlić è anche un uso “estremo” dell’autocitazione che si trova, ad esempio, in due degli addii: in Addio alle sorelle (155-156), incluso ne Il libro degli addii del 1996, vengono poste in posizione di dedica tre strofe di una poesia contenuta nella raccolta Addio all’umanesimo umanistico europeo del 1989; in Addio al Tram numero 6 (157-160) viene citata nel corpo della poesia l’intera Cambio di indirizzo., scritta nella seconda metà degli anni ’70 in memoria di Alfonso Gatto.
A questo punto bisognerebbe evidenziare il particolare rapporto che legava Izet all’Italia, come si è potuto intuire da alcuni precedenti accenni: mi limiterò a dire che, nonostante avesse avuto un fratello fucilato dai fascisti italiani, il poeta nutriva per il nostro paese un amore nato nell’adolescenza attraverso le canzoni apprese dai soldati italiani e consolidato dalle relazioni letterarie sue e della sorella Nina, traduttrice dall’italiano di Rodari, Morante ed altri.
Vorrei anche sottolineare quanto detto da Francesco Napoli nel suo articolo Izet Sarajlić, il cantore di Sarajevo (in Moby Dick del 23/05/2009): “Singolare poi come dia alla poesia sembianze e sentimenti umani («a questa mia poesia/ si rizzano i capelli », «le mie poesie resteranno a vagabondare in questa città») fino a esser certo che «anche i versi sono contenti/ Quando la gente si incontra».” Aggiungerei solo un titolo che conferma palesemente questa asserzione: Piove. La mia poesia ottimista è andata a passeggio(58).
Ma forse ciò che rende davvero unico lo stile di questo autore è la capacità di includere nella poesia la vita quotidiana, vivificando in tal modo l’intera opera, come teorizzato in questi suoi versi del 1988: “Non appena la vita irrompe nella poesia, / i versi, anche senza l’intervento dell’autore, / diventano poesia.” (Da qualche tempo, 114).
Possiamo dunque affermare che ci troviamo senz’altro di fronte ad una scrittura per nulla conservatrice, ricca di innovazioni assolutamente originali, trasgressive rispetto ai canoni correnti, come si riscontra solo nei grandi poeti. D’altronde lo stesso Sarajlić afferma – in un’intervista rilasciata a Jasmina Sopova apparsa su “Le Courier de l’UNESCO” dell’aprile 1998, pagg. 48-50 – che “Quando ero giovane, gli scrittori avevano per nome Neruda, Sartre, Malraux, Camus, Tuwim, Frost, Ungaretti… Vivere in questo mondo non era soltanto un piacere, ma anche una responsabilità: bisognava superarsi. Immaginate, in una rivista, i vostri versi a fianco di quelli di un Neruda! Non si aveva il diritto di essere mediocri.”. Direi che queste parole dovrebbero suonare di monito per tutti noi.
Un’ultima breve poesia, Quei due abbracciati (171), scritta nel 2000, per concludere questo modesto tributo all’uomo ed al poeta che si è fatto vessillifero dell’amore contro ogni moda, contro ogni ideologia:
Quei due abbracciati sulla riva del Reno a Gothlieben
potevamo essere anche tu ed io,
ma noi due non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.
Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia.
Pur nella sua struggente essenzialità, anche questa poesia contiene una serie di elementi che abbiamo rilevato già in quelle analizzate in precedenza. Ancora una volta abbiamo un preciso riferimento spaziale, nel primo verso (la “riva del Reno”). Abbiamo, nel secondo verso, le due persone, “tu ed io”, che si fondono nel “noi” del verso successivo. L’esortazione dell’Ultimo tango (“piangi, piangi pure”) si ripropone in forma di invito (“Vieni, passeggiamo”) confermando la tendenza a privilegiare l’interlocuzione dell’io poetico con la donna amata (la “mia piccola grande” di Nati nel Ventitré). Ma quello che colpisce è come ai primi quattro versi descrittivi di una situazione fisica e di una esistenziale fra di loro contrapposte (possibile/impossibile), e ancora una volta chiusi all’interno di un cerchio iterativo (“abbracciati”, “riva”/”riva”, “abbracciati”), succeda una chiusa a sorpresa, un colpo di scena, in cui l’impossibile della realtà fisica diventa possibile nella realtà fittizia della poesia. Anche un uomo devastato dal dolore può generare il miracolo d’un amore immortale! Fedele fino in fondo a se stesso ed alla sua poetica, Sarajlić riesce a superare gli orrori e le tragedie individuali e collettive donando all’uomo (Izet o il lettore che in lui si immedesima attraverso la compassione, etimologicamente intesa) l’unico risarcimento possibile, quello della poesia. Saluto, letteralmente con le lagrime agli occhi e con infinita gratitudine, questo indimenticabile maestro.