This pen’s all I have of magic wand.
Tony Harrison, V., p. 13
Scrivere di Tony Harrison, considerato il valore e la vastità dell’opera del poeta inglese, rischia di essere per me un atto estremamente presuntuoso e temerario. Tuttavia altrettanto emendabile sarebbe non scrivere di questo poeta così caro e vicino alla Casa della poesia e di conseguenza anche a me.
Rimasi talmente affascinato dalle sue poesie – trovandomi in buona compagnia, visto che The School of Eloquence aveva venduto in Inghilterra oltre 500.000 copie, esito straordinario per un libro di poesia – pubblicate per la prima volta in italiano nella “bianca” Collezione di poesia Einaudi (T. Harrison, V. e altre poesie, a cura di M. Bacigalupo, Torino 1996 – in seguito per brevità V.), che quasi non mi sembrava vero di poterlo ascoltare ed avvicinare (con soggezione) nel corso dell’edizione del settembre 2012 degli “Incontri internazionali di poesia di Sarajevo”. Ma il successivo recente incontro – dovuto alla sua partecipazione al Napoli Teatro Festival 2017 – e susseguente soggiorno nella Casa di Baronissi mi ha consentito di sentirlo molto più vicino, di apprezzarne, oltre l’indiscussa cultura, anche la grande simpatia (sua e della compagna, l’attrice Sian Rebecca Thomas) e umana disponibilità (qualità non sempre presenti in coloro che hanno raggiunto il successo).
Metterò dunque alla prova la limitatezza dei miei mezzi, sperando di poter offrire al lettore di questa rubrica un efficace invito alla lettura del poeta di Leeds, soprattutto attraverso una serie di rimandi ad altri autori (soprattutto Massimo Bacigalupo e Giovanni Greco, benemeriti traduttori e curatori delle raccolte pubblicate nel nostro paese) che hanno parlato della sua poesia.
Come al solito non mi addentrerò nella vicenda biografica di Harrison (salvo che tale esigenza non sia dettata dal testo preso in esame), rinviando alla cospicua “Nota biobliografica” presente nel citato V. (pp. XV-XXII) ed alla recentissima “Nota biobliografica” pubblicata a corredo dell’articolo di Bacigalupo “Tony Harrison. Sotto l’ombra del Parnaso” nel n. 328 Luglio/Agosto 2017 della rivista Poesia (Fondazione di Poesia Onlus, Milano, pp. 4-5) che ne costituisce il necessario aggiornamento.
Prenderei dunque le mosse da un articolo di Rossana Valenti relativo al bimillenario ovidiano in cui, tra l’altro, si dice: “Proprio questo rapporto ‘personale’, libero da mediazioni, costituisce l’aspetto a mio parere più interessante della ricezione moderna della poesia antica: la cultura classica ha raggiunto un profilo elevato nella poesia contemporanea, mentre il numero di lettori che oggi è in grado di leggere in originale le opere greche e latine è drasticamente diminuito. Se da un lato le discipline classiche sono state spinte ai margini della moderna vita intellettuale, dall’altro la classicità ha guadagnato un’attenzione diffusa e profonda, grazie alla maggiore accessibilità di testi e opere attraverso le traduzioni. I più grandi poeti contemporanei legati alla tradizione del classico provengono, in grandissima parte, da zone periferiche del mondo culturale, nelle quali il latino ha da tempo perso la centralità sul piano della formazione, e il canone degli autori da leggere non ha più al suo vertice i poeti classici: ma proprio la «sconsacrazione» di grandi opere poetiche, nel senso della fine della loro centralità culturale come testi canonici e immutabili, in genere conosciuti e letti nelle loro lingue originali, permette ai poeti moderni di creare nuove opere ‘classiche’ usando materiali classici e soprattutto attivando un processo di identificazione personale con i greci e i latini, perché trovano in loro temi politici e sociali che sentono coerenti e vicini a quelli emergenti nei loro paesi d’origine. Si volgono alla tradizione classica, quindi, non in spirito di omaggio, ma con un atteggiamento di serena, limpida appropriazione.” (R.Valenti, “Dialogo postmoderno con l’esule linguistico”, in Il Manifesto/ Alias domenica, Edizione del 9 luglio 2017 pp. 6-7).
Il lettore vorrà perdonare questa lunga citazione, ma essa è funzionale all’utilizzo di alcuni argomenti sopra esposti come una sorta di indice per una verifica sui testi di Harrison.
– Uso di materiali classici
L’articolo citato fa esplicito riferimento a Derek Walcott e Josif Brodskij, ma ritengo che si possa includere a giusto titolo anche Tony Harrison – diplomatosi in linguistica con una tesi di dottorato sulle traduzioni in versi dell’Eneide – il cui rapporto con i classici rappresenta un asse portante di tutta la sua attività letteraria, come possiamo dedurre sin da una delle prime quartine di V. (1985) una tra le più famose opere dell’autore inglese:
If buried ashes saw then I’d survey
the places I learned Latin, and learned Greek,
and left, the ground where Leeds United play
but disappoint their fans week after week
[Se le ceneri vedono, allora potrei contemplare/ i posti dove imparai il latino e il greco/ e che abbandonai, il campo dove il Leeds United gioca/ ma delude i tifosi tutte le settimane, – V. cit. pp. 4-5, traduzione di M. Bacigalupo].
Rapporto che permane lungo tutto l’arco di attività del poeta inglese (come testimoniano anche molti titoli Catullo da cortina, In coda per Caronte, Diana & Atteone, Afrodite del mar Nero, ecc.) , ribadito in maniera pervasiva, anche nel recente Polygons (2015), in cui l’amata Delfi e tanti autori greci e latini occupano uno spazio preminente. Da questo poemetto dedicato, tra l’altro, alla memoria di Seamus Heaney, prendiamo uno dei molti possibili esempi:
From the blaze of noon, like now, on soon-waded ooze,
from those elements, those opponents embracing,
this discors concordia, says Ovid, came life,
quoting Empedocles who leaped into Etna,
the volcano I read poems on some ten years ago,
a great venue like Vesuvio I’ve read under twice,
and both with great vineyards from ancient extinction.
Both matched by Parnassus with Delphi beneath,
where I’ve read my poems often and directed my plays.
[Dallo splendore di un mezzogiorno come questo, sul viscido,/ da questi elementi, avversari abbracciati,/ concordia discors, è venuta la vita, dice Ovidio,/ citando Empedocle che si gettò nell’Etna,/ il vulcano su cui dieci anni fa lessi poesie,/ luogo ideale come il Vesuvio sotto cui ho letto due volte,/ entrambi con vigneti rigogliosi per le antiche eruzioni,/ entrambi eguagliati dal Parnaso che sovrasta Delfi,/ dove ho letto e diretto poesie e lavori teatrali. – Polygons in Poesia n. 328, cit., pag. 7, traduzione di M. Bacigalupo].
Ma forse, anche solo valendosi di queste brevi citazioni, possiamo dedurre che è soprattutto nelle scelte formali che l’arte poetica di Harrison fa uso di materiali classici: la preferenza per le forme chiuse, quasi sempre con rima; la riscoperta del poema narrativo; l’uso di forme dialogiche tipiche del teatro classico (“… i sonetti di The School of Eloquence […] sono dialogici nella forma oltre che dialettici nel tema.”, M. Bacigalupo, Prefazione, in V. cit. pag. XI); “Nei pezzi teatrali[…] e di solito nelle poesie più pubbliche (come quelle «dalla Bosnia») si vale del battito martellante del distico a rima baciata. La misura del verso è per lo più la pentapodia tradizionale, ma in alcuni casi Harrison tira la briglia usando le più brevi tetrapodie […].” (M. Bacigalupo, Il teatrante in trincea, in T. Harrison, In coda per Caronte, Torino 2003, p. VIII – in seguito per brevità solo Caronte).
Per inciso segnalo che il lettore italiano può avere un saggio dell’opera teatrale di Harrison attraverso il brano Faustina tratto da The Kaisers of Carnuntum riportato in Caronte pp. 144-151, l’estratto da I Segugi di Ossirinco in Vuoti, Torino 2008 pp. 141-183, o la pubblicazione integrale de I Segugi di Ossirinco in Il Caffè Illustrato dell’ottobre 2005.
– Appropriazione dei classici
Ma continuiamo per ora a seguire la traccia individuata attraverso la Valenti: l’ “appropriazione” dei classici da parte del nostro autore, di cui le citazioni precedenti costituiscono un primo esempio, è ulteriormente confermata dalla traduzione di Marziale in gergo americano (U.S. Martial, 1981), dell’ Orestea (1981, premio europeo per la traduzione 1983), dal rifacimento de I segugi di Sofocle (The Trachers of Oxyrhynchus, prima esecuzione 1988), al punto da indurre il critico Bruce Woodcoock a parlare di “classicismo vandalico”. Un’ulteriore conferma in queste affermazioni del poeta: “Cerco di occupare le forme classiche, non mi faccio schiacciare: prendo le forme classiche e con queste leggo la contemporaneità.” (Intervista di Tommaso Giartosio a Tony Harrison, trasmissione “Fahrenheit” del 21 giugno 2016, RAI Radio 3).
Dice Giovanni Greco che “Biologicamente , Tony Harrison è traduttore, la sua parola come il suo ritmo, la sua sintassi come la sua immancabile rima sono sempre citazione, allusione, riuso: (…)”(G. Greco, Tony Harrison: la poesia come tensione totalizzante, in T. Harrison, Afrodite del mar Nero e altre nuove poesie”, Novara 2014, pag. 7 – in seguito per brevità solo Afrodite). Ma, come ci dice Gian Biagio Conte, “Perché entri in funzione il meccanismo attivo dell’arte allusiva, il poeta deve chiedere ed ottenere la collaborazione del lettore.(…) L’allusione (…) si configurerà come desiderio di risvegliare una vibrazione all’unisono tra la memoria del poeta e quella del suo lettore in rapporto ad una situazione poetica cara ad entrambi.” (G.B. Conte, Memoria dei poeti e sistema letterario, Torino 1974, p. 10). Ancora Conte aggiunge: “(…) si allude a un momento o a una forma conosciuti, non solo per recuperarli armonizzando la loro risonanza ad un nuovo contesto, ma anche per superarli in un rapporto fatto di opposizione o di differenziazione, o almeno variando.” (Conte, cit., p. 11).
Direi dunque che nella poesia di Harrison si verifica una compresenza simultanea della forma classica e dell’allusione a testi e poeti dell’antichità e del loro superamento attraverso un’ibridazione possente con elementi della realtà contemporanea (come ad es. nella sopra citata quartina da V. in cui l’apprendimento del latino e del greco viene accostato allo stadio della deludente squadra del Leeds).
Ancora a proposito di appropriazione di un classico (francese stavolta) segnalerei questa osservazione emblematica di Greco: “[…] la “traduzione in inglese del Misanthrope di Molière da parte di Harrison ha avuto un tale successo internazionale che è stata ritradotta in francese.” (G. Greco, cit. , Novara 2014, nota 2 pag. 10)
– Temi politici e sociali
Che Harrison abbia una speciale sensibilità per queste tematiche lo si capisce già dalla citazione in esergo di V. “Mio padre legge ancora il dizionario tutti i giorni. Dice che la tua vita dipende dalla capacità di padroneggiare le parole. – ARTHUR SCARGILL, «Sunday Times» , 10 gennaio 1982” (V. cit. p. 3 non numerata). Va ricordato che Scargill era il presidente del sindacato dei minatori che in quegli anni condusse un lungo sciopero contro il governo di Margaret Tatcher. Oltre alle lotte dei minatori, in V. possiamo facilmente riscontrare passaggi sulla trasformazione urbana, sulla condizione di emarginazione degli anziani, sul disagio giovanile soprattutto delle classi più povere: “nelle quartine di Harrison (…) si dà corpo allo scontro tra le classi sociali, tra i sessi, tra individuo e storia. È il tentativo di dare un senso alla nostra epoca attraverso le sue contraddizioni, la ricerca di una riflessione etica che non sia moralistica, l’impegno di una poesia che torni a essere pulsante nell’attualità.” (Controcopertina di V.). Ad esempio:
class v. class as bitter as before,
the unending violence of US and THEM,
personified in 1984
by Coal Board MacGregor and the NUM,
[classe contro classe con il risentimento di prima,/la violenza senza fine di NOI e LORO,/ personificata nel 1984,/ da MacGregor dei padroni del carbone e l’Unione Minatori, – V. cit. pp. 8-9, traduzione di M. Bacigalupo].
Si può facilmente riscontrare anche un’attenzione ad aspetti “ecologici” che caratterizzano la nostra epoca: l’estinzione di alcune specie animali (ad esempio Art & Extinction è il titolo di una serie di poesie antologizzate in T. Harrison, Vuoti, Torino 2008 pp. 58-75) ed il cambiamento climatico (ad esempio Fig on the Tyne in Vuoti, cit., pp. 78-89) si intrecciano spesso con le tematiche principali del poeta oggi residente a Newcastle-upon-Tyne.
In campo politico Harrison prende posizione in maniera decisa: contro Blair e Bush responsabili della guerra in Iraq, contro la monarchia (ad es.: Laureate’s Block in Caronte, cit. p.100-109), mantenendo un legame con la working class da cui proviene, come abbiamo visto tra l’altro schierandosi dalla parte dei minatori nella lotta che li vide soccombere al pugno di ferro della Tatcher.
Va evidenziato l’uso straniante della poesia nelle “corrispondenze” da teatri di guerra, che vennero pubblicate sul Guardian non nella pagina della cultura ma in quelle della cronaca, se non addirittura in prima pagina. Prendiamo ad esempio questa dalla Bosnia, The Bright Lights of Sarajevo (Le luci chiare di Sarajevo):
After the hours that Sarajevans pass
queuing with empty canisters of gas
to get the refills they wheel home in prams,
or queuing for the precious meagre grams
of bread they’re rationed to each day,
and often dodging snipers on the way,
or struggling up sometimes eleven flights
of stairs with water, then you’d think the nights
of Sarajevo would be totally devoid
of people walking streets Serb shells destroyed,
but tonight in Sarajevo that’s just not the case –
The young go walking at a stroller’s pace,
black shapes impossible to mark
as Muslim, Serb or Croat in such dark,
in unlit streets you can’t distinguish who
calls bread hjleb or hleb or calls it kruh.
All take the evening air with stroller’s stride,
no torches guide them but they don’t collide
except as one of the flirtatious ploys
when a girl’s dark shape is fancied by some boy’s.
Then the tender radar of the tone of voice
shows by its signals she approves his choice.
Then match or lighter to a cigarette
to check in her eyes if he’s made progress yet.
And I see a pair who’ve certainly progressed
beyond the tone of voice and match flare test
and he’s about, I think, to take her hand
and lead her away from where they stand
on two shell splash scars, where in ‘92
Serb mortars massacred the breadshop queue
and blood-dunked crusts of shredded bread
lay on the pavement with the broken dead.
And at their feet in holes made by the mortar
that caused the massacre, now full of water
from the rain that’s poured down half the day,
though now even the smallest clouds have cleared away,
leaving the Sarajevo star-filled evening sky
ideally bright and clear for bomber’s eye,
in those two rain-full shell-holes the boy sees
fragments of the splintered Pleiades,
sprinkled on those death-deep, death-dark wells
splashed on the pavement by Serb mortar shells.
The dark boy shape leads dark girl shape away
to share one coffee in a candlelit café
until the curfew, and he holds her hand
behind AID flour sacks refilled with sand.
Sarajevo, 20 September 1995
[Dopo le ore che gli abitanti di Sarajevo passano/ in coda con taniche di benzina vuote/ per fare il pieno e spingerle a casa su passeggini,/ o in fila per pochi preziosi grammi/ di pane, la loro razione quotidiana,/ scantonando per evitare i cecchini,/ o faticando su per undici piani/ con l’acqua, diresti che le notti/ di Sarajevo dovrebbero essere vuote/ di gente a passeggio per le strade bombardate,/ ma stanotte a Sarajevo non è così:// i ragazzi passeggiano senza fretta,/ sagome nere impossibili da definire,/ maomettane, serbe o croate in tanto buio:/ sulla strada senza luci non si distingue più/ chi chiama il pane hjleb, o hleb o kruh./ Tutti prendono l’aria serale con passo tranquillo,/ non hanno torce, ma non per questo collidono/ a meno che non vogliano tentare un approccio/ quando l’ombra scura di una ragazza li attira.// Poi il radar tenero dei toni di voce/ rivela con i suoi segnali se le è gradita la corte/ Poi un fiammifero o accendino per la sigaretta/ e il ragazzo legge negli occhi di lei cosa lo aspetta.// Una coppia qui accanto ha certo superato/ il test del tono di voce e del fiammifero/ e credo che lui stia per prenderle la mano/ e portarla via dal posto dove stiamo,/ proprio su due crateri, dove, nel 1992,/ i mortai serbi mieterono la fila per il pane/ e le croste sanguinanti rimasero/ sull’asfalto con i cadaveri smembrati./ E ai loro piedi i crateri delle granate/ che fecero strage sono pieni d’acqua/ per la pioggia che è caduta tutto il giorno/ anche se ora le nuvole si son tolte d’attorno,/ lasciando sopra Sarajevo un firmamento/ che pare fatto apposta per un bombardamento./ Nelle pozze dei crateri il ragazzo vede/ i pezzetti e le schegge delle Pleiadi,/ riflesse nei profondi buchi neri della morte/ lasciati nell’asfalto dalle granate serbe./ La sagoma scura del giovane accompagna l’amica/ a dividere un singolo caffè in una bottega,/ fino al coprifuoco e lui le tiene la mano/ dietro ai sacchi di sabbia già usati per il grano. – in T. Harrison, Caronte, Torino 2003, pp. 26-29, traduzione di M. Bacigalupo] Quattro strofe asimmetriche, ma caratterizzate addirittura dalla rima baciata (“La materia bruciante è calata nello stampo smagato della rima baciata” – Bacigalupo, Prefazione, in V. cit. pag. VIII), dipanano la situazione paradossale dell’assedio di Sarajevo, la vita quotidiana che ostinatamente continua sovrapponendo la nascita di un amore alle vestigia di una strage, le schegge delle Pleiadi alle granate serbe, un singolo caffè al coprifuoco. Ma mi sembra particolarmente interessante la costruzione dinamica delle strofe, con la prima (11 versi) tutta volta a descrivere la vita degli assediati scandita dai due queuing, da dodging, struggling, walking, dalla sequenza quasi anaforica degli or (2) e of (4) e dalle coppie di rime baciate che si interrompono solo con l’ultimo verso dispari – non a caso introdotto da but – che invece rima con il primo della seconda strofa (9 versi) a sottolineare il capovolgimento della situazione con i ragazzi che passeggiano tranquilli nella notte, mentre un ulteriore mutamento viene introdotto da except negli ultimi due versi della seconda strofa che anticipano i tentativi di approccio descritti nella terza (4 versi, la più breve), formata da due coppie di versi introdotte entrambe da Then . La quarta strofa (la più lunga 22 versi, quasi la metà dell’intera poesia) sembra coniugare e fondere in un’alternanza estremamente stridente le due situazioni quella di una coppia che flirta e quella delle tragiche vicissitudini dell’assedio. Aggiungerei che bread ritorna nella prima nella seconda e nella quarta strofa, mentre queue nella quarta sembra ricordarci il doppio queuing della prima (così come water) e Sarajevo che appare due volte nella prima (con l’aggiunta di Sarajevans nel primo verso) che ritorna appunto solo nella quarta strofa. La fusione dei due opposti (che potremmo “romanticamente” sintetizzare in amore e morte) raggiunge la sua raccapricciante perfezione nell’ultima strofa quando il cielo sereno è considerato ideale per un bombardamento, e quando i frammenti e le schegge delle Pleiadi sono riflessi nei crateri lasciati nell’asfalto dalle granate. Solo i poeti hanno la facoltà di abitare le contraddizioni, ed Harrison lo fa magnificamente, ponendo inquietanti interrogativi alle nostre coscienze, suscitando empatia verso le vittime ed orrore per i potenti.
Ancora un’ultima considerazione su questa poesia: direi che l’autore ci propone una visione cinematografica in cui si passa dal campo lungo al primo piano, se non addirittura al primissimo piano, mentre l’ultima strofa è intessuta di flashback che consentono una rapidissima alternanza di presente e passato, quasi a voler sottolineare che quella guerra, quegli orrori sono tuttora presenti, anche in questa che non è che una semplice tregua.
– Zone periferiche del mondo culturale
Si può davvero pensare che l’Inghilterra sia una zona periferica del mondo culturale? Ovviamente no, ma esiste in quel paese una distanza incolmabile tra il centro e le regioni periferiche della nazione, e fra le classi sociali. “Grazie all’Education Act del 1944 lo studioso ragazzo Harrison potè frequentare le scuole superiori sino allora riservate all’alta borghesia, conoscere l’umiliazione di essere corretto nella pronuncia regionale e di classe appresa in famiglia (…)” (M. Bacigalupo, Prefazione, in V. cit. pag. VII). Questa è una delle tematiche ricorrenti nella poesia del poeta di Leeds: il ricordo delle proprie origini proletarie che entra in conflitto con l’intellettuale e il poeta che è diventato. Vediamo ad esempio questa poesia intitolata Fire-eater (Il mangiafuoco):
My father speaking was like conjurers I’d seen
pulling bright silk hankies, scarves, a flag
up out of their innards, red, blue, green,
so many colours it would make me gag.
Dads eldest brother had a shocking stammer.
Dad punctuated sentence ends with but…
Coarser stuff than silk they hauled up grammar
knotted together deep down in their gut.
Theirs are he acts I nerve myself to follow.
I’m the clown sent in to clear the ring.
Theirs are the tongues of fire I’m forced to swallow
then bring back knotted, one continuous string
igniting long-pen silences, and going back
to Adam fumbling with Creation’s names,
and though my vocal chords get scorched and black
there’ll be a constant singing from the flames.
[Mio padre parlava come quei maghi che avevo visto/ cavare sciarpe, bandiere, fazzoletti di seta,/ dalla bocca: rosso, blu, verde…/ i colori eran tanti che mi avrebbero soffocato.// Suo fratello maggiore aveva una balbuzie tremenda./ Papà concludeva le frasi con “ma…”./ Roba più grezza della seta: estraevano grammatica/ Che gli s’era tutta aggrovigliata nella pancia.// Le loro esibizioni io mi sforzo di ripeterle./ Sono il pagliaccio mandato a svuotare la pista./ Le loro lingue di fuoco devo ingoiarle/ per risputarle annodate, in un’unica miccia/ che dà fuoco a lunghi silenzi, e risale indietro/ fino a Adamo che inciampa nei nomi del Genesi,/ e per quanto le mie corde vocali finiscano bruciate,/ ci sarà un canto costante dalle fiamme. – in T. Harrison, Caronte cit., pp. 78-79, traduzione di M. Bacigalupo]
Sedici versi in rima alternata (abab/ cdcd/ efef/ ghgh) suddivisi in tre strofe (due quartine e un’ottava, che si può considerare una doppia quartina anche in virtù della struttura rimica), irte di consonanti e suoni duri sui quali inciampare, scanditi da alcune ripetizioni anaforiche (Dads – Dad vv. 5 e 6, Theirs are – Theirs are vv. 8 e 10), nei quali il proprio ruolo di clown e di mangiafuoco (leggi poeta) è messo in strettissima relazione con le difficoltà, culturali e mentali, che il padre e lo zio avevano con la lingua e la grammatica. Le immagini sono efficacissime in quanto i termini di paragone (il conjurer/prestigiatore e il Fire-eater/mangiafuoco) estraggono entrambi dalla bocca una materia (visibile: il groviglio di sciarpe, bandiere, fazzoletti e le lingue di fuoco), così come il parlante estrae dalla bocca una materia (udibile: le parole, più o meno sgrammaticate). Da questo punto di vista, forse, una parola chiave può essere tongue(s) che vale sia per lingua (organo del gusto nella bocca), che per lingua (idioma) e in questo caso in senso figurato come lingue di fuoco. Ancora: negli ultimi sei versi predominano i sinonimi riferibili al fuoco (le già ricordate tongues of fire – che tornano spesso nella poesia di Harrison – seguite da igniting, scorched, flames e perfino black inteso come effetto del fuoco che annerisce).
Questa poesia si ricollega evidentemente a Heredity (Eredità) che apre la famosa raccolta from “The School of Eloquence”:
How you became a poet’s a mystery!
Wherever did you get your talent from?
I say: I had two uncles, Joe and Harry –
one was a stammerer, the other dumb.
[Come sei diventato poeta è un mistero/ Dove cavolo hai preso il tuo talento? / Dico: avevo due zii, Jack e Harry – / uno era muto, l’altro balbuziente. – in V. cit. pp. 62-63, traduzione di M. Bacigalupo].
Una quartina fulminante nella quale con grande ironia (che definirei anche una caustica allusione ai rapporti di classe della società inglese) si collega, in un’opposizione che crea un senso di riscatto, una difficoltà/menomazione (stammerer, dumb) al talento poetico.
In effetti, Harrison, insieme con altri poeti di zone “periferiche” della Gran Bretagna (Ulster, Scozia, ex colonie, ecc.), contribuisce anche a mettere in crisi l’inglese modello (il cosiddetto BBC English) introducendo varianti regionali che come abbiamo visto erano, negli anni dei suoi studi, disprezzate e corrette.
Ci discostiamo ora dalla traccia ricavata dall’articolo di Rossana Valenti per aggiungere qualche nuovo elemento (avvertendo il lettore che non mi soffermerò sulle struggenti, famose poesie dedicate ai genitori che meriterebbero una trattazione a parte: mi limito a rinviarlo – oltre che a V. dove sono antologizzate – al link https://www.potlatch.it/poesia/la-poesia-della-settimana/tony-harrison-long-distance-interurbana-2/ dove è possibile anche ascoltare la lettura fatta dall’autore di Long Distance):
– Rapporto con la letteratura inglese
Gli elementi di ambiguità e di tensione fin qui riscontrati trovano ulteriori conferme nel rapporto con la letteratura inglese.
Troviamo ad esempio in V. una variante della tradizione tipicamente inglese della poesia sepolcrale: il poema è occasionato da una visita alla tomba dei genitori del poeta nel cimitero di Leeds, che diventa lo scenario dell’intera vicenda.
Possiamo riscontrare altresì spesso nella poesia di Harrison riferimenti ad alcuni tra i maggiori poeti inglesi; ecco di seguito un primo sommario spoglio delle maggiori evidenze: Byron, Wordsworth (benché attraverso casi di omonimia funzionali alla corrosività del poema in V. p. 5), ancora Wordsworth (Caronte, 91), Keats (V. pp. 53, 133), Thomas Gray (Caronte, 101-109), Shakespeare in vari luoghi, ancora Byron e Beckett in Wasted ink (Afrodite, pp. 14-21), Lawrence e Shakespeare in Un fico sul Tyne (Vuoti, pp. 78-89), ancora Keats in The ode not taken (Afrodite, pp. 62-63) William Dunbar, Byron, Seamus Heaney, Ted Hughes, (Poligoni).
Giovanni Greco individua nell’opera di Harrison una contrapposizione con il metodo di Eliot: “ (…) in polemica con il “metodo mitico” di eliotiana memoria che dell’intertestualità propone una visione riconciliata, quella della Waste Land, ma soprattutto quella dei Four Quartets.” (Afrodite, pp. 6-7); e più avanti “La polemica con Eliot e con il metodo mitico, conio eliotiano riferito all’Ulisse di Joyce, è una linea rossa che attraversa tutta la scrittura di Harrison” (Afrodite, p. 7).
Lascio ovviamente agli specialisti di letteratura inglese contemporanea ulteriori approfondimenti su questa polemica (e sui rapporti del nostro con la letteratura inglese), che tuttavia mi sembra confermare quanto asserito da Harrison nel brano dell’intervista sopra citato.
– Modernità di Harrison
Abbiamo visto quanto sia forte, imprescindibile per una seria analisi, il legame di Harrison con la cultura classica. Tuttavia è già emerso un primo elemento di modernità nell’uso “liberissimo e liberante” (Bacigalupo, Prefazione, in V. cit. pag. VII) che il nostro autore ne fa.
Altro elemento di modernità è il plurilinguismo ossia la capacità di mescolare elementi “alti” (citazioni classiche, letterarie, ecc.) con elementi “bassi” (realtà quotidiana o biografica, linguaggio scurrile – in particolare in V. le “crude four-letter word” che furono motivo di scandalo all’uscita del poema, a cui si aggiunge per bocca del teppista anche la parolaccia POET, – ecc.), l’antico e il moderno, nonché la “molteplicità dei registri” e l’ “uso del comico e del grottesco” (Bacigalupo, Prefazione, in V. cit. pag. VIII).
Possiamo aggiungere il polimorfismo, ovvero la capacità di utilizzare mezzi diversi (poesia, teatro, cinema, televisione); a tal proposito va però sottolineato che “Harrison ci tiene a dichiarare che i lavori teatrali e televisivi sono tutt’uno con la sua attività poetica, e insiste a definirsi «poeta», anche sul suo passaporto.” (Bacigalupo, Nota biobliografica, in V. cit. p. XVII). Come abbiamo visto le sue stesse poesie diventano corrispondenze dai luoghi di guerra e in quanto tali sono destinate non alla terza ma alla prima pagina; così potremmo dire che non si avverte cesura tra i vari elementi della sua poetica che confluiscono e si integrano nelle singole poesie senza soluzione di continuità.
Tornando ai testi, colgo una suggestione, dovuta forse ad una mia maggiore sensibilità verso questo tema (cfr. in questa stessa rubrica l’intervento sulla poesia di Barbara Korun), mettendo in evidenza tre citazioni:
Half versus half, the enemies within
the heart that can’t be whole till they unite.
As I stoop to grab the crushed HARP lager tin
the day’s already dusk, half dark, half light.
[Metà versus metà, i nemici dentro il cuore/ che non può essere intero finché non s’incontrano./ Mi inchino a raccogliere la lattina di birra schiacciata,/ il giorno è al crepuscolo, metà luce, metà ombra. – V. cit. pp. 24-25, traduzione di M. Bacigalupo]
I wanted you to watch with me from bed
that seamless merger of half dusk and dawn,
AURORA, rosy-fingered kind, and battleship
whose sudden salvo turned the East half red.
[volevo che spiassi dal letto con me/ il passaggio impercettibile dal crepuscolo all’alba:/ l’AURORA, sia dita-di-rosa che nave da battaglia,/ la cui salve improvvisa arrossò l’est. – The Viwless Wings (Le ali invisibili) in V. cit. pp. 52-53, traduzione di M. Bacigalupo]
I find I can’t, as if one couldn’t say
exactly where the night became the day,
[Io non ci riesco, come se non si potesse dire/ esattamente a che punto la notte diventa giorno – A Kumquat for John Keats (Un kumquat per John Keats) in V. cit. pp. 134-135, traduzione di M. Bacigalupo]
Trovo davvero interessante questa impossibilità di dire il momento del passaggio (dal giorno alla notte o dalla notte al giorno) e rinvierei alle pregnanti osservazioni di Gérard Genette, (“Il giorno, la notte” in Figure II, Torino 1972, pagg. 71-91) che, benché pensate per la lingua francese sembrano trovare riscontro anche in altre (italiano, sloveno e ora anche inglese): “La Natura, almeno alle nostre latitudini, passa insensibilmente dal giorno alla notte; la lingua invece non può passare insensibilmente da una parola all’altra: tra giorno e notte può introdurre qualche vocabolo intermedio come alba, crepuscolo, ecc., ma non può dire contemporaneamente giorno e notte, un po’ giorno e un po’ notte.”
Nell’approssimarmi alla conclusione di questo intervento, vorrei utilizzare un’altra citazione da una poesia del poeta di Leeds:
(…). The head and heart
are neither of them too much good apart
and peace comes in the moments that they’re blended
as cypress and cedar at this moment are.
My love, as prone as I am to despair,
I think the world of night’s best born in pairs,
one half we’ll call the female, one the male,
though neither essence need, in love, prevail.
We sit here in distinctly scented chairs
you, love, in the cedar, me the cypress chair.
[(…) La mente e il cuore/ non funzionano l’uno dall’altra separati/ e la pace viene in quei momenti in cui sono mescolati/ come cipresso e cedro sono in questo momento.// Amore mio, per quanto incline io sia al dolore,/ credo che il mondo della notte in due sia meglio tollerato,/ una metà che chiamiamo femminile, una maschile,/ benché né l’una né l’altra essenza devono, in amore, prevalere./ Noi sediamo qui in sedie distintamente profumate,/ tu nella sedia di cedro, io in quella di cipresso, amore. – Cypress & Cedar (Cipresso & cedro) in Vuoti cit. pp. 118-119, traduzione di G. Greco]
Ho posto in esergo di questo intervento una citazione da V. : “La penna è la sola bacchetta magica che ho.” (V., cit. p. 13); aggiungerei che la formula discors concordia (allusione ad un verso di Orazio riferito alle teorie di Empedocle, che troviamo successivamente anche nelle Metamorfosi di Ovidio), che torna a più riprese in Polygons come un refrain, potrebbe essere utilizzata per l’intera opera di Tony Harrison e sicuramente contribuisce a chiarire gli ultimi versi, insieme ad altri citati in precedenza. Quello che sembra inconciliabile (la mente e il cuore, il femminile e il maschile, il giorno e la notte, il teppista ed il poeta, ecc.), le contraddizioni stridenti che si incontrano nel corso della vita, sono assolutamente necessarie al suo sviluppo dinamico. Pertanto il lettore non si scandalizzerà se la lezione di poesia di Harrison si conclude con questa significativa quartina:
Both lessons in survival for fine words
to look for fodder where they’ve no yet looked –
be lepidoptera that browse on turds
or delicately drain the monster’s duct.
[Due lezioni di sopravvivenza perché le parole fini/ cerchino il cibo dove non l’hanno mai cercato,/ come lepidotteri che si saziano d’uno stronzo/ o prosciugano delicatamente il condotto del mostro. – The Poetry Lesson (La lezione di poesia) in V. cit. pp. 130-131, traduzione di M. Bacigalupo].In conclusione, allineandomi alla formula harrisoniana della discors concordia, vorrei affermare che il poeta di Leeds è allo stesso tempo classico e moderno, ovvero che, come sempre accade per i grandi autori, rende assolutamente inservibili queste usurate categorie superandole con l’originalità e la complessità del proprio lavoro.
Giancarlo Cavallo
La foto di copertina è di Marco De Gemmis
Le altre foto d’archivio documentano la presenza e la permanenza di Tony Harrison a Casa della poesia nel 2017.